"All'ombra del pino" di Enrico Solito (Hobby & Work 2003) |
"Sette Misteri per Sherlock Holmes" di Enrico Solito (Hobby & Work) |
Il nuovo romanzo di Enrico Solito!
All'ombra del pino
giallo risorgimentale
Maggio 1881. E' una notte di tempesta quando
l'ex garibaldino Benedetto Cairoli si ritrova
con una pistola alla tempia. Chi lo minaccia
è Anna, una vecchia popolana di Trastevere.
Ma la donna vuole solo costringerlo ad ascoltare
una storia. E questa storia narra di un diabolico
caso criminale, risalente a trent'anni prima.
Febbraio 1849. Subito dopo la nascita della
Repubblica Romana, Ermanno, giovane patriota
toscano, assiste involontariamente al primo
di una lunga serie di omicidi. Da quel momento
si ritrova al centro di un intrigo infernale,
costellato di morti, inganni e viltà. Mentre
le truppe francesi incombono sulla Repubblica,
Ermanno lotta insieme ad Anna e Checco per
smascherare un colpevole insospettabile.
INTRODUZIONE AL ROMANZO
di Oliviero Diliberto
Piove. Leggo il dattiloscritto de All'ombra
del pino nelle stesse condizioni atmosferiche
nelle quali inizia la narrazione. Benedetto
Cairoli, presidente del Consiglio del neonato
Regno d'Italia, alla vigilia delle dimissioni,
è solo nei suoi uffici. Fuori, piove a dirotto.
Un tempo da lupi, come scrive Solito, un
tempo adatto ai ricordi. E ai rancori.
Il dato atmosferico non è ininfluente, come
si comprende leggendo il romanzo. Si tratta
di un racconto noir ben costruito, segnato
profondamente da sentimenti forti: amore,
amicizia, passione politica, ma anche odio,
tradimenti, le soperchierie (direbbe Manzoni)
del potere sui cittadini. Il tutto in una
Roma ottocentesca ricostruita minuziosamente,
attraverso la descrizione amorevole di un
autore che - pur vivendo in Toscana - si
sente (e lo si sente) visceralmente legato
alla città d'origine: borghi, quartieri,
rioni, ma anche locande, atmosfere, personaggi
tipicamente romani.
Lo sfondo storico è ricostruito alla perfezione:
ma si ha subito l'impressione che sia - come
dire? - un finto romanzo storico. Scorrono
immagini che abbiamo letto a scuola, nei
manuali di Storia. Appaiono i personaggi
del Risorgimento: quelli italiani e quelli
stranieri. Cairoli, appunto, ma anche Mazzini,
Garibaldi, Carlo Alberto, l'anarchico Passanante,
il popolano Ciceruacchio, Pio IX e il cardinale
Antonelli, il poeta Belli, Ugo Bassi, padre
Gavazzi, Pellegrino Rossi, Mariani e gli
altri eroi della resistenza romana; come
pure Feliz von Schwarzenberg, Primo ministro
austriaco; Napoleone III, l'ambasciatore
francese Lesseps, Odillon-Barrot (presidente
del Consiglio dello stesso Paese), il generale
Oudinot, August Thiers, Ledru Rollin, capo
della Montagna nel parlamento francese prima
del colpo di Stato di Luigi Bonaparte, Lord
Palmerston, e tanti altri.
Ma ciò che colpisce maggiormente è soprattutto
il rimando continuo - implicito per tutto
il romanzo, esplicito solo nella parte conclusiva
della narrazione - alle temperie del presente:
alla Resistenza contro il Fascismo, alle
speranze e alle passioni da essa suscitata,
alle delusioni di un'Italia del dopoguerra
troppo simile al passato piuttosto che al
futuro per cui si era lottato e sofferto.
Riecheggiano ne All'ombra del pino temi gramsciani
(il pessimismo della ragione e l'ottimismo
della volontà), resistenziali (il riferimento
a "Giustizia e Libertà"), post-resistenziali
(la "Resistenza tradita"), temi
oggettivamente politici dell'oggi (sino a
una seminascosta eco del recentissimo resistere,
resistere, resistere…).
Ma appaiono chiari i riferimenti al presente
anche nella vicenda della guerra - purtroppo
sempre attualissima in questo nostro mondo
impazzito e crudele - e al tema della sua
giustificazione: nel romanzo, Enrico Solito
mette in bocca a Lesseps, negoziatore francese
nella Roma della Repubblica del 1849, parole
eloquenti, quando quegli si chiede come sia
possibile conciliare la guerra contro la
Repubblica romana con l'articolo 5 del Preambolo
della Costituzione francese, che proibiva
l'uso della forza militare per schiacciare
altri popoli: riferimento evidente all'articolo
11 della Costituzione italiana, troppe volte
eluso, aggirato o apertamente violato. Tutto
il racconto della resistenza romana contro
i francesi è poi costruito come pendant della
Resistenza contro i nazisti a Porta San Paolo
e alla Piramide. Lotta di popolo.
E penso anche all'intenso racconto che nel
libro si fa della nascita della fotografia.
È la necessità di documentare gli orrori
della guerra (verità e giustizia, fotografia
e guerra: è questa la mia missione. Solo
per questo resto a Roma, afferma il fotografo
del romanzo), mentre il pensiero del lettore
corre a Baghdad. Così come non si può non
pensare alla più recente storia d'Italia
quando Solito fa riferimento a "sezioni
riservate" di documenti, a segreti di
Stato, a "faldoni" ministeriali
zeppi di misteri irrisolti, che spariscono
o risultano drasticamente vuoti. Più potenti
di me, afferma sconsolato Cairoli, presidente
del Consiglio ma uomo disarmato di fronte
a centrali occulte che continuano ancor oggi
a segnare di sé la storia del nostro Paese.
Per arrivare, al termine della narrazione,
a Giaime Pintor e Giorgio Amendola, a Badoglio
e al re fellone, scappato da Roma "città
aperta" come allora fece Pio IX.
Insomma, un giallo avvincente e nel contempo
un gioco di specchi. Bello e, se posso azzardare,
anche molto sofferto da parte dell'autore.
Penso a Cairoli che riflette su di sé, ora
che è arrivato al governo del Paese e potrebbe
realizzare quanto immaginava nella gioventù
(quand'era rivoluzionario aveva sempre pensato
a cosa avrebbe potuto fare, ai grandi progetti
che avrebbe realizzato se ne avesse avuto
la possibilità…): ma non ci riesce, fallisce.
Si sentono echi lontani: il Manzoni della
Colonna infame (chissà se l'autore ci si
riconoscerà!), il Dickens della descrizione
del Carnevale romano, persino Tomasi di Lampedusa
(il "tempo degli sciacalli e dei traditori",
contrapposto a quello dei "gattopardi").
E ho avvertito anche un richiamo - chissà
quanto consapevole o felicemente indotto
da uno scherzo della memoria - a Fabrizio
De André (La canzone di Piero, vero inno
pacifista), nella parole con cui si descrive
l'uccisione di un giovane da parte di un
altro giovane: Un ragazzo con una divisa
diversa, che ti guardava negli occhi e aveva
la tua stessa paura…
Ma ho colto, soprattutto, un chiaro riferimento
allo Sciascia degli apparenti romanzi gialli,
zeppi di implicazioni politiche e allusioni
al tema del potere: lo Sciascia che conclude
Il contesto con una nota nella quale scrive,
a proposito della sua storia: Ho incominciato
a scriverla con divertimento, e l'ho finita
che non mi divertivo più. Anche a me, leggendo
il romanzo di Enrico Solito, è accaduta la
stessa cosa. Leggendolo anche voi, capirete
perché.
Oliviero Diliberto
CAPITOLO I
Roma, 13 maggio 1881.
Palazzo del Governo
Il palazzo era tetro, verso sera. Benedetto
Cairoli se lo disse per l'ennesima volta
in quel tardo pomeriggio primaverile, guardando
distrattamente fuor di finestra. L'acqua
cadeva a scrosci, la città doveva essere
allagata a quell'ora. Il buio era calato
presto, imposto anzitempo dalle nuvole scure,
gonfie di pioggia, che avevano invaso il
cielo provenendo dal mare, contro ogni aspettativa:
e dietro i vetri non si distingueva quasi
più niente della piazza, solo qualche isolotto
giallastro che resisteva attorno ai lampioni,
oscillante come se da un momento all'altro
dovesse cadere sopraffatto dal buio.
Ma forse era lo stesso Cairoli a essere tetro,
e non il clima. Quante volte aveva salutato
gli acquazzoni primaverili con allegria,
negli anni passati? Ricordava il brivido
di piacere che aveva ripetutamente provato
nel gettarsi sotto il temporale con un ombrellaccio
da pastore aperto… cose da ragazzi, di quando
si ha il cuore sgombro. Adesso era il presidente
del Consiglio, addirittura. Addirittura.
Come se fosse davvero importante, come se
fosse questo a fare fede di un uomo. E comunque
era un presidente del Consiglio per modo
di dire, sull'orlo delle dimissioni. Aveva
resistito un anno e mezzo, ma oramai la crisi
si avvicinava inesorabile. Il Re gli era
ancora amico, tuttavia il clima, all'interno
del partito, si era fatto irrespirabile.
Era tempo di andarsene, già.
- Serve qualcosa, signor presidente? - Il
segretario si era affacciato, premuroso come
al solito. Cairoli sorrise pensando alle
mille premure di cui era oggetto da parte
di quel vecchio funzionario: e anche alla
sua evidente paura di fare troppo tardi.
- Grazie, no. Andate pure, signor Corsini.
Io mi trattengo qui, per stasera non ho bisogno
di voi.
- Ma signor Presidente! Non c'è più nessuno
nel palazzo: restare qui solo!
- E di cosa avete paura? Ci sono le guardie
all'ingresso. Non soffro mica di solitudine,
sapete? E ho bisogno di riflettere. Forse
resterò tutta la notte, chissà. Andate, signor
Corsini, dico davvero: non ha senso che restiate
qui.
- Ma vi servissero un incartamento, dei documenti…
- Il povero funzionario era esterrefatto.
Lasciar solo il presidente del Consiglio
era qualcosa di inconcepibile per un impiegato
ligio come lui; ma, d'altra parte, lo aspettavano
già da tempo a casa.
- Non temete, caro Corsini, ho tutto quello
che mi occorre. Andate tranquillo.
A sentirsi chiamar "caro" il segretario
si sentì rimescolare tutto, e decise che
doveva raccontare alla moglie, il prima possibile,
il grande onore ricevuto.
- Quand'è così… buon lavoro, signor presidente.
- Buonanotte, signor Corsini.
Cairoli restò a guardare la grande porta
di quercia chiudersi silenziosamente sui
cardini oliati, e udì il funzionario raccogliere
le sue carte, infilare i fogli fruscianti
in una cartella, infilarsi il soprabito e
lasciare la stanza. I passi dell'uomo in
lontananza divennero via via sempre più lontani
mentre si dirigeva verso le scale che portavano
all'uscita. Alla fine il presidente rimase
solo nel silenzio.
Aveva quasi paura di romperlo, quel silenzio,
e se ne stette immobile ad assaporarlo, a
scrutare il nulla di là dai vetri. Che mesi
aveva passato… imboscate, tradimenti, pene,
e tanta ansia nel cuore. Ora che tutto era
scritto, che le dimissioni apparivano come
un evento inevitabile e forse vicino, si
scopriva quasi più tranquillo, più sereno.
Aveva voglia di stare da solo, a pensare
un poco. Le delusioni erano state forti negli
ultimi tempi: quand'era rivoluzionario aveva
sempre pensato a cosa avrebbe potuto fare,
ai grandi progetti che avrebbe realizzato
se ne avesse avuto la possibilità… e alla
fine, alla conferenza di Berlino aveva dovuto
ingoiare l'ingrandimento dell'Austria nei
Balcani senza alcuna contropartita per il
giovane Stato italiano, per non parlare delle
tensioni sociali che non era riuscito a smorzare
e di quel nuovo re con cui non si era mai
trovato davvero in sintonia... e ora la storia
della Francia e della Tunisia. Solo due settimane
prima aveva superato un voto di fiducia:
e quella sera, Zanardelli, Nicotera e Berti
erano venuti a dirgli che, il giorno dopo,
mezzo partito avrebbe votato contro di lui.
Meglio togliere il disturbo con dignità,
senza essere sbugiardati; meglio andare dal
re, e rassegnare le dimissioni.
- Bah - soggiunse a bassa voce, e il suono
rimbombò per la stanza. Tamburellò le dita
sulla scrivania, poi la mano corse veloce
verso la scatola di sigari delle grandi occasioni.
Valeva la pena festeggiare quel momento così
personale. Gli anelli di fumo azzurrino che
si levavano verso l'alto si allargavano sempre
di più: e in quei cerchi Cairoli lasciava
vagare i suoi pensieri in libertà, le sue
speranze non realizzate, i suoi progetti
sconfitti.
Il tuono rimbombò vicino, questa volta, tanto
da far tintinnare i vetri. L'uomo sobbalzò
leggermente; si portò di nuovo il sigaro
alla labbra, con un gesto lento, e sorrise
piano pensando alle donne che a Borgo e a
Trastevere recitavano in quel momento qualche
giaculatoria contro i fulmini: Santus Deo,
Santus fortis… Ma il gesto si bloccò a metà,
e la mano rimase a mezz'aria. Cos'era stato
quel rumore?
Uno scricchiolio, non forte ma abbastanza
evidente all'orecchio allenato dell'ex garibaldino.
Strano, decisamente strano. Se non fosse
stato al Palazzo del Governo, avrebbe potuto
pensare a un topo. Ne aveva uditi tanti in
passato, nascosto tra i covoni del fieno
o nelle case contadine, rimpiattandosi per
sfuggire agli austriaci, o quando era ragazzo,
a Bergamo. E perfino nei solai di casa sua,
a Roma, ce ne dovevano essere. Ma lì! Era
stato il passo di qualcuno, non c'era dubbio:
qualcuno che avanzava cautamente ma che era
stato tradito dal parquet…
Eppure Benedetto Cairoli era solo nel Palazzo,
anche su questo non c'era dubbio. A parte
gli uomini di guardia giù al portone, non
poteva essere rimasto nessuno della legione
di solerti impiegati e funzionari che aveva
ronzato tutto il giorno per le stanze e i
corridoi come uno sciame di api operose.
A quell'ora dovevano essere tutti a casa,
e perfino per le strade solo qualche gendarme
di ronda doveva essere in giro a infradiciarsi
sotto quel dannato acquazzone. Ma allora?
Cairoli si alzò, deciso, e si diresse verso
la porta. Ne afferrò la maniglia silenziosamente
e poi la spalancò di botto.
- Chi è là? - sbottò, avanzando di un passo
nella stanza del segretario. Ma non c'era
nessuno: il buon Corsini gli aveva lasciato
il lume acceso, sulla scrivania, per fare
in modo che non rimanesse proprio al buio:
e Cairoli si pentì subito di aver gridato.
Buon Dio, ci mancava altro che mettersi a
fare piazzate, ora! Nonostante ciò… lo scricchiolio
l'aveva sentito, eccome. Si sporse nel corridoio
col lume in mano, alzò il braccio sopra la
testa e scrutò a destra e a sinistra. Per
tutta la zona illuminata dal debole raggio
della lampada, non c'era anima viva. Del
resto era stato proprio lui a dare l'ordine
di spegnere tutte le luci dopo l'orario di
chiusura ufficiale: si spendevano cifre immense
a tenere illuminati corridoi in cui non passava
anima viva. Ma in quel momento, solo nel
Palazzo con il buio davanti, si sorprese
a concludere che quell'ordine avrebbe preferito
non averlo mai dato.
Corrugò la fronte, riflettendo un attimo.
Non era certo un ragazzino facile da spaventare:
aveva combattuto tante e tante volte da non
ricordarsele nemmeno tutte. Eppure doveva
ammettere che aveva la bocca asciutta e una
strana sensazione di eccitazione, che si
concretizzava in un lieve brivido sulla nuca
e un respiro veloce. I corridoi si allungavano
nell'oscurità, lugubri. Cairoli appoggiò
il lume in terra e si tuffò nel buio. Si
muoveva a passi felpati, sgattaiolando lentamente
addossato al muro: era acquattato, quasi
carponi. Cercò di respirare a fondo, di calmarsi,
sostando: non vedeva niente, e l'unico suono
che udiva era il pulsare delle sue tempie.
Ma in quel silenzio gli sembrava che battessero
come tamburi e che chiunque avrebbe dovuto
sentirle. Ora respirava meglio, e anche i
suoi occhi si abituavano alla mancanza di
luce: indovinava le forme che galleggiavano
nell'aria scura. Aveva ripreso la padronanza
di sé, adesso: poteva continuare.
Strisciò dietro l'angolo, e dietro l'angolo
ancora. Per mille e mille volte, col cuore
in gola, gli sembrò di scorgere una figura
umana: ma erano busti di chissà quali ministri
del passato, o mobili, o vetuste anticaglie.
Infine svoltò di nuovo e si ritrovò nel corridoio
che dava sul suo studio, col lume che aveva
appoggiato per terra. Respirò a fondo e percorse
gli ultimi metri calcando bene col peso in
terra, facendo con soddisfazione tutto il
rumore possibile. Non aveva trovato nessuno,
infine. Era logico d'altronde, no? Cosa diamine
andava a pensare! Tornò sorridendo sui suoi
passi, col sigaro in bocca e scuotendo la
testa. Il sapore del fumo gli ristorò la
bocca riarsa, ancora più buono dopo un'emozione
così. Se l'avessero saputo gli avversari
politici! Che figura, che brutti scherzi
gioca la tensione! Ma sì, la tensione, la
fatica e la delusione di tutti quei giorni
di lavoro dai risultati così magri: doveva
esser quella la ragione. Si fermò un secondo
per decidere dove andarsi a sedere. E il
freddo metallico che sentì alla nuca lo prese,
a quel punto, del tutto di sorpresa: una
rivoltella, senza dubbio.
- In alto le mani, Cairoli. Prestami la cortesia
di muoverti lentamente, molto lentamente…
Era una donna, a giudicare dalla voce. Una
voce gradevole, profonda, dai toni freddi
e decisi. Sentiva il cuore martellargli nel
petto, ma si obbligò a restare calmo. Doveva
ragionare.
- Siediti lì, su quella poltrona. Bene, così.
Appoggia il lume, e poi mettiti comodo. Non
fare scherzi, ti avverto che so sparare.
Lanciarle addosso il lume? Poteva tentare,
a due passi di distanza. Ma la canna della
pistola non tremava affatto.
Benedetto Cairoli si sedette molto piano.
La donna gli girò intorno, a passi lenti,
con la pistola costantemente puntata: afferrò
una sedia e si sistemò a tre passi di distanza.
Quanto bastava a passarlo da parte a parte
prima che lui avesse il tempo di scattare
e prenderla di sorpresa.
Così era venuto anche il suo turno, pensò.
La polizia era riuscita a sventare un paio
di attentati anarchici in quegli anni, ma
stavolta era stata battuta. Eppure il suo
ministro non gli aveva parlato di particolari
allarmi ultimamente… ma già: non era stato
proprio lui, un paio d'anni prima, a salvare
la vita a re Umberto da quell'anarchico,
Passanante, buscandosi una ferita alla coscia?
Si sforzò di acquietare il respiro, di restare
calmo: se aveva ancora un minimo di possibilità,
doveva sfruttarla senza farsi prendere dal
panico.
La donna indugiava nella penombra, e Cairoli
non poteva vederla bene: non che gli importasse
poi molto, in fondo. Ciò che in realtà gli
interessava era la canna della pistola che
gli puntava in pieno petto, senza una incertezza,
una benché minima oscillazione.
Forse avrebbe potuto chiedere aiuto. Magari
era rimasto qualcuno in qualche stanza… ma
no, era completamente inutile. Neanche se
avesse gridato con tutte le sue forze lo
avrebbero sentito, giù, al posto di guardia;
e comunque sarebbe stato morto ben prima
che quelli arrivassero. Prendere tempo: ecco,
quello poteva avere senso. Freddamente registrò
dentro se stesso che era sudato fradicio,
mentre un gelo anomalo gli paralizzava la
schiena. Afferrò i braccioli della poltrona
per reprimere il tremolio alle mani.
- Come avete fatto ad entrare? - chiese urbanamente.
- Non è stato poi tanto difficile - rispose
la donna. - Sono passata stamani, con la
scusa di una pratica urgente. Nessuno ferma
una povera vedova di guerra. Poi mi sono
nascosta in uno sgabuzzino e ho aspettato.
- E come sapevate che sarei rimasto così,
da solo?
- Non lo sapevo. Aspettavo l'occasione. Se
non fosse stata questa, sarei tornata per
trovarne un'altra. Sono due settimane che
ti seguo come un'ombra.
- Non me ne ero accorto…
- È esattamente quello che succede a quelli
che seguo, Benedetto.
Cairoli era sempre più stupito. Che razza
di attentatrice anarchica era mai quella?
Una persona così tranquilla, pacata: nessuna
esaltazione, nessun proclama. Era dunque
così che doveva morire, assassinato senza
nemmeno una spiegazione, in una sera di pioggia
e di uragano? Un lampo vivido illuminò la
stanza quasi a giorno, per un attimo, e Cairoli
vide per la prima volta gli occhi azzurro
scuri della donna: e il suo sorriso, dolce
ed enigmatico, lo stupì di nuovo.
- Sorridete sempre così prima di uccidere?
E giacché ci siamo, perché mi chiamate col
mio nome? Non mi pare di conoscervi.
Le sue ultime parole furono quasi coperte
dal tuono che rombando si era avvicinato
da Monte Mario. Gli parve di esser certo
che la donna avesse sorriso di nuovo, ma
doveva essere solo una impressione.
- Mi hanno molto parlato di te, anni fa.
A Villa Glori.
- Villa… Voi eravate lì? Avete conosciuto
i miei fratelli!
- Enrico è spirato tra le mie braccia, con
una palla nel petto. E dopo che ci presero,
restai con Giovanni fino alla fine, nella
sua agonia. Mi parlarono di te, sempre.
Cairoli scosse la testa, con le lacrime agli
occhi. - E adesso venite ad ammazzarmi. Perché?
- Santo cielo, chi ti ha detto che sono qui
per ammazzarti? Voi politici vi immaginate
le cose e poi vi lamentate.
- State scherzando. Quella è una pistola.
Ma insomma: cosa volete da me, se questo
non è un attentato?
- Solo la tua parola, Benedetto. Devi promettermi
che non chiederai aiuto, non mi colpirai,
non te ne andrai… Alle corte: che mi starai
a sentire. Ho una lunga storia da raccontarti,
e un favore da chiederti. Tutto qui.
- Tutto qui?! Ma se è così, non potevate
chiedermi udienza?
- Ah, certe ingenuità di voi ministri! L'ho
fatto, sono tre mesi che lo faccio. Ti ho
lasciato lettere e messaggi, suppliche e
richieste. Ebbene, non mi hai mai degnato
di una risposta. I tuoi solerti impiegati
ti hanno steso attorno una cortina di protezione
così fitta che non passerebbe una mosca;
così, per forza di cose, mi sono dovuta inventare
un sistema piuttosto melodrammatico e, lo
riconosco, assai poco elegante.
- Mettete giù la pistola, dunque.
- Prima tu prometti.
Cairoli sorrise, incredulo quasi di essersela
cavata così a buon mercato. - Prometto, certo.
Alle buone maniere non si dice mai di no.
Ma che sarebbe successo se avessi reagito?
La donna scoppiò in una allegra risata, impugnando
il revolver per la canna e porgendolo al
presidente del Consiglio. - Proprio niente
- dichiarò. - Non c'è alcun colpo in canna.
Contavo sulla sorpresa e sul fatto che non
picchieresti mai una donna. Allora, tutto
bene?
Cairoli la fissò come istupidito. - Roba
da ammazzarmi comunque. Di spavento, però.
Sentite, mettiamoci laggiù, vi dispiace?
Vicino al caminetto e alla finestra. E procuriamoci
un po' di chiarore: questo posto è troppo
lugubre, ne converrete…
Alla luce dei becchi a gas, di nuovo a pieno
regime, Cairoli poté osservare meglio la
sua visitatrice. Non molto alta, vestita
con una certa eleganza ma senza ricercatezza,
dimostrava una cinquantina d'anni. Le primavere
non erano passate senza lasciar segni sul
suo viso tranquillo, ma le piccole rughe
che le si disegnavano sul volto parlavano
di concentrazione e intelligenza più che
di angoscia. Eppure doveva averne passate:
se era stata a Villa Glori coi garibaldini,
poi doveva aver conosciuto il carcere, per
forza. Cairoli moriva di curiosità, ma si
contenne. Offrì cortesemente un calice di
brandy, che la donna accettò di buona grazia.
Si sedettero di nuovo, davanti ai vetri su
cui la pioggia continuava a infrangersi inesorabile,
mentre folate di vento cominciavano a farsi
sentire e a spazzare mugghiando le strade.
- Un tempo da lupi.
- Un tempo adatto ai ricordi. E ai rancori.
Adatto alla storia che voglio raccontarti,
Benedetto…
La voce della donna attaccò a narrare di
vecchie cose, e ideali, e sforzi, e dolore:
cominciò a salire nell'aria come uno degli
elementi di quella stanza, di quella notte:
come la pioggia, il vento, il buio. Cairoli
socchiuse gli occhi, per assaporare in pieno
il racconto.
- Cominciò tutto molti anni fa, proprio qui
a Roma. Nel febbraio del '49…
CAPITOLO II
Roma, febbraio 1849
La locanda era in piena attività fin dal
primo mattino. Domestiche affaccendate, garzoni
che andavano e venivano, stanze da rassettare,
panni da lavare, la cuoca che strepitava
per essere lasciata in pace dietro le faccende
sue: una confusione terribile, una specie
di pandemonio organizzato che prodigiosamente
si ricomponeva all'ultimo momento, tutti
i giorni, come se qualche Santo si producesse
in una serie infinita di miracoli. Al centro
di tutta quella confusione regnava olimpica
e allegra la giovane Anna, la figlia dell'oste
e ormai da tanto tempo la domina assoluta
dell'impresa domestica. Aveva forse diciassette
anni, a quell'epoca; formosa, non tanto alta,
con la chioma dei capelli corvini che incorniciava
un viso di rara bellezza ed esaltava due
occhi blu scuri, enormi, che apparivano diversi
a seconda del tempo e del cielo: grigi quando
pioveva, azzurri in piena luce. Rideva sempre,
e il suo sorriso era il faro intorno a cui
ruotava la casa e il lavoro di tutti quelli
che la abitavano. Il padre, il vecchio Ottavio
Fattori, se ne stava fuori, in piazza, a
chiacchierare con gli amici, osservando orgoglioso
la figlia affaccendata come un'ape regina.
- Il posto vostro è mejo de la locanda "Gran
Brettagna" in piazza de Spagna! - gli
dicevano. - Tutto merito della vostra Anna,
sor Ottavio! È la vostra consolazione!
E lo era davvero. Dopo la morte della madre
aveva preso la direzione degli affari, affiancandosi
al padre e, mano a mano, sostituendolo quasi
del tutto: oramai la Locanda del Buon Riposo
era Anna, e Anna era l'anima della locanda.
In quel bailamme di confusione e panni sciorinati
al sole, di coperte battute alle finestre
come tappeti, di lavoranti che frullavano
come trottole impazzite, un giovane scese
dalle scale e si guardò intorno con aria
interrogativa, come spaesato.
- Buongiorno, signor Ermanno. Dormito bene,
vedo!
- Non prendetemi in giro, Anna. Avevo fatto
tardi ieri sera, e poi ero stanco del viaggio.
È lunga dalla Toscana!
- La Toscana… - mormorò lei con voce sognante.
- Quanto mi piacerebbe andarci! E ditemi,
di dove siete esattamente? Siete arrivato
solo da un paio di giorni e non ho potuto
ancora chiedervelo.
- Di Arezzo sono… il più bel posto di questo
mondo.
- Già, ci mancherebbe altro! È Roma il posto
più bello del mondo! Ma lo sapete benissimo,
polemico che non siete altro!
- Polemico io? Se sono un agnellino! E parlando
di agnellini, quanti ne ho visti per le vostre
campagne, venendo giù dal nord… molte più
pecore che cristiani. E che desolazione…
terre morte paiono, abbandonate e piene di
malaria. Uno spettacolo triste, sapete? Non
ci fa una bella figura, Roma, a vederla comparire
da lontano in mezzo a tanta miseria. Stringe
il cuore pensare a quello che era una volta.
- Intanto noi siamo qui e belli vivi. Lucia,
fa' attenzione con quelle lenzuola, che le
sporchi, benedetta te! A proposito, non avete
avuto freddo? Qui da noi non si usa riscaldamento
nelle locande: ma se volete vi preparo uno
scaldino, con la carbonella dolce o la ciniglia.
E dite, cosa vi è piaciuto di più di Roma?
- Ho visto poco o nulla per ora, datemi un
po' di tempo. Ma cosa sono tutti questi preparativi,
questa confusione? Fiori, carrozze, vestiti
portati di sopra e di sotto…
Anna sgranò gli occhi e congiunse le mani
in segno di preghiera, sinceramente stupita
dell'ingenuità dell'ospite toscano.
- Benedetto ragazzo! Ci dovete essere solo
voi, a Roma, a non sapere che oggi è l'ultimo
di Carnevale! Ma non vi siete accorto di
niente, ieri?
- Vi confesso che ero a dormire - fece lui
per tutta risposta, appoggiandosi indolentemente
al bancone. - Forse l'aria locale mi ha attaccato
un po' di pigrizia…
- Linguaccia! Dite pure che siete voi un
pigrone e non date la colpa a noi romani!
Comunque, per vostra norma, oggi si conclude
il Carnevale e si terrà un gran passeggio
al Corso, nel pomeriggio: sarebbe un gran
peccato se non vi partecipaste. Anche perché
con la Quaresima, dopo, non ci sarà molto
da festeggiare.
- Ma non ho vestiti, e poi non ci capirei
niente.
- Che volete che ci sia da capire! Verrete
con noi, con me e Checco… guardate, è lì
che lavora al carro. Venite che ve lo presento.
Se ne uscirono nel sole. La locanda sorgeva
all'estremità di una strada che sfociava
in una magnifica piazzetta, piazza Scossacavalli:
erano giusto nel centro del quartiere popolare
di Borgo, sotto San Pietro. Nell'angolo della
piazza più vicino, proprio davanti ad una
grande chiesa, un ragazzo dai capelli neri
si affannava dietro un carro, fasciandolo
e decorandolo.
- Checco, come sei sudato! - rise Anna, burlandosi
della confusione di lui. - Permettete che
vi presenti: il signor Ermanno Nocentini,
da Arezzo, appena arrivato a Roma. Checco
Valle, mio cugino.
- Cugino di secondo grado, Anna. Secondo,
non dimenticarlo… Molto piacere, signore.
I due uomini non avrebbero potuto essere
più diversi: il toscano, alto, schietto,
con occhi chiari e un volto quasi da bambino,
allargato da un sorriso contagioso, e i lunghi
capelli lisci, color dell'oro, che gli cadevano
fluenti sulle spalle; il romano, invece,
più tarchiato e compatto, scuro di pelle,
gli occhi di carbone e i riccioli neri tagliati
corti, che finivano con l'assomigliare al
vello di una pecora, o a un velluto fittissimo.
Ermanno vestiva in modo elegante anche se
non affettato, mentre l'estrazione popolana
di Checco era resa trasparente dalla camicia
e dal corpetto che indossava. Tutti e due
sui vent'anni, si guardarono a lungo mentre
si stringevano con forza le mani.
- Stavo giusto dicendo al signor Ermanno
che potrebbe essere nostro ospite, oggi…
gli faremo da ciceroni.
- Come no! Purché sia disposto ad affrontare
la folla e la confusione. Cade l'ultimo di
Carnevale e la festa è al culmine.
- Per parte mia, signor Checco, sarà un piacere
fare un po' di baccano. Non sono venuto a
Roma per atteggiarmi a penitente. Ma cosa
state combinando?
Checco si mise a ridere e cercò di spiegare
al forestiero la situazione. Avrebbero potuto
raggiungere il Corso anche a piedi, spiegò,
proprio come facevano di solito: ma allora
buona parte del divertimento sarebbe sfumata.
- Il mio padrone, andandosene, mi ha lasciato
un poco di soldi: un gesto gentile da parte
sua, alla faccia dell'illustre schiatta.
È un nobile, molto legato al Papa. E ha preferito
togliersi di torno prima che l'aria divenisse
pesante.
- Sì, lo so. Pare che tutta l'aristocrazia
nera abbia seguito il Papa a Gaeta. Si dice
che laggiù ci sia un bel sovraffollamento.
- Che si stringano, per parte mia: avrebbero
potuto restare a Roma, Papa compreso; o Patrigno,
come hanno cominciato a chiamarlo qui a Borgo
e a Trastevere. Non è proprio piaciuto a
nessuno che ci abbia abbandonato di punto
in bianco, scappando di nascosto dopo che
ammazzarono quel poraccio de Pellegrino Rossi.
A ogni modo, non mi va di parlar male di
lui, né del mio padrone. Sapete, qui in città
molta gente vive andando a servizio dai nobili,
come camerieri o cocchieri, e in tanti siamo
rimasti senza lavoro. Comunque, vi dicevo,
un po' di soldi li ho; così, ho deciso di
offrire ad Anna una carrozza per il Carnevale,
come i signori, per una volta. Io farò da
cocchiere, e voi starete dietro, con lo zio
Ottavio e qualche altro cliente della locanda
che si vorrà aggiungere. Ce ne andremo a
passeggio per le strade, a guardare e a farci
guardare… Stamane ho fatto una capatina da
Ciceruacchio, giù a piazza del Popolo, e
ho affittato questo carro. Ora si tratta
di addobbarlo.
- Ciceruacchio? Che strani nomi avete, voi
romani!
Checco si allargò in una risata: decisamente
gli piaceva quel ragazzo. - Si chiama Angelo
- spiegò. - Angelo Brunetti. Era un poveraccio
come tutti, ma a furia di lavorare onestamente
si è fatto strada. Ha un bel po' di magazzini
di legname e carbone lungo il Tevere, e affitta
carrozze. Sapete, è diventato famoso perché
è uno dei capi dei Circoli Popolari: lo chiamano
Ciceruacchio perché è eloquente quanto Cicero,
l'avvocato dell'Urbe antica. Pure lui non
faceva che osannare Pio IX; gli aveva organizzato
perfino un arco di trionfo… e adesso sputa
in terra tutte le volte che lo nominano.
Anna si alzò in punta di piedi per spiare
dentro il carro. - Purché i cavalli siano
buoni… conosci il detto, no? Uomo a cavallo,
sepoltura aperta! E come ci vestiamo, Checco?
- Da marinai. Osserva tu stessa: nel mezzo
della carrozza ho issato un palo; lì ci attaccherò
delle specie di vele e un pennone con una
bandiera. Il cocchio ha la forma di una scialuppa,
e mi sono fatto prestare un paio di remi
da un amico che fa il marinaio, giù a Ripetta.
Da uno stracciarolo ebreo ho avuto l'altro
giorno dieci giacche azzurre e pantaloni
a righe. Guarda che belle!
Anna scrutò con aria critica i panciotti
e le giacche coi bottoni d'oro. - Saranno
pieni di pulci - sentenziò. - E poi, io che
mi metto?
- Tu sarai la nostra capitana, col binocolo
e il tricorno. E niente pulci, ho fatto lavar
tutto.
- Però - interloquì Ermanno, che già si divertiva
alla sola idea - non capisco questa specie
di teli di cotone all'esterno. A che servono?
- Sono le protezioni per i fregi del cocchio
- rispose Checco. - Vedrete i confetti: ne
tirano a palettate, e fischiano come proiettili!
Nel primo pomeriggio uno strano equipaggio
uscì dalla Locanda del Buon Riposo alla Spina
di Borgo. Sembravano marinai - anche se dall'uniforme
un poco strampalata - e formavano una ciurma
piuttosto composita. Saranno stati sei o
sette: Checco ed Ermanno, insieme al grasso
Ottavio e a un paio dei suoi amici più matti
e attempati, che di sicuro non avrebbero
mai potuto montare su una nave vera, e i
cui addomi prominenti erano implacabilmente
strizzati dalle giacche attillate. In loro
compagnia, due o tre artisti dei Paesi Bassi
che erano soliti frequentare la locanda,
e in onore dei quali venne issata sulla "scialuppa"
una lunga bandiera a nastro olandese. I loro
capelli biondi e le lunghe barbe fulve contrastavano
curiosamente con i coloriti scuri di Checco
e Ottavio. Li guidava una splendida ragazza
vestita a festa, con il corpetto ricamato,
una lunga gonna a fiori, e, bizzarramente,
una benda sull'occhio e un tricorno degni
del miglior capitano di ventura.
Si issarono a bordo, facendosi strada tra
i sacchi di confetti pronti ad essere lanciati
insieme ai mazzolini di fiori per le belle
ragazze: tutto il carro, anzi, debordava
di fiori, all'esterno ma anche all'interno,
dove era difficile trovare un posto libero
dove accomodarsi. Checco, seduto a cassetta,
gettò galantemente il primo mazzolino alla
sua capitana, sorrise e prese le redini.
Il sole non era ancora calato e mancavano
ancora diverse ore all'Avemaria. Si mossero
lentamente, con i brontolii di Ottavio e
le risate spensierate degli altri, e si diressero
piano piano verso il fiume.
Ermanno era a bocca aperta. Trovarsi a Roma,
nella Città Eterna, era già un qualcosa che
aveva sognato fin da piccino, e aveva una
certa difficoltà a credere a tutto quello
che gli si parava sotto gli occhi. Le case
addossate alla grande Cupola che troneggiava
su tutta la città, i modi stessi della gente,
che erano così simili eppure così diversi
da quelli che conosceva, gli davano una strana
sensazione di ebbrezza e stupore. La sera
prima, dopo cena, se ne era andato dalla
locanda giù per le stradine che dalla piazzetta
Scossacavalli conducevano a San Pietro, svoltando
tra vicoli e casupole: e di botto, senza
alcun preavviso, si era trovato nella piazza
immensa, solo, davanti alla enorme basilica
che conosceva dai quadri che aveva ammirato
fin da bambino. La cupola del Brunelleschi,
mastodontica e silenziosa, lo aspettava da
quattrocento anni. Adesso Ermanno era lì,
senza parole davanti a tanta magnificenza
e alla sorpresa che Bernini aveva giocato
a lui, come a tanti altri prima di lui. La
facciata illuminata dalla luna sembrava osservarlo;
l'immenso colonnato lo abbracciava come la
fede, come la Chiesa. Ermanno si era dovuto
appoggiare al muro per non cadere, ed era
rimasto nella piazza per ore ed ore, letteralmente
incapace di muoversi. Alla fine era stata
una guardia a riscuoterlo, preoccupata che
non si sentisse bene; era per quello che
si era svegliato tardi al mattino. Ora si
guardava intorno, cercando di assorbire ciò
che vedeva, le case, i monumenti, la gente,
la confusione.
Via via che si avvicinavano al Tevere, la
folla in cammino che li attorniava andava
aumentando. Maschere di tutti i tipi, ragazze
addobbate a festa, popolane con una semplice
mascherina sul volto, Arlecchini, moltissimi
Pulcinella, e tantissimi romani agghindati
nel modo più ridicolo. Strane giacche rosse,
così striminzite che le maniche arrivavano
ben lontane dai polsi; mantelline polacche
orlate di pelliccia e talmente strette alla
vita da far sembrare chi le portava ribes
maturi pronti a scoppiare; cappelli di innumerevoli
fogge, calzati in ogni modo possibile meno
quello usuale: tutte le esagerazioni più
iperboliche e le mostruosità più sfacciate
si moltiplicavano intorno alla carrozza e
alle altre che si incamminavano nella processione:
e l'allegria e le risate, e i primi lanci
di confetti e di fiori crescevano di pari
passo.
- Dobbiamo deviare, Anna! - fece Checco,
girandosi. - Per entrare a piazza del Popolo
passiamo dai vicoli. Guarda, i Dragoni dirigono
il traffico!
S'era formata una coda di carrozze, che a
tratti avanzava velocemente per qualche passo
e a tratti ristava. Ogni tanto la gente intorno
alla carrozza la prendeva d'assalto a furia
di confetti, e gli occupanti avevano il loro
daffare a rispondere: ma nelle viuzze strette
che portavano alla piazza, ingombrate da
due file di veicoli che andavano e venivano,
fu allora che fiori e confetti cominciarono
a volare sul serio. Il sor Ottavio, preso
dall'entusiasmo, centrò con un mazzolino
la finestra a cui era affacciata una bella
mora, con una precisione tale da suscitare
gli applausi della folla. Ma proprio mentre
il vecchio oste, lusingato, si esibiva in
un cerimonioso inchino di ringraziamento,
fu centrato a sua volta, all'altezza della
tempia, da una arancia gettatagli da un uomo
vestito mezzo di nero e mezzo di bianco,
che catapultò il poveretto bocconi dentro
la carrozza, con gran divertimento della
figlia.
- Così imparate a fare il galletto, padre!
Dopo un buon quarto d'ora di marcia sbucarono
in piazza del Popolo e di lì nel Corso. Ermanno
aveva gli occhi fuori delle orbite: balconi
in ogni dove, collocati in modo così abbondante
e disordinato che gli pareva avesse piovuto
a balconi, letteralmente, e che un vento
dispettoso li avesse poi ridistribuiti a
casaccio nelle case. Tutti, comunque, esibivano
festoni dai colori squillanti - rosso, azzurro,
verde - e drappi, e festoni bianchi che sfolgoravano
nelle ultime ore del sole pomeridiano. Le
finestre rigurgitavano di bandiere dalle
tonalità più accese, che sventolavano dai
tetti, dai parapetti, dagli androni dei palazzi.
I portoni erano stati rimossi ad uno ad uno,
per fare più spazio alla folla, e le vetrine
smontate, con l'interno delle botteghe e
dei negozi pieni di gente vociante e colorata,
e di arazzi, festoni, ghirlande. I romani
ridevano, ballavano, lanciavano fiori e confetti.
Gli sguardi si incrociavano, lanciando messaggi
di fuoco.
Le carrozze marciavano in file parallele
di tre o quattro, adesso, e potevano sfidarsi
l'un l'altra con tutta comodità. C'erano
grandi calessi rivestiti a festa, colmi di
fiori fino all'orlo, in cui sguazzavano letteralmente
belle figliole che ballavano e cantavano
senza posa. Carrozze travestite da barche,
da palazzi, perfino da chiese: un mare di
veicoli tale da riempire il Corso da piazza
del Popolo a piazza Venezia, un oceano senza
fine di legni, cavalli, maschere, confusione.
E in tutte le finestre, in tutti gli anfratti,
tra i vicoli, nelle botteghe, una folla ridanciana,
eccitata e scalmanata: un corteo di finti
pazzi che se ne andava urlando e sbraitando;
un gruppo di gentiluomini di corte con monocoli
larghi mezzo metro; un manipolo di giannizzeri
ottentotti che menava fendenti spietati per
farsi largo, con le sue micidiali sciabole
di cartone; zingare e mendicanti, straccioni
e ricchissimi borghesi, dame e poverette,
vecchie che in realtà erano giovani e giovani
avvenenti che in realtà erano uomini travestiti
con improbabili parrucche. E su tutto una
tempesta di confetti e di fiori che oscurava
il sole del meriggio.
La carrozza attraversò l'intero Corso sotto
i lanci di fiori, confetti e frutta, e i
suoi occupanti risposero vigorosamente al
fuoco che proveniva da tutte le parti. Il
sor Ottavio fu trattenuto a stento un paio
di volte dallo scendere per azzuffarsi con
una coppia di gentiluomini che lo aveva centrato
a suon d'arance: vennero a diverbio con un
due carrozze vicine e le riempirono di contumelie
e proiettili. Gli olandesi erano i più scatenati
e Anna dovette trattenerli dall'abbordare
un legno vicino, che ospitava quattro trasteverine
niente male. Checco faceva il suo meglio
per evitare di travolgere quelli che si infilavano
tra i legni per raccogliere i fiori caduti,
che formavano ormai uno strato su cui tutti
si muovevano. Quanto ad Ermanno, era così
stralunato, sudato, eccitato e stravolto,
che nei giorni successivi avrebbe ricordato
quella sfilata come un sogno, un'unica scena
di follia e fiori, ebbrezza selvaggia e violenza
contenuta.
Erano già le quattro e mezza quando giunsero
verso la fine, e le trombe dei gendarmi dettero
il via ai Dragoni per sgombrare la strada,
con grande dispiacere di tutti. Loro furono
ributtati nei vicoli dietro il Pantheon,
in un bailamme di folla e carrozze, di parapiglia
e spintoni tali da far giudicare impossibile
che qualcuno non ci avrebbe rimesso la pelle
in quel pigia pigia. La gente a piedi premeva
per ritornare indietro e assicurarsi una
buona visione del Corso vuoto: le carrozze
cercavano un posto dove fermarsi.
- Mi infilo là dentro! - urlò Checco rivolto
ai suoi marinai. - Si dovrebbe vedere bene.
Altrimenti scendete e cercatevi un posto
a piedi.
Ermanno, che non sapeva nulla di cosa sarebbe
successo, tenne d'occhio gli altri. Ma non
fu necessario scendere: il vicoletto in cui
era entrato Checco finiva sul Corso, e anche
se loro si trovavano piuttosto lontani dallo
sbocco, il vantaggio di essere in alto sul
cocchio compensava la distanza. D'altronde
era tale la calca, tra la gente appiedata
in mezzo alle carrozze, che sarebbe stata
pura utopia sperare di farsi largo a piedi.
Erano la seconda carrozza della fila, ma
quella che li precedeva, con un solo occupante
- una strana figura vestita di nero e di
rosso - era bloccata a metà della strada,
circa una trentina di passi dallo sbocco,
da una serie di casse che alcuni avevano
piazzato per issarsi e vedere meglio, incuranti
delle proteste del cocchiere. Subito dietro
di loro, invece, si fermò un calesse elegante,
con un impeccabile maggiordomo e quello che
sembrava un perfetto gentleman britannico.
Il gentiluomo, imperturbabile, cavò una palettata
di confetti e li scagliò con violenza verso
la carrozza di Anna, scatenando un ondata
di improperi: erano di ghiaia, e facevano
un male del diavolo. I tre olandesi e il
sor Ottavio si diedero a raccoglierli e a
rilanciarli indietro, cercando di centrare
la zucca dello scortese gentiluomo e del
suo servo, non senza una sequela di insulti
nordici che probabilmente a Roma non erano
ancora mai stati uditi in venticinque secoli
di storia.
Checco scoppiò a ridere e si girò davanti
per godersi la scena, mentre Anna si spostava
accanto a lui, a cassetta, per proteggersi
da quei lanci pericolosi.
Pochi passi più in là, l'uomo nel veicolo
bloccato continuava a sbracciarsi, per nulla
rassegnato: ma la gente davanti a lui e intorno
alla carrozza non si voltava neppure a prestargli
attenzione, attratta com'era dallo spettacolo
che di lì a poco si sarebbe svolto sul Corso.
Tra la folla, a un certo punto, si fece largo
un Pulcinella con tanto di mascherina nera,
che prese ad apostrofarlo. I due si dovevano
conoscere, pensò Checco, perché l'uomo sul
cocchio aiutò l'altro a salire - cosa non
certo semplice in quella confusione.
- Aho! - fece Anna, urlando nell'orecchio
di Checco per farsi intendere nella bolgia.
- Se quei due non si mettono a sedere, non
vedremo nulla. Gesù benedetto! Ma che fa
quello?!
Il Pulcinella aveva estratto un pugnale.
L'altro uomo tentò di fare un passo indietro
ma, colto di sorpresa, non poté che abbozzarlo.
Il colpo lo colse in pieno, squarciandolo
dal basso verso l'alto: si portò le mani
all'addome e si piegò. Il Pulcinella, non
ancora soddisfatto, lo sostenne con un braccio
mentre con l'altra mano colpiva ancora una
volta. Quindi si girò e si buttò tra la folla,
mentre il primo si accasciava tra i fiori.
L'aggressione si era consumata troppo velocemente
per attirare sguardi indiscreti, e la gente
accanto alla carrozza era troppo distratta
per comprendere quello che stava avvenendo
dentro il cocchio, sopra le sue spalle: quei
pochi che videro la scena con la coda dell'occhio
pensarono a una pantomima. Qualcuno rise
e applaudì: nessuno poteva rendersi conto
che l'uomo sulla carrozza era crollato all'interno,
in un lago di sangue.
Checco, senza una parola, diede le redini
ad Anna, che tremava come una foglia, e si
issò in piedi. Fece un passo, appoggiandosi
sulla sella di uno dei cavalli da traino,
e di lì si tuffò nella carrozza di fronte.
Fu un bel salto. Atterrò tra i fiori, che
costituivano uno strato alto quasi una trentina
di centimetri. Aveva le braccia affondate
in quel morbido pavimento e con orrore si
ritrovò faccia a faccia con il volto dell'uomo
del cocchio. Mentre si risollevava, scorse
un'ombra accanto a lui: era Ermanno, che
aveva eseguito la sua stessa manovra e gli
era volato al fianco.
L'uomo riverso sul fondo del calesse era
già morto; doveva aver reso l'anima a Dio
in pochi istanti. Il poveretto aveva le mani
artigliate sul ventre, come a tamponare la
ferita che l'aveva ucciso, e uno sguardo
stupito sul volto. Checco fece un segno d'intesa
a Ermanno, scrutando tra la folla. Ardua
impresa riconoscere una singola maschera
in quel marasma di gente, ma la macchia bianca
di Pulcinella restava comunque ben avvistabile
tra tutti i colori. Così, non gli sfuggì
quella che guizzava tra la calca cercando
di raggiungere un vicolo laterale, qualche
passo davanti a loro. Schizzarono ancora,
camminando in equilibrio sulle groppe bardate
dei cavalli, e si lanciarono sulle spalle
dei malcapitati, calpestando la folla in
mezzo a mille maledizioni per guadagnare
terreno. Quando toccarono terra erano parecchio
più avanti e fecero in tempo a vedere il
loro uomo divincolarsi e infilarsi in un
crocchio di persone sulla destra. Sgomitarono
senza tanti complimenti e raggiunsero il
punto in cui lo avevano visto scomparire.
- Aho, ma ve pare er modo, ve pare? Nun bastava
quer matto llà, pure questi se dovevano mette
a spigne, li possino… - inveì una popolana
al loro indirizzo.
Ermanno seguì il movimento della mano della
donna e ringraziò dentro di sé l'abitudine
così romana di gesticolare, giacché quel
palmo aperto, quelle dita unite che fendevano
l'aria gli permisero di scorgere una casacca
bianca mentre svoltava dietro una cantonata.
Da quel punto la gente era meno assiepata
e potevano muoversi meglio: ma, purtroppo
per loro, poteva farlo anche l'assassino.
Cominciarono a guadagnare metri, però, sempre
a costo di spintoni furibondi ai poveri passanti.
Ormai il Pulcinella si era accorto di essere
inseguito: si girò indietro a guardarli,
con la sua maschera nera dal naso adunco.
Checco, mentre si avvicinava di gran carriera,
lo vide frugarsi nell'ampia casacca. Poi
un guizzo repentino, e come un lampo saettante.
- Badate! - fece Ermanno, affibbiando all'amico
una spintonata da far stramazzare un bue,
e spedendolo a sbattere su una porta che
scricchiolò paurosamente all'urto. Una frazione
di secondo dopo, nel legno si piantava un
coltello, più o meno alla stessa altezza
dove era stato il petto di Checco. Continuarono
a correre, ma Pulcinella era ormai lontano:
si voltò ancora una volta, prima di farsi
sommergere dalla folla.
- Non è finita! Avete visto quello strappo
sulla casacca? Possiamo riconoscerlo. Coraggio!
Cominciarono a spingere anche loro, fendendo
gli spettatori sulla scia dell'omicida. Lo
riavvistarono, più vicini questa volta. Checco
si mise a ragionare: di nuovo il frastuono
era cresciuto e non avrebbe avuto alcun senso
urlare all'assassino! Fece cenno ad Ermanno
di girare dall'altra parte, così da prenderlo
in mezzo avvicinandosi dai due lati. Pulcinella
continuava a farsi largo a strattoni, e Checco
non riusciva proprio a capire cosa sperasse
di combinare nelle prime file: anzi, così
in bella vista sarebbe stato più facile acchiapparlo.
Lui ed Ermanno convergevano lentamente, avanzando
sulla punta dei piedi per non perderlo di
vista. Il rumore aumentava, sempre più assordante;
le urla della folla si confondevano col rombo
di zoccoli al galoppo.
Pulcinella aveva raggiunto la prima fila
e si slanciò in mezzo al Corso, giusto davanti
ai primi Dragoni che lo percorrevano alla
carica, a tutta velocità. In un attimo tutto
fu avvolto da una nuvola di polvere, sudore,
strepiti, nitriti di cavalli e urla inorridite
di donna. Ermanno stava per buttarsi anche
lui e Checco fu costretto a strattonarlo
per impedirgli di ammazzarsi. Perché sarebbe
stato un autentico suicidio tentare di attraversare
proprio in quel momento, mentre il grosso
dei cavalli passava al galoppo coprendo di
polvere e schiuma la strada, l'aria e gli
spettatori.
Quando la polvere fu calata, diversi minuti
dopo, tossendo e asciugandosi gli occhi irritati,
videro sulla sabbia i segni degli zoccoli
e anche del disperato tentativo di frenata
di un paio di cavalli: ma non c'era nessun
corpo, e nessuna traccia di sangue. Pulcinella
ce l'aveva fatta una volta per tutte.
Rimasero lì, a prendere fiato per un poco.
- Non ho neanche sentito il colpo di cannone
che dà il via alla corsa, mannaggia - disse
Checco, ancora ansimante. - Ecco perché è
rientrato nella confusione: aveva previsto
di buttarsi davanti ai cavalli all'ultimo
momento. Che fegataccio, però. Venite, torniamo
indietro; voglio vedere quel coltello.
Lo trovarono ancora infisso nell'uscio di
legno. Checco lo tolse di lì e lo soppesò
in mano.
- Un bel pugnale, io me ne intendo. Si sa,
noi trasteverini i coltelli li conosciamo
bene. Guardate, è ancora sporco di sangue.
E se non fosse stato per voi, a quest'ora
ci sarebbe pure il mio qua sopra.
- Mi pare che ci siano delle lettere incise…
- Viva la Repubblica! Sangue del demonio!
Ecco perché l'hanno ammazzato!
Ermanno guardò l'altro: il romano era impallidito,
e stringeva i pugni con rabbia.
- Conoscete l'ucciso?
- Si capisce che lo conosco. Era un altro
che lavorava con me: il capo di noi garzoni.
Bernardo si chiamava, ma il cognome non lo
ricordo. Non lo frequentavo molto, perché
si diceva che fosse uno spione del Papa:
uno di quelli che prendono nove scudi al
mese per andare a raccontare al Vicario chi
parla male dei preti. Ma ammazzarlo in questo
modo! Manco li cani, e che diamine! E poi,
se fanno fuori così tutti i vecchi spioni,
a Roma resteremo in pochi!
L'aria s'era fatta scura mentre i due tornavano.
A poco a poco, nel buio della sera che calava,
piccole fiammelle cominciarono ad ardere.
Era l'ultimo di Carnevale e la festa finiva
così: con migliaia di moccoletti, piccole
candele accese dappertutto, sulle carrozze
quasi illuminate a giorno, sui davanzali,
alle finestre… un moccoletto per ognuna delle
migliaia di persone che si assiepavano lungo
le strade. Ermanno si guardò intorno scuotendo
il capo, come incredulo: l'omicidio, il sangue,
la corsa… la concitazione degli eventi lo
aveva proiettato di nuovo nella realtà, svegliandolo
dallo stato di allegria scatenata che aveva
permeato quel pomeriggio. Via via che fendevano
la calca verso la loro carrozza, le luci
delle candele aumentavano di numero e intensità,
mentre il grido Senza moccolo! squarciava
irridente la sera, rimbalzando a destra e
a manca, per tutta Roma, come se restare
con la propria luce accesa e schernire gli
altri fosse l'ultima beffa del carnevale
che rotolava via verso l'espiazione dei peccati,
verso la Quaresima. C'erano cauti uomini
che proteggevano il loro moccolo con un paralume,
e un ragazzo dall'aria trionfante, con un
intero mazzo di candele accese, legate come
un mazzo di asparagi, così da formare una
luce inestinguibile. Ermanno vide almeno
due persone tentare di scalare un carro per
spegnere i lumi dei viaggiatori, e agguati
di ogni sorta a coloro che restavano isolati
con le loro candele in mano. Senza moccolo,
senza moccolo, senza moccolo!!!
Il loro veicolo era ancora fermo, dietro
quello dell'assassinato. I tre olandesi e
il sor Ottavio avevano formato una specie
di cordone insieme alle due guardie civiche
che erano sopraggiunte nel frattempo, per
isolare Anna e la carrozza. Il capo dei gendarmi,
un uomo di mezza età dall'aria massiccia
e paziente, stava ancora parlando con Anna
e chiedendole cosa aveva visto esattamente.
- Quello che vi ho detto. Chi l'ha ucciso
doveva conoscerlo, perché quel poveretto
lo ha fatto salire.
- Eh già, come correte voi! Magari quello
gli ha chiesto per carità di montare, che
era stanco morto. Che ne sapete? La cosa
è chiara, secondo me.
- E sarebbe?
- Ma se capisce, una rapina! L'assassino
l'ha visto tutto solo su una carrozza così
bella: avrà pensato che doveva essere pieno
d'oro.
- Ma scusate - intervenne Checco, che si
era avvicinato - quando ho spostato il corpo
- perché è il qui presente che è corso sul
carro e l'ha preso tra le braccia - ho visto
che la borsa l'aveva ancora ben attaccata
alla cintura. Il vostro ladro l'ha accoltellato
ma non ha preso l'oro.
- Per forza, ragazzo mio! - sbottò il capo
dei gendarmi. - Vi ha visto arrivare ed è
scappato via come il fulmine. Se non fosse
stato per voi che gli eravate dietro, la
gente intorno alla carrozza non se ne sarebbe
neanche accorta, no?
- Questo è vero.
- Orbene! Rapina, vi ho detto, rapina! E
voi capite che di mettere le mani su 'sto
impunito, adesso, non c'è proprio verso.
Vai a sapere chi è e dove sta! A casa del
diavolo! Ma lo acchiapperemo, prima o poi.
Perché un farabutto così a quest'ora sarà
a far bottino con qualcun altro, e quando
lo beccheremo per quello, confesserà pure
questa. Qualcuno conosceva la vittima, sa
dirmi dove stava? Devo avvertire la famiglia.
Furono date le generalità dell'ucciso, che
era persona abbastanza nota a Borgo, e il
gendarme se ne andò brontolando, dopo aver
ordinato ai sottoposti di portare via il
cadavere.
- Oh Checco, perché non avete riferito della
scritta sul pugnale? - chiese Ermanno, messosi
a cassetta con il romano.
- Perché non voglio guai, ecco perché - fu
la risposta. - E non li vogliono manco i
gendarmi. Mica era soltanto il qui presente
Checco Valle a conoscere il sor Bernardo!
Come lo sapevo io il mestiere di spione che
faceva, lo sapeva pure il capo dei birri:
e ha fatto di tutto per sostenere che era
una rapina. Mica scemo! Se invece è per politica,
allora sono guai anche più grossi: bisognerebbe
andare al Governo e dire che qualche repubblicano
si è messo a scannare i vecchi papalini…
in tal caso, potete figurarvi come la prenderebbero!
No, meglio lasciar perdere; in fondo era
solo un domestico, no? E chi volete che se
la prenda più di tanto per uno come il sor
Bernardo, o come me?
Ermanno fissò il ragazzo accanto a lui, pensieroso.
- Io sono repubblicano. Sono venuto fin qui
da Arezzo proprio perché volevo vedere come
funziona la Repubblica, e dare una mano,
se posso. Però non mi piace l'ingiustizia,
non mi piace chi ammazza. Sicché, per parte
mia, voglio andare in fondo alla faccenda.
Se Pulcinella è un repubblicano, ebbene,
alla fine di questa storia avremo un assassino
repubblicano di meno.
- Parlate bene voi! - interloquì Anna. -
E come facciamo a mettergli il sale sulla
coda, a quello?
- Non mi avete sentito, ragazza mia? - replicò
l'aretino. - Quei due avevano l'aria di conoscersi,
hanno scambiato qualche parola; e del resto
il vostro Bernardo non avrebbe certo fatto
salire uno sconosciuto, vi pare? Dunque,
ecco un punto di partenza: dobbiamo sapere
chi frequentava, chi gli ronzava attorno.
Visto che era una spia, chi ha denunciato
in passato: magari è stata la vendetta di
qualcuno finito in galera per colpa sua.
E poi chi gli ha dato i soldi per affittare
la carrozza. Tu, Checco, avevi ricevuto un
gruzzoletto e volevi far contenta tua cugina.
Ma lui?
- Di', Ermanno, hai notato che mi stai dando
del "tu"? Per me va benone, figurati,
tanto più che oggi mi hai pure salvato la
vita. Ma io sono un poveraccio, e tu quasi
un signore. È proprio Repubblica, va!
La gente continuava a spegnersi i moccoli
a vicenda, mentre loro si districavano dal
traffico e riprendevano la via di Borgo e
della locanda. Dalle finestre, uomini e donne
con pertiche e ami si sporgevano per cogliere
di sorpresa chi transitava e potergli poi
urlare il loro senza moccolo! di dileggio.
Mentre ripassavano il ponte e l'aria scura
della notte fasciava le rive incolte del
Tevere, i rintocchi dell'Ave Maria iniziarono
a rincorrersi di chiesa in chiesa, da San
Pietro all'ultima delle chiesine fuori le
Mura. Anna si fece il segno della croce,
intabarrandosi in una mantella pesante. E
il silenzio e la stanchezza avvolsero la
città come un sudario.
UNA STORIACCIA TENERA
di ENRICO SOLITO
Pioveva. Anche quella sera pioveva, e tirava
un ventaccio maledetto. Che umido che faceva
sul viale, sotto i tigli... Maria rabbrividiva
nel suo pellicciotto finto, e decise di accendersi
un'altra sigaretta. Con quel tempo da lupi
non sarebbe passato nessuno di sicuro...
se se ne fosse tornata a casa? Già, una bella
trovata davvero! E chi avrebbe rimediato
i soldi per domani, poi?
No, non c'era soluzione. Bisognava lavorare,
anche stasera. Anche se pioveva. Si avvicinò
una macchina, rallentò. Lei non vedeva niente,
solo i fari negli occhi. Alzò leggermente
l'ombrello, si tolse la sigaretta di bocca
e lanciò una voluta di fumo, sorridendo e
guardando le luci che l'accecavano con un
sorriso che voleva essere invitante e tentatore.
L'aveva imparata tanti anni prima quella
mossa, e l'effetto che faceva oramai era
soltanto penoso: ma lei non lo sapeva, chi
mai avrebbe potuto dirglielo?
La macchina accellerò bruscamente, alzando
un muro di schizzi che la presero di striscio.
Stronzo - disse a mezza voce rimettendosi
la sigaretta in bocca -, un altro stronzo
che si diverte a fare il giro delle puttane.
Bella serata, sì.
Fece due passi, tanto per scaldarsi. Due
passi in sù, fermarsi, girarsi,due passi
in giù. Ne aveva fatti di chilometri in vita
sua, in questo modo! Sorrise amaramente,
mentre rabbrividiva. La vita non era poi
malaccio, almeno quando non pioveva. Ma che
schifo, stasera.
L'acqua scendeva a secchiate, violenta, dal
cielo che non si vedeva più e Maria si accorse
che piano piano ci vedeva sempre di meno.
Gli alberi diventavano sempre più bui e quelli
dall'altra parte della strada li indovinava,
oramai, più che vederli. Strinse gli occhi
e fissò il lampione, che spandeva intorno
un piccolo cono di luce assediato: la pioggia
lo rigava, curiosamente. Intravide qualcosa
che si muoveva , sul marciapiede dirimpetto,
e che si avvicinava istintivamente al lampione,
a quell'isola di luce braccata dall'acqua
e dal buio, come faceva lei. "Eh già,-
pensò - ti pareva che mancasse, quella troia.-
Poi sorrise: dare della troia a un altra
non era il massimo dell'eleganza, da parte
sua: diciamo che non era la persona più indicata
a farlo. L'altra, riprese a pensare: un maledetto
travestito che le aveva rovinato la piazza.
Ecco il guaio di lavorare senza un protettore
serio, con quello scimunito di Renzo. Un
altro, appena avvertito, si sarebbe precipitato
a controllare, a chiedere, a vedere: l'avrebbe
minacciata, quell'altra, l'avrebbe magari
sfigurata... ma sì, Renzo! Figuriamoci: quello
era buono solo a bere e a fumare a letto.
L'aveva ascoltata con aria annoiata, e si
era girato dall'altra parte. Ma che la smettesse
di fare l'isterica: avrebbe provveduto lui.
Domani. Figuriamoci. Erano passate settimane
oramai: e Maria non ne poteva più davvero.
L'aveva osservata da lontano, nelle sere
prima: un bel tocco di ragazza, accidenti
a lei. Un travestito, certo: non poteva sbagliarsi
su come andava vestita, con quei tacchi assurdi,
tanto più per passeggiare in su e in giù,
quelle minigonne... e poi quei trucchi, e
quel tono di voce. Però era bella, quella
carogna. E le macchine si fermavano per lei,
oh se si fermavano. Almeno si fosse presentata,
le avesse detto qualcosa... ma già, le puttane
non si presentano. Non siamo mica a un ricevimento
di gala... quella avrà avuto paura di ritorsioni
del protettore: se sapesse...
I pensieri le frullavano nel cervello, in
quella serataccia fradicia d'acqua e di rabbia,
mentre passeggiava avanti e indietro, due
passi su, voltarsi, due passi in giù, sculettare,
su e giù per quel dannato pezzo di marciapiede.
Non c'era niente da fare, d'altra parte.
E se l'avesse affrontata lei? Era tanto che
ci pensava. Bisognava fare qualcosa. E d'altra
parte, Maria ne era convinta, non ci potevano
essere rischi. Se l'altra fosse stata ben
protetta, la sua organizzazione si sarebbe
fatta viva per prima: sarebbero andati da
Maria per spaventarla, per cacciarla...no,
doveva essere un cane sciolto. Come me, pensò
amaramente, visto che quel farabutto di Renzo
è solo capace di fregarmi i soldi, bere e
picchiarmi... ma basta. Avrebbe detto basta.
Avrebbe attraversato la strada e l'avrebbe
presa a botte, che cazzo. Tanto più che in
una serata come stasera, non c'era certo
da lavorare tutte e due, era evidente no?
Le sere prima, ancora ancora... un traffico!
Ma sì, perché non ammetterlo? Le aveva fatto
perfin comodo. Era tanto che non si fermavano
in tanti così: per forza, quella stronza
era proprio bella: e poi ci sapeva fare,
sculettava, attaccava discorso: era logico
che gli uomini ne fossero affascinati. Ma
quando poi capivano che era un travestito,
molti se ne andavano. E allora rimorchiavano
lei, che si metteva apposta un poco più in
là. Meno bella certo, una puttana qualsiasi,
ma una donna... sì, le aveva quasi fatto
comodo. Però alla lunga non poteva durare,
eh no che cavolo. Quel posto era suo, e le
avrebbe fatto vedere...
Sospirò di nuovo. Che acqua. Perché diavolo
poi faceva scorrere i pensieri in libertà
in quel modo... le mulinavano nel cervello:
a volte le pareva di essere ubriaca. Era
capace di ragionare da sola per ore e inventarsi
delle storie: storie belle, emozionanti,
in cui lei aveva una parte importante: e
alla fine si metteva a parlare da sola e
a gesticolare, ed era preoccupata, e poi
felice, e rideva come una matta da sola nella
strada, felice nella sua storia... qualcuno
pensava che era matta.
Una macchina, dall'altra parte della strada.
Una frenata brusca. Una porta che si apre
qualcosa che cade. La portiera che risbatte,
la macchina che riparte di scatto, senza
sgommare per via dell'acqua. Ma che cazzo
succede. Non si vedeva niente laggiù, troppa
pioggia. E poi un lamento.
Eh no per la miseria.
Maria buttò via la sigaretta e cominciò a
correre. Che è successo.
La trovò a terra, nel fango. Piangeva. Le
calze rotte, il vestito strappato. Una scarpa
col tacco rotto. Il trucco che colava via
sotto l'acqua gelida . La faccia... dio che
botte che aveva preso. Si lamentava piano,
strano che l'avesse sentita con il rumore
della pioggia. Rimase lì bloccata, con l'
ombrello in mano, come una stupida: non sapeva
che fare.
Si guardarono, senza parlare. Il travestito
singhiozzava ancora, piano piano. Lei si
schiarì la voce.
Doveva dire qualcosa, cazzo.
-Te le hanno date, eh?-. Brava si disse,
il tono giusto. Comprensivo, ma non pietoso.
Da collega.
L'altro tirò su col naso. E alzò la testa,
quasi in segno di sfida. Ma lei non accettò
la provocazione e sorrise. Perché diavolo
le sto sorridendo, si disse. Poco fa l' avrei
presa a schiaffi.
-Dai alzati su. Non vorrai mica restare lì.
-
-Tanto...-una voce strana, roca, da travestito.
Le faceva effetto sentire quel vocione da
uomo uscire da un corpo tanto più femminile
del suo. Notò l'accento napoletano.
-Tanto che? Non fare la scema, dai. -
Il travestito si alzò a fatica, e lei automaticamente
gli afferrò il braccio per aiutarlo.
-Incerti del mestiere...-sorrideva anche
lui adesso.- Madonna mia, guarda come sto
combinata...il vestitino nero aderente scollato...
madonna, con quello che m'era costato! Le
calze, le scarpe...che disastro.-
-Com'è successo?- Domanda stupida, lo sapeva.
Era chiaro com'era successo.
- Come sempre, no? Erano due giovanotti,
io mi sono fidata... e dopo hanno alzata
la voce, mi hanno riempito e' schiaffi e
m'hanno strappata la borsetta con tutti i
soldi, mannaggia a'lloro!-
-Va là che è andata bene. Vieni sotto l'ombrello,
che almeno smetti di bagnarti. E' andata
bene, sì: ti potevano ammazzare lo sai. Ma
tu con due insieme non ci andare mai, dai
retta a me. E' pericoloso.-
Il travestito la guardò con uno sguardo strano.
-Grazie, sei gentile. Ma torna pure a lavorare,
io me ne torno a casa. Tanto accussì combinata,
chi vuoi che si ferma cchiù?-
-Ti accompagno io, sennò ti fradici. Tanto
con quest' acqua non passa nessuno.-
Non le disse che senza la presenza dell'altra
nessuno, anche se fosse passato, si sarebbe
fermato. Non le voleva dare una soddisfazione
così.
La prese sotto braccio- il travestito zoppicava,
con uno solo dei suoi assurdi tacchi alti-
e si incamminarono sotto il temporale.
-Io mi chiamo Maria- fece, tanto per dire
qualcosa.
-Io Antonietta- fece subito lei, quasi di
slancio- anche se nel mestiere mi faccio
chiamare Deborah. Solo dai clienti però,
non dalle amiche. Oddio- continuò precipitosamente,
come se fosse stata in imbarazzo a darle
implicitamente dell'amica- il nome vero mio
sarebbe Antonio. Poi quando faccio l'operazione
cambio pure il nome. Tu l'avevi capito, vero,
che non ero una donna?-
No, figurati. Una sorpresa.- Poi si guardarono
un secondo negli occhi e scoppiarono a ridere
come matte, tutte e due.
Ridevano da sbellicarsi, e Maria non riusciva
a tenere diritto l'ombrello, e si fradiciavano
ancora, e più si bagnavano più ridevano.
- Oh Gesù, Gesù, che bugiarda sei. Ma noi
siamo pazzerielle veramente, o'ssai sì?-
- No , guarda - disse Maria tirando il fiato-
due puttane sotto l'acqua. Ma che ci troviamo
da ridere? Io non ho rimediato niente, a
te t'hanno pure menata...-
- E cche vuo' fa'! E' la vita... ringraziamo
Iddio che siamo vive no? Guarda siamo arrivate.
E' qui.-
Era una palazzo anonimo, in quello schifo
di periferia, subito dietro i viali dove
battevano. Era ancora più squallido, grigio
e umido sotto quella pioggia battente. Qualcuno
aveva attaccato dei manifesti sull'intonaco
scrostato- manifesti elettorali sembravano,
che l'acqua furiosamente aveva quasi strappato
via, e da cui gocciolavano via i colori misti
a pezzetti di cartone. Scavalcarono un rigagnolo
gonfiato dal temporale ed entrarono nel portone.
Ripresero fiato un attimo aspettando l'ascensore,
mentre ai loro piedi si formava velocemente
una pozzetta d'acqua che scendeva dai loro
corpi bagnati. Ma non avevano più voglia
di ridere adesso, solo di mettersi al caldo
e cercare di riposarsi un poco. Di parlare
un attimo, forse.
Che strano, pensava Maria, che strana storia
che mi sta capitando. Io, che sono più dura
della roccia delle montagne del paese mio!
Erano anni che non parlavo così con una sconosciuta,
che mi lasciavo andare. Tutte le volte che
ti lasci andare ti fregano, stà attenta Maria,
lo sai che dopo ci stai male. Sono tutti
stronzi Maria, ricordatelo accidenti a te.
Che strano, pensava Antonietta, che strana
storia che mi sta capitando. Io, che sono
più dura della roccia delle montagne del
paese mio! Erano anni che non parlavo così
con una sconosciuta, che mi lasciavo andare.
Tutte le volte che ti lasci andare ti fregano,
stà attenta Antonietta, lo sai che dopo ci
stai male. Sono tutti stronzi Antonietta,
ricordatelo accidenti a te.
In casa di Antonietta si stava bene : all'asciutto
finalmente, con un bicchiere di roba calda
tra le mani, e sdraiate in poltrona (Antonietta,
chè Maria non si era voluta cambiare ed era
ancora un poco umida).
Cazzo che bello qua- fece Maria, rigirandosi
attorno con l'occhio famelico della puttana
di professione- ti deve essere costato un
sacco di soldi arredarlo bene.
-Ma che vuoi, io non ho spese. Non mi faccio,
non bevo, non ho protettori. Quello che guadagno
è mio: certo metto da parte i soldi per l'operazione.
Ma non ho tanta fretta, poi.-
Maria la scrutò a lungo. Non sapeva se lasciarsi
andare. Poi si decise.
-Io ti invidio, sai. No guarda, non per quello
che credi tu. Sì, hai un bel corpo e io a
confronto faccio pietà - non negare, lo so
che è così, non sono mica scema , che ti
credi - ma non è questo che ti invidio. E
nemmeno i soldi: io faccio quasi la fame,
perché quello che guadagno si frega tutto
l'uomo mio, quel porco. Ma stammi a sentire,
quello che proprio mi lascia rincretinita
è che tu sei libera.-
- Libera? - Antonietta scoppiò a ridere.
- Sì, libera, stammi a sentire. Io ho passato
una vita cogli uomini. Belli stronzi, tutti.
A cominciare da mio padre, un alcoolizzato
che mi menava tutti i giorni, e che piantò
mia madre incinta e me che avevo otto anni...
cazzo, che stronzo. Poi - parlava mentre
beveva, e il liquore le faceva bene, la faceva
sentire a posto, intelligente, con le idee
chiare - poi gli altri. Quello che mi fece
la prima volta, in piedi, al buio, di fretta...
capisci? E poi tutti gli altri. E adesso
Renzo. Uno buono a darmi un sacco di botte,
quel vigliacco, e a bere e a spassarsela
alla faccia mia... ma lui che fa per me?
Ma io scema, eccomi qui!- aprì teatralmente
le braccia - Hai bisogno Renzino? Vuoi qualcosa?
Servono i soldini? Ecco qui Mariuccia tua
che te li dà, tanto poi va a battere... che
tanto poi se non ci fosse lui ce ne sarebbe
un altro. Sono tutti uguali gli uomini. Tutti
stronzi.
- Infatti.- fece con tono serio Antonietta
- Pure io non sopporto gli uomini . E' per
questo che io voglio diventare donna.-
Scoppiarono a ridere di nuovo tutte e due.
Una risata calda, che faceva bene. Una risata
di due che condividevano qualcosa.
- Ma tu no. Tu non hai protettore, te ne
freghi, stai da sola. Vivi da sola, i soldi
sono tuoi, la vita è tua. Se ti fa schifo
andare in strada nessuno ti obbliga. A me
Renzo m'ammazza. Se te ne vuoi andare da
un'altra parte, lo fai e basta.
- Sì, e poi mi succede come a stasera. Mi
sarebbe servito un protettore, stasera.
- Sì, un bel protettore come Renzo, sì! Che
credi che non mi sia capitato pure a me?
Te l'ho detto, lui è buono solo a succhiarmi
i soldi miei, a quello è buono. Di me se
ne frega. Se ne fregano tutti. Tutti gli
uomini. Tutti stronzi.-
- Però tu tieni pure torto, sai Maria. Scusa
se te lo dico ma tu tieni torto, e per un
sacco di ragioni. Io guarda non è che ti
voglio fare la predica, sai, ci mancherebbe
altro. E poi da che pulpito... no, ma io
credo che è pure colpa nostra, non solo di
loro che sono stronzi. Un poco di colpa è
pure nostra, che non desideriamo altro che
farci trattare così, pur di stare con qualcuno,
sentirsi importanti per quell'uomo, almeno
lui... è che teniamo paura di restarcene
da sole. Fa freddo da sole... E poi tieni
torto a dire che io sono libera. Libera,
sìì.... se tu sapessi davvero la storia mia...
- Raccontamela.- si sorprese lei stessa a
sentirselo dire. E che era diventata, una
dama di San Vincenzo, come quelle che le
facevano la predica all'orfanatrofio?
- Veramente ti interessa? Io però non te
la voglio fare tanto lunga. E grazie che
non mi hai chiesto "ma come mai sei
accussì, quando te ne sei accorta... sei
maschio o femmina veramente..." lasciamo
stare tutte queste cose. Tu pigliami per
quello che sono, che poi non lo so nemmeno
io quello che sono. Diciamo che sono accussì,
sono Antonietta, va bene? Ma tu dici che
sono libera. Libera di fare che? Tu credi
che una come me se ne va tranquilla tranquilla
a fare un concorso per entrare in banca?
O per avere uno straccio di posto? Io ho
studiato sai, avrei potuto fare un bel lavoro.
E ci ho provato pure, sai, ho avuto la faccia
tosta di provare... non lo sai nemmeno in
che imbarazzo stava quella povera gente per
mandarmi via: solo uno si incazzò di brutto,
fu scortese... insomma io capii chiaramente
che se mi travestivo - come dicono loro,
i maschi, che non capiscono niente: perché
per me è vestirsi normale, come mi sento
io, come ci sto bene! - se mi travestivo
dicevo non potevo assolutamente lavorare.
E se non lavori non mangi, bella mia! E che
dovevo fare? Un'amica mia si travestì da
uomo - perché quello è travestirsi davvero
sai, per quelle come noi - cambiò città e
provò a fingersi uomo. Lavorava. Faceva vita
riservatissima, in casa da sola, per non
farsi scoprire: niente amiche, niente amore.
Televisione e patatine fritte. Dopo due anni
gli è scoppiato un esaurimento nervoso, è
finito alla Clinica psichiatrica e ha perduto
il lavoro lo stesso. Vedendo questa cosa
ho capito che non c'era scelta: l'unica cosa
che può fare uno di noi è battere, cercare
di fare un po' di soldi, fare l'operazione
e cambiare sesso. A quel punto, forse, può
cercare di vivere come una donna vera, e
cercare di cambiare mestiere. Se non è troppo
tardi. Ma nel frattempo, battere, e senza
buttare via una lira. Perché il tempo, capisci,
quello è determinante. Non posso perdere
tempo. Se divento vecchia senza aver fatto
i soldi sono fottuta: per questo non voglio
protettori. Piuttosto rischio: mi costa sempre
di meno. E tu dici che sono libera? Sì, libera
di scegliere tra battere e crepare di fame:
libera un cazzo, cara mia!
Sospirarono tutte e due. Si capivano.
Maria andò via tardi, quella sera, dopo aver
insistito che Antonietta si mettesse a letto
e averle preparato qualcosa di caldo. Tornata
a casa, non disse niente a Renzo - e come
avrebbe fatto a spiegargli? - e gli raccontò
solo di essere furiosa per aver preso tanta
acqua per niente: non era passato nessuno,
una serata maledetta.
La sera dopo si andarono incontro, si salutarono,
si augurarono buon lavoro. Maria si spostò:
un po' più in là, molto vicino ad Antonietta.
Così potevano scambiare due chiacchiere,
quando non passava nessuno, e si sentivano
anche un poco più sicure. Quando una delle
due montava in macchina con gente che non
sembrava supersicura, l'altra prendeva nota
della targa. Il cliente se ne accorgeva,
e filava dritto. Non capitarono più incidenti.
Si guardavano, parlottavano del più o del
meno. Si sentivano meno sole.
Passarono diverse settimane.
Una sera Maria tardava. Antonietta si era
messa su in grande stile: avevano deciso
così la sera prima, di mettersi in ghingheri
tutte e due. Ogni tanto lo facevano, per
scherzo: facciamoglielo vedere agli uomini,
come siamo belle. E si guardavano, si ammiravano
tra loro, si facevano i complimenti, come
due ragazzine: era un modo per sentirsi meno
sole, sulla strada. Antonietta camminava
in su e in giù, rispondeva a quelli che si
fermavano: ma non era allegra, pimpante come
al solito. No. Era tesa, nervosa. Preoccupata,
ecco, era preoccupata. Che succedeva? Mai
Maria era arrivata così tardi, lei era così
precisa... Fosse stata male? L'avrebbe avvertita,
il telefono ce l'aveva. E allora?
Eccola. Finalmente. Arrivava come al solito,
a piedi, dalla fermata dell'autobus che la
lasciava a un chilometro. Antonietta le corse
incontro, lasciando là un cliente ai primi
approcci, che ci rimase malissimo. Ma che
hai fatto, le chiese? Niente niente, lasciami
stare adesso, andiamo a lavorare. Ma come?
Lasciami stare t'ho detto, lasciami stare.
Ma che hai Marì? Niente ho, non ho mai niente.
Antonietta era furiosa. Era stata così preoccupata,
e mò adesso quella si metteva a fare la misteriosa.
La scontrosa. La dura. Ecco cosa stava facendo:
la dura, quella che non ha bisogno di niente.
La puttana, insomma: la puttana esperta che
non solo non chiede niente a nessuno, ma
che ti morde se ti avvicini: che se ti cadono
cento lire le abbranca e poi ti guarda male,
ha paura che tu te le voglia riprendere.
Ne conosceva di femmine così, quante ne aveva
conosciute! Ma Maria no: Maria non era mai
stata così, per questo le piaceva. Per questo
erano diventate amiche, perché si asssomigliavano...
I travestiti non diventavano come le puttane
- pensò - diventano vecchi e tristi ma mai
duri e cattivi. Non imparano mai. E a lei
era sembrato che Maria pure fosse fatta così:
sennò perché avvicinarsi quella sera che
l'avevano colpita? Che si fosse sbagliata?
Ma no, no. E allora? E allora... non voleva
confidarsi ecco, non voleva parlarle. Certo,
parlare con qualcuno era sempre difficile...
però le faceva rabbia. Sicuro, rabbia. E
allora la ignorava, a bella posta. Faceva
la sexy, si spogliava quasi nuda quando passavano
le macchine, che si rifacessero gli occhi,
che guardassero, che la mettessero a paragone-
pensava- con quell'altra. E che Maria schiattasse
di rabbia al confronto, perché lo sapeva
che a questo era sensibile. Era sempre una
donna, no? La guardava di sottecchi, mentre
sculettava in su e in giù, civettando coi
clienti in macchina: macchè, se ne stava
imbronciata da una parte, quasi non illuminata
dai lampioni. Ma che aveva? A far così non
avrebbe raccattato un chiodo stasera... poi
capì di colpo. Si avvicinò, senza badare
a quelli della macchina che la chiamavano,
le prese le spalle e la portò di colpo sotto
il lampione.
- Fammi vedere, dai. Ma guarda come t'ha
conciata quel disgraziato. E' stato lui?-
Ma certo che era stato lui. Aveva un occhio
gonfio e blu, era strano che ci vedesse ancora.
Ecco perché era in ritardo, poverina: ed
ecco perché non voleva parlare. Si vergognava.
Antonietta sorrise: Maria era capace di vergogna.
Non s'era poi sbagliata: era una persona
dolce, delicata, pure se batteva.
Maria si sfogò, a quel punto, almeno come
poteva farlo, tra un cliente e l'altro, tra
una macchina e l'altra. Renzo s'era ubriacato,
quella sera, e voleva i soldi, e non gli
importava niente se ancora lei non poteva
averli perché doveva ancora andare a lavorare,
lui li voleva. E così le aveva allungato
quel pugno, che le faceva rabbia, ma così
rabbia, a parte il male! Perché lui lo sapeva
che lei con la faccia ci lavorava. Lo sapeva
che così non avrebbe guadagnato niente quella
sera, e così lui si sarebbe arrabbiato di
più e l'avrebbe picchiata ancora... Non c'era
fine, ecco, non c'era fine.
Maria scoppiò a piangere, singhiozzando come
una bambina. Antonietta l'abbracciava e le
carezzava piano i capelli. Le sussurrava
qualcosa in napoletano negli orecchi, e la
gente che passava non capiva che ci facessero
quelle due puttane abbracciate sotto un lampione,
lì sul viale.
Quella sera Maria tornò a casa con un po'
di soldi di Antonietta. Ma non fu tutto.
Il giorno dopo, e il giorno dopo ancora,
Maria e Antonietta passarono un sacco di
tempo al telefono.
- Tu sei na' matta. Quello ci ammazza a tutte
e due -
- See, o' castigamatti. Ma fammi o' piacere!
No, tu devi dare retta a me. Sennò quello
continua a fare come al solito e o prima
o poi tu le penne ce le lasci veramente.
Io ci tengo a te, Marì, sei l'unica amica
che tengo. Non posso campare solo cogli uomini
attorno, Maria! -
- Maria deciditi. Guarda che non puoi continuare
così. Ne ho viste altre Marì, ne ho viste
altre ti dico.-
- Maria fammi sta carità, dammi retta.
E la vita che continuava sempre uguale. La
notte sui viali, la mattina a dormire, e
quando si svegliava lui già non c'era, sparito
coi soldi guadagnati la notte, già a giocare,
a ubriacarsi, a fare chissà che. E poi i
lunghi pomeriggi di noia, e lui che rincasava
e la guardava. Si guardavano come estranei
oramai: lui si piazzava brontolando davanti
al televisore, lei non sapeva che dire, che
fare... e lei capiva sempre di più che quella
storia, quell'amore, se lo era costruito
lei da sola, con la sua fantasia, con la
sua voglia disperata di un affetto, per povero
e miserabile che fosse. Capiva sempre di
più che quell'amore non c'era mai stato davvero,
era stato solo un'illusione coltivata con
disperazione e che aveva vivacchiato alla
meglio, come il basilico sul balcone: ma
era un'illusione. E le illusioni prima o
poi muoiono. Guardava quell'uomo, in mutande
e canottiera, che fumava e guardava la televisione
annoiato, senza uno scatto, senza orgoglio,
senza voglia di vivere. E capiva ogni giorno
di più che lo disprezzava invece di amarlo:
lo disprezzava per il suo accettare quella
situazione. Un uomo vero non ci sarebbe mai
stato. Se non l'amava, le avrebbe detto no,
basta. Questo avrebbe fatto un uomo vero,
come quelli del cinema. Ma lui no. Lui alzava
le spalle e fumava un'altra sigaretta. Maria,
un'altra... un film o un altro alla tv. Un
giorno o l'altro della vita. Tutto era uguale,
tutto noioso. Tutto un rompimento di balle.
No: con un essere inutile così lei non ci
poteva stare. Era lei che non ci poteva stare
più: perché quando le donne si accorgono
che non amano, è finita davvero. Proprio
questa frase disse ad Antonietta quella sera:
e Antonietta le diede un bacio ammirata.
E questa dove l'hai letta Marì ? - fece -
Pare una frase di uno scrittore russo !-
- Scherza tu. E' così, sai. Io finchè pensavo
di amarlo, a Renzo, mi andava pure bene che
me le dasse, e di battere per lui. Ma non
è un uomo, è una gelatina. Se non mi vuole
bene, doveva mandarmi al diavolo. E allora
di che sono innamorata: di una gelatina?
No guarda, basta. Basta.-
-Allora d'accordo?-
D'accordo. E che Dio ce la mandi buona-
Quella sera Maria non tornò a casa. Renzo
si preoccupò solo al mattino, quando si svegliò
e non trovò né lei né i soldi sul comò. Andò
a cercarla sul viale, ma non c'era nessuno.
Ci tornò la sera: niente, le automobili passavano
di gran carriera sul viale deserto. Ma che
stava succedendo? Maria era troppo furba
per farsi ammazzare da un cliente. Certo,
c'era tanta gente pericolosa in giro... macchè:
se l'avessero ammazzata a quest'ora il corpo
l'avrebbero già ritrovato. E allora?
Lui non capiva. Ma che poteva fare? Tornò
a casa tardi, dopo averla cercata nei locali
malfamati che anche lei conosceva. Si versò
un whisky e si sprofondò in poltrona, brontolando.
Che poteva essere successo?
Trillò il telefono.
Renzo sussultò. Alle due di notte il telefono.
Poteva solo dire guai. Forse l'avevano trovata,
e lo cercavano: diavolo, si sentì stringere
lo stomaco. Ci si era quasi affezionato,
a quella donnuccia. Alzò la cornetta con
la mano che tremava, ma non disse una parola.
Dall'altra parte qualcuno respirava. Respirava
forte, ansimando. Che cazzo di scherzi, pensò.
Poi sentì la voce: roca, profonda, piena
di fumo, di stanchezza, di noia. E pericolosissima.
- Non dovevi sgarrare, picciotto. Non dovevi.
Uno sbagghio è stato. E gli sbagghi si pagano.-
Si ritrovò la gola secca.
-Ma chi... ma che dite?
Un profondo sospiro.
- Le puttane non sono cchiù di chi gli pare,
picciotto, in questa città. Sono cosa nostra.-
Renzo non riusciva più a parlare.
- Don Tano ti invia i suoi saluti.
Clic.
Il bastardo aveva riagganciato. Renzo rimase
con la cornetta in mano e la bocca aperta,
con la mano che tremava come impazzita. Guardò
stupito il braccio che tremava, si afferrò
il polso con l'altra mano e si costrinse
a posare il ricevitore sulla cornetta. Don
Tano, pensava, e non riusciva a pensare ad
altro. Rimase seduto nel buio, ad occhi sbarrati.
Era finito, fottuto, chiuso. Avevano deciso
di impadronirsi del mercato delle puttane,
porca miseria. Maria dovevano averla presa
loro, non c'era dubbio. Fatta fuori forse:
o forse no, trasferita in un altra città,
forse. O forse no, perché? Per quella, Renzo
o un'altro... quella troia. Ma il problema
non era Maria: era lui. Dovevano farlo fuori,
certo. Don Tano. Don Tano. Avrebbero fatto
fuori tutti i piccoli protettori... ma forse...
forse no, perdio! In fondo gli avevano telefonato,
no? Perché? Non facevano mai nulla per niente,
quelli... Don Tano. Maledizione, maledizione.
Forse, sì, forse non si sarebbero dati la
pena di far fuori i pesci piccoli, o almeno
non tutti: bastava dirgli di levarsi di torno.
E certo che l'avrebbe fatto, e subito. Don
Tano. Don Tano. Doveva lasciare la città
immediatamente, senza neanche far le valigie.
Forse aveva pochi minuti, forse lo stavano
osservando per decidere se agire o risparmiarlo...
scappò fuori di casa senza neanche cambiarsi
la camicia, senza prendere un abito di ricambio.
Don Tano. Corse verso la macchina ad occhi
chiusi, convinto che una raffica di mitraglietta
lo stesse aspettando nel buio. Si infilò
dentro, col cuore impazzito, i denti che
tremavano e una folle gioia in testa. Lo
lasciavano campare, lo lasciavano campare.
Sgommò via a tutta velocità, verso il casello
dell'autostrada: e l'ultima cosa che pensò,
mentre lasciava per sempre quella schifosissima
città, fu che era stato furbo a mettere da
parte un po' di soldi. Gli sarebbero serviti.
Il silenzio scese di nuovo sulla strada.
Nella cabina all'angolo della via due figure
stavano stipate dentro a una cabina del telefono.
Ridevano, ridevano di gioia, e di incredulità.
-Mica me lo credevo, che ci cascasse così
facile, sai. -
-Perché non li conosci gli uomini, Marì.
Dai retta a me, che me ne intendo. Sei d'accordo,
no, che me ne intendo di più io, o no? Quelli
fanno sempre i prepotenti co'nnuie, ma poi
trovano sempre qualcuno più strunzo e'lloro.-
-Ma tu sei brava coi dialetti. Quasi quasi
mi facevi paura pure a me.-
-No, è che tu tenevi paura per conto tuo.
E pure io, Marì. Pure io! -
Tornarono a casa insieme, quella sera, e
da allora andarono a vivere da Antonietta.
Si dividevano i compiti di casa, cucinavano
una volta per uno, e pure a fare la spesa
facevano i turni: ma a battere no, ci andavano
insieme: e Antonietta insistè a mettere i
soldi in comune. Poi Maria ebbe l'idea del
telefono: cominciarono a mettere l'annuncio
sul giornale e a ricevere i clienti in casa.
Più comodo che andare a prendere il freddo
per strada, e rendeva di più.
Fu dopo sei mesi che successe.
Erano in macchina - ora si potevano permettere
una macchina - ed erano andate a passare
il pomeriggio al mare - ora si potevano permettere
qualche giorno di vacanza, ogni tanto. Videro
la macchina arrivare veloce, frenare. Si
aprì la portiera, qualcuno scaraventò un
fagotto per terra, la macchina ripartì. Loro
si fermarono, ne avevano viste troppe per
non capire. Il fagotto piangeva, si lamentava
piano. Si avvicinarono. Si guardarono. Si
sorrisero e strinsero le spalle. Che vvuoi
ffà?
-Gesù. Una bambina. Questa è una bambina.
Avrà quindici anni-
-Vieni cocca. Vieni.-
La ragazza le guardò terrorizzata. Diede
due urli nella sua lingua, gridò di andarsene,
lasciarla in pace. Ma nel viale rispose solo
il motore delle macchine.
-Sta tranquilla. Non ti facciamo niente,
sei con noi ora. Ci penseremo noi a te. Vieni
qua. Andiamo via. Andiamo a casa.-
La pioggia ricominciava a cadere, sui viali
di quella sporca città. Tre puttane salirono
in macchina, e la gente che passava non capiva
cosa diavolo facessero.
Enrico Solito (Roma, 1954).
Pediatra e neuropsichiatra infantile, vive ed esercita la professione in Toscana.
E' membro di varie associazioni scientifiche e dell'Associazione Sherlockiana Italiana
"Uno Studio in Holmes" per la quale cura la rivista "The Strand Magazine".
L'Associazione ha anche un
sito internet. Ha scritto, oltre a numerosi libri
e articoli di carattere medico, moltissimi racconti apocrifi con Sherlock Holmes protagonista
raccolti nei seguenti volumi: "Uno Studio in Holmes (Biblioteca del Vascello, 1995),
"I Casi proibiti di Sherlock Holmes" e "Sette Misteri per Sherlock Holmes"
(Hobby & Work, 1998 e 2000) ed una enciclopedia holmesiana insieme a Stefano Guerra "I 17
Scalini" (Bottega delle Meraviglie, 1998). Nel 1997, con il racconto "La Sindrome di Caino"
ha vinto il premio letterario "Palazzo al Bosco".
"UNO STUDIO IN HOLMES" di Enrico Solito (Biblioteca del Vascello) |
"I DICIASSETTE SCALINI ENCICLOPEDIA DI SHERLOCK HOLMES" di Enrico Solito e Stefano Guerra (Edizioni Il Torchio) |
"I CASI PROIBITI DI SHERLOCK HOLMES" di Enrico Solito (Hobby & Work) |