"RETROFUTURO" di Vittorio Curtoni (Shake) |
"ROBOT - rivista di fantascienza" diretta da Vittorio Curtoni n. 20 - anno II - novembre '77 (Armenia Editore) |
"ROBOT" n. 41 diretta da Vittorio Curtoni (Solid Books 2003) http://www.fantascienza.com/robot/ |
CAPPELLETTO INTRODUTTIVO (in brodo...)
2001: PINGUINI NELLO SPAZIO
(notte tra il 2000 e il 2001)
i pinguini lanciano nello spazio una nuova
pagina:
decimo ospite del sito-rivista "i pinguini
nel sottoscala - letteratura dell'inquietudine
e dell'imperfezione", Vittorio Curtoni
ci accompagna con alcuni suoi incipit inediti
in questo passaggio di fine anno (secolo...
millennio!).
La forma scelta da Vittorio per farci compagnia
è quella dell'incipit: creatura incompiuta
e dunque imperfetta, pienamente rispondente
ad una delle idee che hanno dato vita alla
rivista.
Ciascun frammento è preceduto da un'introduzione,
abitudine ormai consueta dell'autore.
Siamo contentissimi di poter ospitare Vittorio
Curtoni nella nostra parte di ragnatela.
Secondo il nostro modesto parere l'autore
ha una grande capacità di creare storie e
immagini "poetiche" (chi ha letto
i suoi racconti sa cosa intendiamo) e le
sue "spiegazioni" introduttive
sono non solo indispensabili alla lettura
delle sue opere (per capirne la genesi e
il contesto) ma anche interessantissime per
conoscere le opinioni di uno scrittore e
le alterne vicende di un genere letterario
(la fantascienza, non solo in italia).
La sua disponibilità al confronto e alla
spiegazione riguardante i suoi parti letterari
ci sembra indice di umanità e modestia non
comune a molti. La maggior parte degli autori
tende a mitizzare la figura dello scrittore
e quindi la propria posizione giocando a
"fare" lo scrittore misterioso.
Dopo il piccolo cappelletto in brodo vi invitiamo
a gustare questi antipastini, in barba al
galateo culinario...
(i pinguini nel sottoscala)
"ROBOT - antologia di fantascienza"
suppl. al n. 22 - 1977
"La Sindrome Lunare e altre storie"
di Vittorio Curtoni
(Armenia Editore)
"DOVE STIAMO VOLANDO" di Vittorio Curtoni (La Tribuna Piacenza - Galassia 174 settembre 1972) |
"CIAO FUTURO" di Vittorio Curtoni (Urania Mondadori febbraio 2001) |
"CARMILLA" - febbraio 2001 contiene un intervento di Vittorio Curtoni (R&D) |
C'E' QUEL CHE C'E'
Frammenti inediti (in rigoroso disordine)
di VITTORIO CURTONI
Io sono uno che oscilla spesso tra estremi
in forte opposizione, in base alle situazioni
e agli umori del momento. Posso passare dall'allegria
mattoide alla cupa depressione in un amen,
tanto per fare un esempio, il che lascia
talora sconcertato chi mi vive accanto, soprattutto
mia moglie. Anche se devo dire che col passare
degli anni la mia stabilità media è in aumento.
Questa diciamo bipolarità (mi pare che il
termine clinico sia quello) si applica anche
alla mia scrittura: certe volte mi alzo da
letto con un'idea in testa e mi metto al
lavoro e nel giro di qualche giorno ho completato
il racconto (in alcuni casi ho scritto una
storia bell'e pronta per la stampa in una
sola mattinata); altre volte invece parto
con un'idea più o meno coagulata, più o meno
approssimativa (non sono di quelli che prima
di cominciare a scrivere preparano scalette
millimetriche), poi la pigrizia ha il sopravvento
e pianto lì tutto, anche nei casi in cui
la trama continua a stuzzicarmi. Sicché mi
ritrovo con un discreto pacchetto di frammenti,
che sono poi tutti incipit di racconti mai
conclusi, e quel che segue è un'antologia
di questi incipit che a tutt'oggi pochi occhi
oltre ai miei hanno letto. I Signori Pinguini
dicono che è una bella idea; io di preciso
non so. Comunque volevano qualcosa di mio,
e questo è quel che posso offrire. Chiedo
venia a chi dovesse trovare disgustoso il
tutto: prendetevela coi Pinguini.
FRAMMENTO NUMERO UNO: CLONI
Questa è una storia che avevo iniziato a
scrivere anni fa. L'idea globale è ancora
ben presente nella mia testa, e il risultato
finale dovrebbe essere, credo, un romanzo
breve. Mi ero messo all'opera dopo averne
parlato con Piergiorgio Nicolazzini, che
all'epoca lavorava ancora per l'Editrice
Nord e stava preparando il volumone natalizio
sui cloni. Eravamo in estate. Quando Piergiorgio
rientrò dalle ferie, mi chiese se avessi
finito il racconto, e dovetti rispondergli
di no. Ci rimase male, caro ragazzo. E' che
io di fronte ai progetti impegnativi divento
di un pigro pazzesco.
L'io narrante è un investigatore del futuro
spedito su un pianeta colonizzato dagli umani
a indagare su una misteriosa strage: qualcuno
ha chiuso in una stanza di una villa un'anziana
signora molto ricca, molto potente, assieme
a tutti i cloni della signora stessa e ai
cloni dei suoi figli, cloni numerosissimi
e di età variabile, poi ha appiccato il fuoco
e ha sterminato tutti. Perché? E' questo
il fulcro della storia, e mi venisse un accidente
se ve lo spiegherò. Ah, Cain è un clone dell'investigatore,
più giovane dell'originale, ed è anche il
suo amante: un tenero rapporto omosessuale
tra un uomo e la sua copia prodotta dall'ingegneria
genetica. Mi pareva, mi pare ancora un concetto
intrigante.
Reiter dice che il livello di carbonizzazione
dei corpi era tanto alto da rendere quasi
impossibile l'identificazione delle singole
vittime. Stamattina, appena sono arrivato,
voleva mostrarmi gli olo della stanza e dei
resti come sono stati ritrovati, ma ho rifiutato.
Con tutta la cortesia del caso, s'intende.
Non credo gli faccia molto piacere l'idea
di un sostegno investigativo dal pianeta
madre, e su questo come minimo siamo perfettamente
d'accordo: nemmeno io vorrei essere qui.
Gli ho fatto presente che risento ancora
del lag di ricostruzione molecolare, e che
comunque sono del tutto certo della perfetta
efficienza della sua squadra. Penso che questo
gli abbia restituito un minimo di sicurezza.
In ogni caso, le modalità dell'incendio e
le identità delle vittime sono già state
stabilite. Io sono qui per integrare dati
e portarli a un tutto coerente, non per occuparmi
dei singoli dettagli, di per sé insignificanti.
Sappiamo chi sono le vittime; sappiamo che
si è trattato di un incendio doloso: al di
là di questo, per me tutto il resto è superfluo.
Io devo indagare le motivazioni, non le tecniche,
i modi concreti. Qualcuno lo ha fatto perché
aveva un buon motivo per farlo. E' il chi
e il perché che devo scoprire, non altro.
E il lag è forte. Non è una scusa, è una
verità lampante. L'ho letto negli occhi di
Cain quando ci siamo rimaterializzati sulla
piattaforma. "Ho come un senso di nausea"
mi ha detto: il che è per lui una dichiarazione
davvero enorme, ai limiti del compromettente.
Gli ho stretto la mano per fargli riprendere
contatto con la realtà del qui e ora.
Ci hanno assegnato una buona casa, credo.
Grandi spazi aperti su questa immensa successione
di prati collinari che vediamo dal lato ovest,
su in salita verso
FRAMMENTO NUMERO DUE: TERRAFORMING SIMULATO
Anche questo dovrebbe diventare un romanzo
breve, e anche questo è piuttosto complesso,
e a essere sincero non so ancora come potrei
concluderlo. E' un po' una cosa in stile
"omicidio nella stanza chiusa a chiave":
ci sono questi tizi che stanno eseguendo
un progetto di ricerca top secret, un terraforming
(o una terraformazione, se preferite) in
realtà virtuale, col tempo che viene accelerato
o decelerato secondo i casi per studiare
le meccaniche del processo; e un bel giorno
trovano, all'interno della loro realtà virtuale,
il cadavere vero di una donna. Chi è costei?
Da dove viene? Perché è lì? Come ha fatto
a entrare? E chi lo sa? Io no di certo. Però
secondo me potrebbe saltarci fuori qualcosa
di buono.
"Signori" dice Friedman, guardandosi
attorno "abbiamo un problema."
Ora Stills lo fissa dall'altro lato della
scrivania, che è scura. Vero mogano, probabilmente.
Ninnoli dall'aria innocua occupano l'ampia
distesa del piano, però sembrano d'oro, e
devono essere costati una fortuna: una clessidra,
un mappamondo incastrato in un'intelaiatura
a losanga, una zucca di Halloween, un atleta
con le braccia alzate. Tutto piccolo, minuscolo;
un universo miniaturizzato che senza dubbio
non si ribellerà mai ai desideri del signore
e padrone.
Il mondo di un entomologo, pensa Stills,
che dirige un mondo di uomini. Di primo acchito,
Friedman non gli piace. Ha sempre odiato
la gente che tenta di ridurre le cose alle
proprie meschine dimensioni. Infatti il megaschermo
alle sue spalle è spento, come i due monitor
sistemati ai lati dell'ufficio, a destra
e sinistra, a ridosso delle pareti. Del resto,
Stills non ha alcun desiderio di vedere le
immagini che potrebbero essergli presentate
lì.
Ha sonno, è stanco. Ha anche un'enorme voglia
di scopare Marielle, e comunque vorrebbe
essere altrove. Da qualunque altra parte,
tranne che lì.
"Abbiamo un problema" gli dice
Friedman.
Stills annuisce. Non è una rivelazione troppo
sconvolgente. A immaginare tanto era già
arrivato da solo. Sta zitto e aspetta che
sia l'altro a scoprire le carte. Non esiste
tattica migliore.
"Lei sa qualcosa di realtà virtuale?"
gli chiede Friedman.
"Quel che sanno tutti. Cazzate. A dire
il vero, l'età dei giochi me la sono lasciata
alle spalle da un pezzo."
"Qui non stiamo giocando." Friedman
è secco. Irsuto. Abbassa la testa in un cenno
d'assenso che non ha motivo d'essere.
"Posso essere franco? Lo sospettavo.
Mi hanno tirato giù dal letto per farmi correre
qui. E' ovvio che non si tratta di un gioco."
Friedman sospira. Ha esattamente l'aria del
Gesù Cristo voglioso di un nuovo calice di
fiele. Il bicchiere della staffa. Le finestre,
attorno a lui, sono tutte chiuse. Il sibilo
discreto dell'aria condizionata riempie ogni
silenzio, rende le cose forse un po' meno
imbarazzanti. Ma la musica del martirio muto
non è per questo meno dissonante.
"Non sono autorizzato a entrare nei
particolari. Dovrà accontentarsi di una panoramica
generale piuttosto approssimativa. Mi spiace."
Per sottolineare il suo rammarico, apre un
cassetto della scrivania, afferra un paio
d'occhiali con la montatura di metallo, molto
leggera, e li inforca con l'atteggiamento
indolente di chi non ha nulla da perdere.
Le lenti sembrano affumicate; sono grigie,
solcate da venature blu. Lo fanno apparire
ancora più distante, e distaccato, e superiore.
Dio onnipotente, o il suo vicario in Terra.
Stills sta cominciando a incazzarsi. "Perché
ha fatto svegliare proprio me, professore?
Non era meglio chiamare la CIA? Qualcuno
che si porta in giro i visti di sicurezza
appiccicati al culo?"
Sorprendente: Friedman scoppia a ridere.
Di gusto, come un ragazzino che abbia appena
sentito la barzelletta sporca dell'anno.
"La CIA?" singhiozza, tra esplosioni
di risate e colpi di tosse che devono qualcosa
a un'asma antica, radicata. "Ma lei
lo sa cosa pagherebbero quelli per mettere
piede qui dentro? Per favore."
Fuori sta piovendo, o così pare dai ticchettii
discreti che risuonano contro il metallo,
dietro i vetri delle finestre. Giusto, era
previsto. Un'altra giornata di merda.
Lake, Anderson e Young sono ancora in simulazione.
Riuniti nell'abitacolo tempopressurizzato.
Il viso del cadavere, che tutti e tre hanno
visto, pulsa debolmente alla periferia dei
loro nervi ottici. Così incongruo, così reale.
Non hanno avuto il coraggio di abbandonarlo
nella galleria. Non lo hanno trascinato dentro,
questo no; ma sono rimasti su ZeroWorld.
Pareva l'unica cosa adatta da fare, l'unico
estremo omaggio da rendere.
Anderson raccoglie una birra dal frigorifero.
Non vuole bere, però appoggia le mani attorno
al vetro della bottiglia, per rubarle il
velo di umidità. Gli accade spesso di sentirsi
come disseccato, inaridito, quando è in simulazione,
e quello di certo non è il migliore dei giorni
per le sue avventure nella realtà virtuale.
Lake guarda l'orologio. "Tra un po',
io stacco. Tanto credo che per oggi non si
combinerà niente. L'acceleratore è in funzione?"
Anderson si gira, scuote la testa. "No.
Hanno disattivato il timer. Per forza. Se
no..."
Young si gratta il naso. Gli tornano alla
mente diverse scene di vecchi film dell'orrore,
la robaccia antica su nastro che lui continua
a preferire alle olomatrici. Una in particolare:
il finale di La vergine di cera, una delle
opere più rare del suo idolo, Roger Corman.
Quando la ragazza, sotto gli occhi stupefatti
di Jack Nicholson, si decompone a un ritmo
inarrestabile, si riduce a un ammasso di
ossa. Divorata dalla sabbia del tempo.
FRAMMENTO NUMERO TRE: INDIANI
Questo ha parecchi anni sulle spalle. Doveva
(o dovrebbe) essere un racconto dell'orrore:
l'amministrazione della mia città, Piacenza,
invita una tribù di pellerossa specializzata
nel riciclaggio di... Ah no, questo non ve
lo dico. Poi arriva qualcuno e mi frega l'idea.
Sono mica scemo.
Gli era parso tutto molto assurdo, all'inizio.
Le bandiere, gli striscioni, la banda, il
sindaco in pompa magna. Non che fosse andato
alla cerimonia in piazza: non partecipava
mai a cose del genere, per principio. Odiava
l'aria provinciale di quelle manifestazioni;
la fuggiva come, presumibilmente, il demonio
fugge l'acqua santa; ma nella morbida intimità
della casa, dopo cena, con niente da fare,
niente a cui pensare, mentre sua moglie sistemava
i piatti nella lavastoviglie, si era sintonizzato
sul canale della televisione locale (La televisione
più becera e reazionaria dell'universo, come
amava ripetere a se stesso, se non c'era
qualcun altro a dargli retta) e aveva visto
tutto in replay.
Quale grandioso squallore. Quale sublime
miseria. Le viscere della provincia italiana
aperte, sventrate, esposte al ludibrio col
loro inenarrabile contenuto di sangue e feci:
il palco sotto il palazzo gotico, nella piazza
centrale; il gruppo folk in un angolo, pronto
a esplodere nelle sue nenie da festa di paese;
il tavolo dei rinfreschi, spazzato dal vento,
concupito dagli occhi di tutti; il sindaco
che terminava il suo discorso e stringeva
le mani al capo indiano (gliele stringeva
tutte e due, per rendere più significativo
il gesto, per immortalare il trattato di
pace fra gli uomini delle pianure e la tribù
venuta da chissà dove); l'intervistatore
imbecille che ripeteva il rosario letargico
delle sue domande, buone per ogni giorno
del mese, per ogni mese dell'anno.
In parole povere, la solita merda.
"Micio, ma cosa ci fanno quelli lì qui
da noi?" aveva urlato sua moglie dalla
cucina. Naturalmente, avevano due televisori;
naturalmente, tutti e due a colori; e naturalmente,
anche se erano separati da un paio di pareti,
Annamaria stava seguendo lo stesso programma,
e chiedeva la sua opinione.
"E che cazzo vuoi che ne sappia?"
aveva strillato lui, abbassando sul tavolo
il bicchiere di birra. "Il sindaco lo
hai sentito anche tu, no? Sono indiani. Indiani
d'America. Io pellerossa, tu viso pallido,
me squaw, roba del genere. Hanno un nuovo
sistema di riciclaggio."
Un tintinnio di vetri. Probabilmente, lei
aveva sistemato un bicchiere nella lavastoviglie.
"Ma cosa riciclano?"
"E io cosa ne so?" In definitiva,
fra tutti i discorsi delle autorità, l'unico
punto oscuro era proprio quello. "Scorie
industriali, materiali radioattivi, schiume
di detersivi... Gesù, non lo so."
E lei, imprevedibilmente, si era presentata
sulla soglia del soggiorno, con un piatto
in mano, e i grandi occhi azzurri nascosti
sotto le palpebre abbassate a metà, e gli
aveva chiesto: "Ma cosa vuoi che ne
sappiano di riciclaggio, gli indiani?"
E lui si era sentito inchiodato come una
farfalla trafitta da un entomologo, come
uno scarabeo catturato da una rete; e senza
una parola, disfatto dalla consapevolezza
della propria ignoranza, aveva annuito. Poi
aveva schiacciato il pulsante del telecomando
per cambiare canale.
Più tardi, aveva scopato sua moglie con la
furia di chi si guarda attorno in cerca dei
segni che gli indichino la fine del mondo.
FRAMMENTO NUMERO QUATTRO: MIA MOGLIE
Incipit recentissimo, di quest'anno (2000
A.D.). E prima o poi questo racconto lo finirò.
E' dedicato a e incentrato su mia moglie,
Lucia, che vive con me da più di venticinque
anni, e della quale vorrei narrare ciò che
so. Ciò che ho capito. Con contorno di ologrammi
e macchine per trasfusioni di personalità.
E' lei la donna che si guarda bambina, in
una fotografia che esiste davvero in casa
nostra, su un tavolino a fianco del divano.
Un giorno l'ho fissata a lungo e mi è venuto
in mente il plot. Adoro le illuminazioni
mistiche.
Piano, ecco, sì, così. Mai afferrare la cornice
con troppa forza. Non ci vuole niente a risvegliare
i fantasmi.
Lei guarda la fotografia, e si ritrova bambina:
stupefatta. Davanti al mondo, alle cose.
Sta sorridendo. No, è imbronciata. L'abito
le arriva sopra le ginocchia. Tiene le dita
delle mani intrecciate, in un minuscolo gesto
di autodifesa che sembra tanto spontaneo.
Tanto innocente. Ha scarpe bianche, e calze
bianche. Ha strani fiocchi, incredibili,
obsoleti, sulle due frange di capelli ai
lati della testa. E l'automobile alle sue
spalle è un dinosauro.
Com'ero piccola, pensa.
Si guarda. Si studia. E' passato un secolo.
Sono passate tre vite. E' passata l'intera
storia del mondo.
Ma la paura di essere abbandonata, quella
no. Mai. E' il suo tesoro più prezioso, e
nessuno glielo toglierà.
"Io non volevo lasciarti" le dice
l'ologramma di suo padre. Che ha cinquant'anni,
ed è l'uomo cordiale, affidabile, che lei
ha sempre amato. "Non volevo morire.
Insomma cazzo, non l'ho fatto apposta!"
C'è un alone verdastro che parte dalla base
del cerchio bianco e sale su, su, tutt'attorno
alla figura di suo padre. Una zona frastagliata
di aria troppo densa di colori. Innaturale.
Lei prova a immaginare di infilare una mano
in quell'area di confine, e rabbrividisce:
si svelerebbe l'inganno. Si inarcherebbero,
come serpenti di mare irritati dal passaggio
di troppe superpetroliere, le squame della
realtà. E poi.
Accende una sigaretta, tira due boccate di
corsa, esala il fumo. Il vizio non lo ha
mai perso. Fissa suo padre. "E poi",
dice "quando eri vivo tu non dicevi
le parolacce."
"Oh cazzo." Suo padre ha un attacco
di riso. "Stava cominciando a insegnarmele
tuo marito. Dov'è? Non lo vedo?"
Lei sbuffa, annaspa sul fumo. "E' fuori.
Aveva da fare. Tra un po' torna.
FRAMMENTI NUMERO CINQUE E SEI: MY OWN PRIVATE
UNIVERSE
In questi due incipit corre la stessa idea:
un universo parallelo, magari simulato in
realtà virtuale, nel quale la logica del
vizio e della virtù è capovolta. Essendo
io uno che ama mangiare, bere, fumare, insomma
disordinare in tutti i modi possibili, trovo
la prospettiva estremamente gratificante.
Non appena la realtà virtuale diventerà una
cosa seria, mi dedicherò con scrupolo professionale
alla creazione dei miei universi goderecci.
CINQUE:
Il medico lo visitò con estrema attenzione.
Era un professionista, e si vedeva. Uno al
quale non sfugge niente.
"Senta, ma lei quanta cioccolata beve
al giorno? E bella calda, intendo. Bollente.
Una buona torcibudella." La prescrizione
doveva essere molto divertente, perché il
medico si mise a ridere.
"Ah, no, guardi, la cioccolata non la
vuole proprio vedere" disse la moglie
del paziente, sorseggiando il bourbon che
le aveva prescritto il suo ginecologo. "Gli
faccia bere acqua minerale, o acqua del rubinetto,
ma la cioccolata..."
"Ah, be', se uno vuole rovinarsi il
fegato da solo..."
Il medico andò a sciacquarsi le mani sotto
il cognacrubinetto del lavandino. Tanto per
gradire, e per rendere omaggio, bevve un
sorso; ma in quei quartieri popolari si era
ben lontani dal Napoleon delle zone residenziali.
Poi tornò in soggiorno.
"Mia cara signora, non vorrei sembrare
troppo catastrofico" disse, abbassando
la voce. Il paziente riposava nella stanza
accanto, ormai quasi assopito, dopo le iniezioni
di Polieccitante che il medico gli aveva
fatto. "Ma suo marito ha il fegato a
pezzi. Come mai? Non beve cioccolata? E a
whisky, come andiamo?
SEI:
Martedì. 13.00
A pranzo con Maurice. Carissimo amico, uomo
dal potente intelletto, ma è magro da fare
spavento. Non mangia. Di fronte al maestoso
piatto di lasagne alla bolognese che l'ossequiente
cameriere gli ha portato, Maurice ondeggia
in un'esitazione penosa.
"E dai, almeno assaggia" gli dico,
affondando la forchetta nel mare di pasta
verde affogata tra ragù e besciamella. "Cristo,
guarda che sei su una brutta strada."
Devo avere alzato un poco la voce, perché
qualche cliente, ai tavoli vicini, gira la
testa verso noi: omoni sani, floridi e rubizzi.
Gente dai centoventi chili in su. Classici,
classicissimi ritratti della salute.
Mi schiarisco la gola con tono imperioso.
Non mi va che qualcuno, chiunque sia, ficchi
il naso nelle mie conversazioni private.
Le teste si ritraggono di scatto, tornano
a chinarsi su maccheroni e panzerotti e baccalà
e arrosti misti. Dio, un po' di decenza.
"Non ho appetito" mi confida, in
punta di voce, Maurice. Come se non me ne
fossi già accorto.
"Con gli antipasti te la sei cavata
mica male" lo incoraggio. Bisogna sempre
spronarli, questi tipi anemici. "Dacci
sotto con le lasagne. E vedi di far fuori
quel maledetto bottiglione, per favore. Il
vino s'inacidisce in fretta."
Praticamente, non ha ancora assaggiato un
goccio di barbera doc. Mi sorge un dubbio.
"Preferivi il bianco?"
Lui scuote la testa. Pensoso, depresso. "E'
che sono..."
Un silenzio imbarazzato. Ma dove siamo, in
confessionale?
"Sei?" sollecito.
"Sono astemio." Detto a voce bassissima,
tremula.
Il troppo è troppo.
"Ah, no, mi spiace" ruggisco maestoso.
Suppongo che per dare il giusto effetto drammatico
alla scena dovrei alzarmi di scatto, rovesciare
all'indietro la sedia, schiaffeggiarlo o
qualcosa del genere. Suppongo. Il punto è
che quando pesi centosessantadue chili, certe
cose non ti riescono troppo facili.
Così, senza nemmeno sollevare gli occhi,
a bocca schifosamente piena, gli sussurro:
"Chi è la testa di cazzo che ti ha inserito
nella mia programmazione? Non tollero gli
astemi. Non li ammetto alla mia tavola. Via,
sciò. Sparisci. Vai a farti dare una rinfrescata.
Io ti voglio bene, ma c'è un limite a tutto."
E lui scompare. Sia ringraziata la provvidenza
del computer.
Bisogna pur tracciarla una linea da qualche
parte, no?
Gli astemi, mai. Mai.
Mercoledì. 16.00
Sei appena arrivato in ufficio, e vengono
già a romperti le palle. Che universo di
merda.
Ma c'è una riunione sindacale. Non ci si
può sottrarre. Questioni importanti. Decisive.
E' in gioco la mia dignità di dirigente di
sei o sette (ho perso il conto. Qualcuno
mi aiuti) multinazionali.
Il sindacato chiama. E io accorro.
Le proposte del consiglio d'amministrazione
sono assolutamente inaccettabili.
"Stimati colleghi" ululo, girando
lo sguardo truce lungo il tavolo delle trattative,
"i padroni stanno tentando di portare
avanti la solita mossa reazionaria, camuffata
da mano tesa!"
Cenni d'assenso. Sono tutti dalla mia parte.
E vorrei vedere. Sono tutti miei cloni. Una
mente, un corpo, un pensiero. E' il mio motto.
Il nostro motto.
"Pretendere di ridurre l'orario di lavoro
dai tre quarti d'ora attuali a una semplice
mezz'ora, con un raddoppio dello stipendio
netto e un incremento pensionistico del trenta
per cento l'anno, significa svilire in maniera
irrimediabile la nostra professionalità!
Cosa siamo? Pagliacci? Buffoni? Servi del
potere? Marionette?"
Questa parola ha sempre un effetto micidiale.
A nessuno dei miei dieci io seduti a questa
tavola piace immaginare di essere manovrato
da fili che scendono dall'alto. La libertà
prima di tutto. L'integrità professionale.
Cose che non si comperano a chili, e nemmeno
a etti, al mercatino delle pulci.
Vigorosi mormorii in perfetta assonanza con
le mie rimostranze. A noi non ci fregano.
"Allora è deciso. Sciopero duro di diciassette
minuti. Domani. Li piegheremo!"
Anche questa è fatta.
FRAMMENTO NUMERO SETTE: RISVEGLIO
Un altro romanzo breve abortito. Una donna
che si risveglia dopo anni dall'ibernazione,
su una stazione spaziale. C'è stato un grave
incidente nel laboratorio di ricerca nel
quale lavorava. Suo marito è morto. La donna
è stata attaccata da un virus sconosciuto,
e così la hanno ibernata in attesa di trovare
una cura. Comincerà a vivere una situazione
famigliare leggermente incasinata: un suocero
chiaramente invaghito di lei, un bambino
che non è suo figlio ma il clone giovanissimo
del marito defunto... Eccetera.
Sì, lo so, ho l'ossessione dei cloni. Li
trovo un concetto terribilmente affascinante.
Il ritorno della coscienza è un processo
lento, graduale. Millimetrico. Parte dall'alto,
dalla testa, e scende giù come un fiume.
Un fiume invasivo, un torrente in piena:
sfocerà in un delta? O in un estuario? E
ci saranno ombre, al tramonto? Uccelli sulle
rive del mio corpo?
Posso cominciare a guardarmi. Una parte di
me è già viva. Si muove. Le palpebre si muovono,
in un arco solenne, a tracciare le volte
del cielo, le ampie arcate di metallo che
sono il soffitto di questa stanza. Asettiche,
fredde. Come me. Tutto è così freddo, qui
dentro. L'apocalisse del gelo. Portatemi
un pinguino, è mio fratello.
Io non respiro. Non ho il minimo controllo
cosciente sull'alzarsi e l'abbassarsi del
mio petto. Quindi, non respiro. Eppure, nessuno
si affanna attorno a me con maschere a ossigeno.
Sono abbandonata alle volubili decisioni
di una macchina, alle sue inclinazioni del
momento; e se preferisse abbandonarmi? Se
non volesse collaborare? Non sarei più sola
di adesso, ma la mia fine sarebbe certa.
Matematica. Un'equazione sbagliata, e via,
puf, sei svanita dall'esistenza. Incognita
non risolta, ma eliminata.
Perché sto pensando queste cose? E sono proprio
miei, questi pensieri? Non saranno del gelo?
Mi scruto. Il mio io nudo è disteso su un
tavolo d'acciaio grigio come l'odore dei
miei pensieri. Non posso, per il momento,
girare la testa. Non sono in grado di modificare
o selezionare l'input di dati. Vedo quello
che riesco a vedere, e basta. Ma mi ricordo
di me. Di questo, per lo meno, ho consapevolezza.
Un arco sottile, costellato di spie luminose,
e quadranti, e spazi vuoti, procede lento
sulla lunghezza del mio corpo. Si ferma,
e fa qualcosa al freddo. Lo uccide. Adesso,
ecco, è all'altezza dei miei seni. Si blocca.
Fa quello che deve fare.
Meraviglioso, sublime ponte tecnologico.
Mi stai restituendo alla vita. Io ti amo,
per questo. Ti amerò sempre. Te lo prometto.
Non ci separeranno mai.
E' il tuo parto che mi restituisce alla vita.
E io te ne sono grata.
FRAMMENTO NUMERO OTTO: MISTERO
Di questo non ricordo proprio nulla. Non
so quando l'ho scritto né quale storia volessi
raccontare. Mah. Se sta sul mio hard disk,
in mezzo ai miei racconti, deve essere mio,
ma non chiedetemi di più.
Com'è volato il tempo, amore mio.
E sì, lo so, vent'anni fa mi sarei lasciato
tagliare le palle, se solo avessi corso il
rischio di dire una fesseria del genere,
di abbandonarmi alle spiagge dorate, ma tanto
insipide, tanto sciroppose, del luogo comune;
eppure oggi, vedi, in questa grande retrospettiva
del passato, in questo colossale technicolor
della memoria, trovo che il luogo comune
abbia un suo sapore persino aspro, se davvero
lo sai gustare sino in fondo.
La splendida banalità dei discorsi di tutti
i giorni.
Perché credimi, il tempo è volato sul serio,
e né tu né io siamo riusciti ad acchiapparlo.
E' scappato, perso per sempre. Uscito dalla
nostra gabbia. Come quel pappagallino che
avevamo anni fa.
Ti guardo, sdraiata sul divano. Dormi. E'
presto, ma dormi già. La stanchezza, le ansie.
Lo stress. Nessuno te lo ha mai detto, ma
non puoi gestire il mondo da sola. Era una
delle cose che avrei voluto insegnarti. Non
ce l'ho fatta. Colpa mia.
Dormi, e io me ne sto qui davanti al nostro
maxischermo, con le cuffie sulle orecchie,
per non disturbare il tuo sonno. Mezza parete
di video. Dolby surround. Chi se ne frega.
Tu dormi, e quindi non parli. Sogni, forse.
Spero. Spero soprattutto che i sogni ti siano
clementi. Sei così dolce, nel sonno, con
le mani strette a pugno (ah, quelle sì! Sempre),
e i capelli sul cuscino. Il viso non troppo
rilassato, solo un poco più del normale;
e nel sonno, immagino, rivivrai gli epici
conflitti del tuo ufficio, le corse della
giornata, le parole di rassicurazione raccontate
a tua madre al videotelefono (quando lei
non vuole mai mostrarsi, perché ha paura
di farsi vedere, ma tu, tu devi mandarle
la tua immagine, se no si preoccupa, se no
teme chissà cosa), le discussioni con me
su quel vestito che credevi mi piacesse e
invece non mi piace, non mi è mai piaciuto,
non lo posso sopportare...
Tra un po', appena sarà finito il film, dovrò
svegliarti. Prima preparerò il letto, sprimaccerò
i cuscini, abbasserò le lussuose tapparelle
elettriche delle nostre finestre da soffitto;
adatterò a te, nei limiti del possibile,
l'ambiente; e ti sveglierò.
Tu camminerai come in trance dalla cucina
alla camera da letto, ti butterai sul materasso,
mormorerai la buonanotte, mi stringerai per
un attimo la mano. E non ti sarai lavata
i denti. Non hai mai il tempo nemmeno per
quello. Cristo.
Sul mobile dietro la mia testa, dalla mia
parte del letto, ci sarà la bizzarra pianta
rosa che hai comperato da qualche giorno.
Mi inquieta. Mi ricorda troppe storie di
invasione aliena, di creature che strisciano
nella notte per produrre cloni di esseri
umani, per impadronirsi del nostro pianeta.
E così, forse, domattina io mi sveglierò
e non sarò più io, ma qualcosa d'altro, una
creatura venuta dallo spazio profondo senza
anima, senza sentimenti, senza più amore
per te...
No, in effetti non ho poi molta paura di
quella pianta. Non troppa. Quello che mi
chiedo, e quello che vorrei chiedere a te:
perché le piante? Perché le ami tanto? Perché
le curi così?
Io credo di saperlo. Io forse lo so. Perché
sono vive, ma non si muovono, e non parlano,
non fanno rimostranze, non ti caricano di
sensi di colpa. Tu le curi, e loro vivono.
Non hanno bisogno di rassicurazioni, di analisi,
di buoni sentimenti. Ti dimostrano di volerti
bene semplicemente vivendo, e tu non chiedi
altro.
Nel tuo giusto, sacrosanto trionfo della
vita. Costi quello che costi.
E PER FINIRE IN GLORIA, UN MICRORACCONTO
COMPLETO:
LE TRAPPOLE DELLA POESIA
Ebbene sì, questo non è un frammento, ma
un raccontino piccino picciò compiuto. L'ho
scritto attorno a Natale del 1999, per rispondere
alla dolce richiesta di un amico che fa l'incisore,
Roberto Tonelli (è bravissimo), e ogni anno
a Natale pubblica alcuni microlibri, le Briciole,
con un testo minimo corredato da una sua
incisione che lo illustra. Ora esiste una
Briciola del sottoscritto con queste righe
e la deliziosa incisione di Roberto. Ne sono
smodatamente orgoglioso.
Il Paolo Maurizio coprotagonista (con me)
della storia è il Bottigelli, bancario per
necessità e poeta per vocazione. Uno dei
più grandi poeti dei nostri giorni, al quale
manca solo la fama che gli spetterebbe ampiamente.
Mondo bastardo.
Un bel dì passeggiavo con Paolo Maurizio
in una stradina piacentina. Una di quelle
viuzze strette strette che celano sempre
l'inghippo. Sapete com'è.
Comunque, egli è poeta, io sono prosatore;
sicché si procedeva a forza di figure retoriche
sparate a tutto spiano. E bla bla bla. Finché,
a un certo punto, Paolo Maurizio non scompare,
inghiottito dal selciato.
Mi chino a guardare, e da sotto mi giunge
un flebile gemito: "Aiuto, Vittorio!
Sono caduto in una metafora!"
Era proprio sprofondato fino al collo. "Una
metafora poetica o prosastica?" gli
strillo.
"Poetica, poetica" risponde lui,
con un filo di voce.
Estraggo dal giubbotto la mia corda per Metafore
Poetiche e gliela lancio. Inutile: non arriva
nemmeno lontanamente alle sue mani.
"No" gli strillo, "tu sei
caduto in un'iperbole!"
E corro a chiamare i Vigili del Linguaggio
Retorico.
Tanto poi, è chiaro, l'intervento lo pagherà
lui.
Vittorio Curtoni (S. Pietro in Cerro, 1949) Già dalla Laurea in lettere dimostra di avere
intenzioni fantascientifiche, visto che i
suoi sforzi si dirigono verso "La Fantascienza
in Italia dal 1952 ad oggi" (è il 1973).
La tesi viene successivamente pubblicata
dalla casa editrice Nord con il titolo "Le
Frontiere dell'Ignoto" (vincitore nel 1978, a Bruxelles, del premio
come miglior saggio europeo sulla fantascienza). E' considerato unanimamente uno dei più
grandi artefici della diffusione italiana
della Fantascienza, grazie soprattutto alla
sua attività di fondatore e curatore di riviste
e fanzine negli anni '60 e '70 ("Nuovi
Orizzonti" con Luigi Naviglio, "Galassia"
e "Science Fiction Book Club" con
Gianni Montanari, "Robot", "Aliens",
"Omicron", "La rivista di
Isaac Asimov") nonchè curatore di collane
librarie ("I libri della paura"
con Giuseppe Lippi, "Horror" per
la casa editrice Armenia e "Fantascienza"
per la Sperling & Kupfer Editori).
Traduce dall'inglese (finora ha macinato
circa 300 volumi per svariate case editrici)
ed è abile scrittore. Ha pubblicato racconti
su riviste specializzate (ricordiamo anche
l'antologia personale "La Sindrome Lunare
e altre Storie" per Armenia Editore,
1978), il romanzo "Dove stiamo volando"
(La Tribuna Editrice, 1972) ed il saggio "Guida alla Fantascienza" in collaborazione con Giuseppe Lippi (Gammalibri, 1978). Attualmente scrive su quotidiani ("Il
giorno" e "Libertà") e mensili
("Piacentini", "Delos").
Alcuni suoi racconti sono stati riproposti
di recente nell'antologia "Retrofuturo"
(Shake Edizioni Underground, 1999). Del febbraio
2001 è l'antologia "Ciao Futuro",
nella collana Urania della Mondadori.
Attualmente è di nuovo direttore di Robot
che viene ripubblicato da Solid Books partendo
dal numero 41 (http://www.fantascienza.com/robot/).
Tra le sue più recenti traduzioni si segnalano
in particolare "Acqua, luce e gas"
di Matt Ruff (Fanucci Editore), "Le
sorelle Marx" di Barry Maitland (Meridiano
Zero) e i volumi "Le Presenze Invisibili"
che raccolgono i racconti di Philip K. Dick
(Arnoldo Mondadori).
"I MONDI DI DELOS" a cura di Franco Forte e Ubik contiene un racconto di Vittorio Curtoni (GE Garden Editoriale) |
"DRACULA 2000" a cura di Valerio Evangelisti contiene un racconto di Vittorio Curtoni (I Libri dell''Altritalia) |
"STRANI GIORNI" a cura di Franco Forte e Giuseppe Lippi contiene un racconto di Vittoiro Curtoni (Mondadori) |