"A MANI VUOTE" di Valerio Varesi (Frassinelli, 2006) |
"L'AFFITTACAMERE" di Valerio Varesi (Frassinelli, 2004) |
"IL FIUME DELLE NEBBIE" di Valerio Varesi (Frassinelli, 2003) |
AELIA LAELIA CRISPIS
di VALERIO VARESI
Cammino ormai da ore tra gaggie, stoppie
e palizzate di mais. Sento spuntare una gemma
di rassegnazione di fronte a questa campagna
muta sotto un cielo che è una bocca di fornace.
Vedo la città mandare bagliori, ma io continuo
a lambirla girovagando senza una direzione
precisa come d'autunno a caccia. Non so perché
ho intrapreso questa avventura velleitaria.
Sarà che gli anziani tornano bambini e ricominciano
a giocare. Oppure sarà proprio per immaginarmi
bambino in questi luoghi dopo tanti, troppi,
anni.
Ricordo poco di quel tempo. La mia nascita
è stata a lungo un imbarazzante mistero nel
quale non ho voluto addentrarmi mai prima
di oggi. A nessuno piace rivelare d'essere
un bastardo. Soprattutto a se stessi. O,
come hanno sempre più dolcemente sussurrato
le suore, un trovatello. Mi hanno raccolto
i monaci di Casaralta in una greppia, come
Gesù. E' una storia di prima dell'ultima
guerra. E forse, senza la guerra, adesso
saprei come stanno le cose. Ma le bombe del
'44 hanno spezzato per sempre il filo della
memoria. Tutto distrutto: monastero, carte,
ricordi. E per fortuna anche le miserie.
Ora sono di nuovo qui dove mia madre mi lasciò
frettolosamente, forse senza rimpianti.
Non è facile rammendare un passato con troppi
buchi interrogando i vecchi nelle osterie
o in case isolate dove conducono strade bianche.
Anche se, con molti di loro, miei coetanei,
ho magari giocato o tirato di fionda. La
vecchiaia è l'età meno incline ai ricordi.
Gli anni annebbiano e arrotondano i contorni
come la neve. Tutto diventa impreciso, approssimato.
Forse è per questo che tagliano corto come
se l'argomento fosse scabroso. E quelli che
parlano volentieri, qualche volta si mettono
a piangere come fanciulli. Allora capisco
gli altri che si rifugiano nel silenzio.
Per me è più facile. Non ho avuto affetti
qui. Solo doverose attenzioni. Il senso di
estraneità che mi porto dentro è ora uno
scudo. Ma per chi è nato in una famiglia
è diverso. In ogni caso, il mondo che evoco
è svanito per tutti e ciò ci avvicina indistintamente
alla morte. Chi è in gamba mi riceve all'osteria.
Gli altri nella penombra di stanze da letto
dove mi conducono figli stempiati o silenziose
nuore. Dànno l'idea di vecchi arnesi da ripostiglio.
In questi momenti capisco quanto sia difficile
ritornare a ieri senza sfuggire all'impietoso
confronto con l'oggi. E' come nuotare controcorrente.
La fatica ti convince a lasciarti andare,
a farti trascinare senza capire da dove vieni
e dove andrai. Per questo ho sentito per
la prima volta germogliare la rassegnazione.
Mi chiamo Sperindio, non credo sia difficile
ricordarmi. Quel cognome da brefotrofio me
l'hanno cantato nelle orecchie per anni.
Oggi mi rammarico che non ce l'abbiano più
in mente. Ieri, Remo, Remo Degani del mulino,
mi ha guardato a lungo con un sorriso assente.
Sono sicuro che non mi ha riconosciuto. Anch'io
l'ho osservato prima di capire gli effetti
devastanti dell'ictus. Mi ha detto molte
cose di scarsa importanza, ma dal profondo
della sua nebbia ha centrato un nocciolo
di verità come qualche volta sanno fare solo
i dementi. Dice di aver avuto tanti fratelli
oltre agli undici con cui è cresciuto. E
io tra quelli. Ma anche tanti padri, tutti
coloro che gli hanno insegnato qualcosa.
"Perché un padre non serve forse a quello?"
mi ha detto quasi con rabbia, la voce annodata
e aspra.
Il più utile è stato don Cereda. Non che
abbia nulla in mano, ma perlomeno è il depositario
di testimonianze che attestano la mia nascita
in questi luoghi. L'ha sentito dire con certezza
dal vecchio priore di Casaralta e ha visto
anche i documenti prima che arrivassero le
bombe. Non fosse , tuttavia, per gli aneddoti
tramandati nelle stalle o nelle osterie,
di me non saprei nemmeno quel poco che so.
Portavo fortuna da piccolo. E come un talismano
mi innalzavano al soffitto del rifugio fra
i sacchi di sabbia e i boati delle esplosioni:
"Sperindio! Sperindio!".
Ho chiesto a don Cereda di questo episodio.
L'ho incontrato al cimitero. Aveva la tonaca
imbiancata di calce degli avelli abbandonati
a cui aggiunge un fiore di tanto in tanto.
Ha avuto un ghigno come di vergogna e non
ha detto nulla. Poi, con severità, ha sussurrato:
"Spesso ci si fa scudo degli innocenti
davanti a Dio". Quindi se n'è andato
con gli occhi bassi. L'ho rincorso e afferrato
per la manica. "Lei non vorrebbe sapere?"
S'è girato con gli occhi pieni della stessa
vergogna che avevo notato pochi istanti prima.
"Siamo tutti figli di Dio" mi ha
detto prima di andarsene definitivamente.
La sera, dopo aver camminato a lungo, mi
fermo a guardare il paese. Poche cose sono
rimaste come me le ricordo. Forse solo le
case più vecchie, addossate le une alle altre
come storni. E' lì dove ho affittato due
stanze. Quando ho detto che vi avrei trascorso
un periodo di vacanza, il proprietario mi
ha guardato come si guarda un folle. Il paese
è ormai un dormitorio dove s'incrociano razze
e idiomi diversi. E' tutto, insomma, tranne
che un posto da villeggianti. Forse è anche
per questo che mi osservano con una curiosità
che sfiora il sospetto. E per togliersi l'impiccio,
ognuno mi rimanda a qualcun altro. Così mi
hanno fatto il nome di Dante, un comunista
che tutti chiamavano "Baffo" e
che se n'è andato ad abitare in un casolare
di Monterenzio senza luce e senza telefono.
Ho faticato a trovarlo. Qui in collina, quel
soprannome non dice nulla. Alla fine mi ha
aiutato un camionista che lo conosce per
via del partito. "Abita isolato - mi
ha avvertito - è un po'…". Non ha finito
la frase e ha fatto un cenno con la mano
come per dare l'abbrivio a una trottola.
Quando è uscito, un paio di galline l'hanno
annunciato fuggendo come avessero la volpe
al culo. Poi m'è comparso di fronte un uomo
enorme con pochi denti piantati nelle gengive
che sembravano cavicchi. Mentre bevevamo
un vino spesso color prugna, mi ha chiesto
se era vero che ero tornato a cercare i miei
parenti. Gli ho chiesto dove l'aveva saputo
e lui ha fatto un cenno vago. E' stato allora
che gli ho domandato di villa Rosati e dei
Cavalieri gaudenti. Mi ha sorriso con la
sua bocca oscena: "Sarei presto arrivato
all'argomento". In quel mentre è entrato
un gruppo di oche in fila alla maniera dei
soldati. Dante ha preso una manciata di pane
inzuppato e gliel'ha lanciata. Mi ha detto
che anche quegli animali erano nostri fratelli
ed allora m'è tornato in mente Remo. Gli
ho chiesto se mi considerava suo fratello.
Lui ha riso e mi ha fatto cenno di sì. Ho
replicato che allora la pensava come i preti
e lui s'è di nuovo messo a ridere, questa
volta con la bocca spalancata e i quattro
denti ben in vista come gli ippopotami. "Ma
loro lo pensano e basta" ha poi detto
con un ghigno.
Mi ha spiegato dei Cavalieri gaudenti. Messi
all'indice in città, s'erano rifugiati in
quel paese da molto tempo. Una specie di
esilio protetto a villa Rosati dove vivono
ancora i discendenti di un antico casato
colto ed eccentrico. "Non pensi che
si facessero delle orge - ha ridacchiato
Dante - anche se tutti pensano a quello.
Orge di cibo, questo sì. La tavola era il
nostro piacere". Dante ha fatto una
pausa e in quel momento un pensiero l'ha
assalito ammutolendolo come uno svenimento.
Ho capito che anche quello doveva essere
un mondo finito.
"E' per questo che s'è rifugiato quassù?"
Mi ha guardato ed ha accennato che sì, era
per quello. Poi ha accarezzato le sue oche.
Le vedevo sporgere la testa oltre il grembo
dell'uomo e mi ricordavano l'impugnatura
del bastone di madre Aurelia, la direttrice
del brefotrofio. Mi ha detto che lui si sentiva
in quelle oche, nel suo cane e nella sua
vacca. Gli ho chiesto se le mangiava e lui
mi ha detto che sì, certo che le mangiava.
Proprio perché appartenevano tutti alla stessa
materia vivente. Le chiedeva scusa e poi
ne ammazzava una, come gli indiani d'America
chiedevano scusa al bisonte. "Alla fine
anch'io sarò mangiato perché ingrasserò l'erba
e produrrò i vermi di cui si nutrono le oche.
Non ci sono eccezioni, è solo questione di
tempo" mi ha detto.
E' stato a quel punto che il discorso è finito
su Spinoza. Mi ha fatto un certo effetto
vedere un uomo apparentemente così rozzo
parlare di filosofia. Eppure, Dante ne parla
bene. Sembra quasi che ci sia tagliato.
Mi ha esposto il materialismo che improntava
il pensiero dei Cavalieri gaudenti e i discorsi
che si facevano a villa Rosati. Giordano
Bruno, Pomponazzi, Democrito, Epicuro. Filosofia
e tavola, a cui i beghini avevano aggiunto
la volgarità di un sesso sfrenato per essere
certi del biasimo popolare. "Non l'hanno
spuntata" ha detto Dante con uno stizzoso
colpo di nocche sul tavolo che ha fatto starnazzare
le oche. Il partito, con la sua coltre di
solidarietà, aveva protetto villa Rosati
proprio quando le casse del nobile animatore
dei Cavalieri gaudenti non avrebbero più
permesso di passar oltre i giudizi dei nemici.
Così, la villa, si era trasformata da esclusiva
dimora nobiliare, in una specie di casa del
popolo.
Dante ha parlato di quegli anni come si parla
della gioventù. Eppure lui non doveva essere
stato giovane nemmeno allora: più vicino
ai cinquanta che ai quaranta. "E i preti?
Cosa dicevano i monaci di Casaralta?"
Dante ha fatto un cenno di disprezzo con
la mano come avesse scacciato una mosca.
"L'unica cosa buona che hanno fatto
gli americani è stata tirar giù il convento"
ha detto facendosi di colpo rosso. Ma adesso
il tempo aveva distrutto quel mondo portandosi
via anche le asprezze. In miseria i nobili
di villa Rosati, dispersi i Cavalieri gaudenti,
il convento ridotto a rudere, i monaci trasferiti,
in paese era sopravvissuto solo don Cereda.
E tuttavia non ci stava da vincitore. Anche
lui andava a cercare il suo mondo al cimitero,
a spigolare fra morti senza parenti.
"Lei cerca i suoi e noi siamo orfani"
mi ha detto Dante mentre le oche si sono
messe a soffiare in coro contro di me. Ho
risposto che conoscere è già molto. Allora
mi ha guardato alzando il mento tremolante,
con sarcasmo: "Crede di essere l'unico
bastardo in paese? Potrei indicarglieli uno
ad uno. No - ha detto scotendo la testa come
un cavallo che ha rotto - ci basti sapere
che siamo tutti figli della stessa gente.
Pensi ora con tutte queste razze… S'incroceranno
come i conigli".
Dante si è alzato lentamente come i grossi
erbivori. Siamo usciti sull'aia preceduti
dalle oche in pattuglia. Sulla soglia mi
ha preso il braccio e mi ha condotto fino
al ciglio di una balza di monte che digradava
quasi a strapiombo per molti metri. Si vedeva
tutta la valle e le case aggrumate dei paesi
baciati dal torrente. Mi ha lasciato guardare
in silenzio. Quindi ha scostato due lastre
di lamiera ondulata verniciata di ruggine.
Sotto c'era una buca scavata a vanga. "Mi
metteranno qui" mi ha detto. "Ci
sono quattro compagni che faranno tutto.
Non trova che è un privilegio sapere dove
si finirà? E poi qui c'è terra magra, ha
bisogno di concime. Le fa senso? E allora
pensi a una posizione migliore di questa.
Non è splendido qui? Non voglio casse, non
sono mica una bottiglia di vino. Mi avvolgeranno
in un lenzuolo rosso con la faccia di Togliatti.
Il Migliore, certo. E voglio che il suo viso
stia accanto al mio che verrà stampato sulla
stoffa come quello di Gesù" E così dicendo
s'è abbandonato a una risata così sonora
da far alzare uno stormo di pernici..
Prima di lasciarci, il discorso è tornato
sul monastero. "L'unica cosa che si
è salvata sotto le bombe è un'iscrizione
fatta incidere dai Cavalieri gaudenti cinquecento
anni fa. All'inferno c'è andato tutto ciò
che apparteneva ai preti meno quella. Vorrà
dire qualcosa no?" Sono ridisceso lentamente
pensando a Dante. Non so per quale motivo,
ho sentito che quei discorsi mi avevano convinto.
Pensavo alle migrazioni e al risultato dell'impasto
lento degli anni. La sera ho osservato a
lungo le case imbellettate di restauri che
non sono riusciti a cancellare la rusticità
nativa. Fanno la stessa impressione delle
mani nodose delle vecchie contadine con gli
anelli e le unghie dipinte. Osservo la pietra
con cui sono costruite, le eleganti stanze
di oggi un tempo stalle o fienili e cerco
di andare indietro col pensiero nello stesso
viaggio dal quale vorrei ottenere risposte
su me stesso. Di fronte ai gradini consumati
della chiesa dove ho incontrato don Cereda
ho pensato a tutte le suole che hanno limato
quei sassi. Passi di migliaia di persone
delle quali portiamo i geni senza saperlo:
nostri genitori sconosciuti.
Don Cereda mi ha guardato con un sorriso
quando gli ho esposto l'approdo pacificante
a cui sono giunti i miei pensieri. Mi ha
detto che c'è molto di cristiano in quello
che dico, come se mi avesse già considerato
un anticristo. Poi si è scusato: "Tra
atei, musulmani e adoratori dei soldi, qui
la Chiesa non ha più ascolto". Quindi
si è di nuovo rallegrato e ha detto che Gesù
ci ha insegnato l'accettazione del nostro
destino. "Nostro padre è Dio, non lo
dimentichi". Ho risposto che lo stesso
destino dovevano averlo accettato in tanti
in quel paese per via del brefotrofio. Allora
lui ha avuto uno scatto d'ira ma si è trattenuto
con uno sforzo cui dev'essere abituato spesso.
L'ho accompagnato al cimitero. Senza di lui,
la metà delle tombe verrebbe cancellata dalla
gramigna. Porta fiori di campo su lapidi
di morti che nemmeno conosce. In un ripostiglio
tiene un mazzo di rose finte per l'inverno.
Fa tutto questo per il camposanto vecchio
attaccato alla chiesa. Quello nuovo l'hanno
costruito fuori del paese ma serve prevalentemente
per i morti che vengono dalla città. Qui,
da anni, non viene più sepolto nessuno. Gli
ho parlato di Dante, l'ho fatto apposta.
Mi aspettavo che avesse uno dei suoi scatti
di collera, ma, invece, mi ha osservato con
tranquillità. "Non è a posto" ha
detto come per liquidare l'argomento. Allora
ho chiesto se diceva così perché era un comunista,
ma don Cereda ha alzato le spalle: "E'
solo un ingrato" ha tagliato corto.
Avrei voluto approfondire, ma siamo stati
distratti da un'epigrafe con alcuni brani
dell'Ecclesiaste. Mi ha fatto notare che
è il documento più vecchio del paese e risale
al '400. Non potevo non ricordargli l'altra
iscrizione, quella fatta incidere dai Cavalieri
gaudenti e custodita nel convento.
Questa volta sul viso di don Cereda si è
palesata un'ira silente: "Uno scherzo,
una baggianata. Il priore avrebbe voluto
distruggerla, non fosse stato per la soprintendenza…
Vada, vada in città a vederla" mi ha
detto come indicasse una pubblica vergogna.
Ci siamo ritirati all'ombra del portico.
Di fronte a noi una distesa di tombe, ognuna
con una grigia foto ovale. "Sono questi
i nostri genitori" ha detto il prete
con un gesto liturgico. E' stato allora che
gli ho dato per la prima volta ragione. Anche
se non so se ha parlato in questo modo perché
ci credeva o per smorzare definitivamente
la mia curiosità.
Al momento di salutarlo ho detto che gli
ero grato. Ha alzato gli occhi su di me guardandomi
fisso come in confessione e mi ha ringraziato.
Dopo qualche istante ha aggiunto: "Anche
se altri dovrebbero essere grati alla Chiesa
invece di maledirla". Ho inteso che
alludeva a Dante visto che ne avevamo parlato.
"Forse non lo sa, ma anche lui è stato
cresciuto al brefotrofio. C'è mancato poco
che foste vicini di letto". La rivelazione
mi ha sbalordito. Quanti, come me, dovevano
vivere quell'imbarazzo? Forse anche don Cereda?
Spinoza o Dio avevano poi reso superfluo
ogni accanimento anagrafico spostando altrove
il problema delle origini.
Sono, quindi, andato in città. Il museo mi
ha accolto nella frescura delle sue mura
spesse. L'ho trovata, infine. Sul suo marmo
ho letto il tempo che l'ha accompagnata.
Ho immaginato lo scalpello che l'ha incisa
e i volti di coloro che l'hanno lavorata.
Polvere di generazioni sbriciolate dagli
anni. E' stato allora che mi sono sentito
figlio di esse, di tanti e non di uno. Oppure
di quell'anonimo eretto a simbolo che li
rappresenta tutti come il milite ignoto impersona
i caduti indistintamente, quelli di ogni
guerra combattuta.
O come Aelia Laelia Crispis: "…né uomo
né donna né androgino/ né fanciulla né vecchia/
né casta né meretrice né pudica/ ma tutto
questo/ morta non di fame non di ferro non
di veleno/ ma di tutto questo/ né in cielo
né in mare né in terra/ giace/ ma ovunque.
Lucius Agatho Priscius/ né marito né amante
né parente/ e non dolente e non contento
e non piangente/ questo/ (che non è) né una
mole né una piramide né un sepolcro/ ma tutto
questo/ egli sa e non sa per chi lo pose".
Sono tornato in paese per fare le valigie.
Non c'era più ragione che restassi. Mentre
me ne andavo, ho incrociato Dante. Era in
piedi davanti all'osteria dove torna ogni
tanto. Mi ha sorriso: ho inteso cosa intendeva
dire. Gli ho fatto cenno di sì col capo e
mi sono incamminato.
(pubblicato nella raccolta di racconti "Aelia
Laelia Crispis. Un mistero di Pietra"
edito da Diabasis, 2000)
Valerio Varesi è nato a Torino l'otto agosto 1959 da genitori
parmensi. A tre anni è tornato nella città
emiliana dov'è cresciuto e ha studiato. Si
è laureato in filosofia all'università di
Bologna con una tesi su Kierkegaard. Nell'85
ha iniziato a scrivere su giornali e riviste
pubblicando anche racconti in raccolte collettive.
Dopo essere stato corrispondente da Parma
per La Stampa e Repubblica, nell'87 ha lavorato
alla Gazzetta di Parma e nel '90 è passato
alla redazione bolognese di Repubblica. La
prima pubblicazione è del '98, un romanzo
giallo ("Ultime notizie di una fuga"
ed. Mobydik) liberamente tratto dalla vicenda
Carretta. Nel 2000 è uscito "Bersaglio
l'oblio" edito da Diabasis con il quale
è stato finalista al festival del noir di
Courmayeur e al premio Fedeli, organizzato
a Bologna dal Siulp. Quest'anno, assieme
a una decina di altri autori (tra i quali
Macchiavelli, Manfredi, Barbolini e Pederiali),
ha pubblicato Aelia Laelia Crispis (Diabasis),
una raccolta di racconti ispirati ad una
misteriosa lapide bolognese. Nel 2002 è uscito
"Il cineclub del mistero" edito
da Passigli con la presentazione di Carlo
Lucarelli. Sono Seguiti "L'Affittacamere",
"Le Ombre di Montelupo" e "A
mani vuote" (tutti per Frassinelli).
il commissario Soneri, protagonista dei romanzi
di Varesi, con il volto di Luca barbareschi
è approdato in Tv nella serie di sceneggiati
"Nebbie e Delitti" su Rai Due nel novembre 2005 (al fianco
di Barbareschi c'era anche Natasha Stefanenko)
"BERSAGLIO L'OBLIO" di Valerio Varesi (Diabasis, 2000) |
"ULTIME NOTIZIE DI UNA FUGA" di Valerio Varesi (MobyDick, 1998) |
"LE OMBRE DI MONTELUPO" di Valerio Varesi (Frassinelli, 2005) |
"IL CINECLUB DEL MISTERO di Valerio Varesi (Passigli 2002) |