"All'ombra del pino"
di Enrico Solito (Hobby & Work 2003)
"Sette Misteri per Sherlock Holmes"
di Enrico Solito (Hobby & Work)

Il nuovo romanzo di Enrico Solito!
All'ombra del pino
giallo risorgimentale

Maggio 1881. E' una notte di tempesta quando l'ex garibaldino Benedetto Cairoli si ritrova con una pistola alla tempia. Chi lo minaccia è Anna, una vecchia popolana di Trastevere. Ma la donna vuole solo costringerlo ad ascoltare una storia. E questa storia narra di un diabolico caso criminale, risalente a trent'anni prima. Febbraio 1849. Subito dopo la nascita della Repubblica Romana, Ermanno, giovane patriota toscano, assiste involontariamente al primo di una lunga serie di omicidi. Da quel momento si ritrova al centro di un intrigo infernale, costellato di morti, inganni e viltà. Mentre le truppe francesi incombono sulla Repubblica, Ermanno lotta insieme ad Anna e Checco per smascherare un colpevole insospettabile.


INTRODUZIONE AL ROMANZO
di Oliviero Diliberto

Piove. Leggo il dattiloscritto de All'ombra del pino nelle stesse condizioni atmosferiche nelle quali inizia la narrazione. Benedetto Cairoli, presidente del Consiglio del neonato Regno d'Italia, alla vigilia delle dimissioni, è solo nei suoi uffici. Fuori, piove a dirotto. Un tempo da lupi, come scrive Solito, un tempo adatto ai ricordi. E ai rancori.
Il dato atmosferico non è ininfluente, come si comprende leggendo il romanzo. Si tratta di un racconto noir ben costruito, segnato profondamente da sentimenti forti: amore, amicizia, passione politica, ma anche odio, tradimenti, le soperchierie (direbbe Manzoni) del potere sui cittadini. Il tutto in una Roma ottocentesca ricostruita minuziosamente, attraverso la descrizione amorevole di un autore che - pur vivendo in Toscana - si sente (e lo si sente) visceralmente legato alla città d'origine: borghi, quartieri, rioni, ma anche locande, atmosfere, personaggi tipicamente romani.
Lo sfondo storico è ricostruito alla perfezione: ma si ha subito l'impressione che sia - come dire? - un finto romanzo storico. Scorrono immagini che abbiamo letto a scuola, nei manuali di Storia. Appaiono i personaggi del Risorgimento: quelli italiani e quelli stranieri. Cairoli, appunto, ma anche Mazzini, Garibaldi, Carlo Alberto, l'anarchico Passanante, il popolano Ciceruacchio, Pio IX e il cardinale Antonelli, il poeta Belli, Ugo Bassi, padre Gavazzi, Pellegrino Rossi, Mariani e gli altri eroi della resistenza romana; come pure Feliz von Schwarzenberg, Primo ministro austriaco; Napoleone III, l'ambasciatore francese Lesseps, Odillon-Barrot (presidente del Consiglio dello stesso Paese), il generale Oudinot, August Thiers, Ledru Rollin, capo della Montagna nel parlamento francese prima del colpo di Stato di Luigi Bonaparte, Lord Palmerston, e tanti altri.
Ma ciò che colpisce maggiormente è soprattutto il rimando continuo - implicito per tutto il romanzo, esplicito solo nella parte conclusiva della narrazione - alle temperie del presente: alla Resistenza contro il Fascismo, alle speranze e alle passioni da essa suscitata, alle delusioni di un'Italia del dopoguerra troppo simile al passato piuttosto che al futuro per cui si era lottato e sofferto. Riecheggiano ne All'ombra del pino temi gramsciani (il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà), resistenziali (il riferimento a "Giustizia e Libertà"), post-resistenziali (la "Resistenza tradita"), temi oggettivamente politici dell'oggi (sino a una seminascosta eco del recentissimo resistere, resistere, resistere…).
Ma appaiono chiari i riferimenti al presente anche nella vicenda della guerra - purtroppo sempre attualissima in questo nostro mondo impazzito e crudele - e al tema della sua giustificazione: nel romanzo, Enrico Solito mette in bocca a Lesseps, negoziatore francese nella Roma della Repubblica del 1849, parole eloquenti, quando quegli si chiede come sia possibile conciliare la guerra contro la Repubblica romana con l'articolo 5 del Preambolo della Costituzione francese, che proibiva l'uso della forza militare per schiacciare altri popoli: riferimento evidente all'articolo 11 della Costituzione italiana, troppe volte eluso, aggirato o apertamente violato. Tutto il racconto della resistenza romana contro i francesi è poi costruito come pendant della Resistenza contro i nazisti a Porta San Paolo e alla Piramide. Lotta di popolo.
E penso anche all'intenso racconto che nel libro si fa della nascita della fotografia. È la necessità di documentare gli orrori della guerra (verità e giustizia, fotografia e guerra: è questa la mia missione. Solo per questo resto a Roma, afferma il fotografo del romanzo), mentre il pensiero del lettore corre a Baghdad. Così come non si può non pensare alla più recente storia d'Italia quando Solito fa riferimento a "sezioni riservate" di documenti, a segreti di Stato, a "faldoni" ministeriali zeppi di misteri irrisolti, che spariscono o risultano drasticamente vuoti. Più potenti di me, afferma sconsolato Cairoli, presidente del Consiglio ma uomo disarmato di fronte a centrali occulte che continuano ancor oggi a segnare di sé la storia del nostro Paese. Per arrivare, al termine della narrazione, a Giaime Pintor e Giorgio Amendola, a Badoglio e al re fellone, scappato da Roma "città aperta" come allora fece Pio IX.
Insomma, un giallo avvincente e nel contempo un gioco di specchi. Bello e, se posso azzardare, anche molto sofferto da parte dell'autore. Penso a Cairoli che riflette su di sé, ora che è arrivato al governo del Paese e potrebbe realizzare quanto immaginava nella gioventù (quand'era rivoluzionario aveva sempre pensato a cosa avrebbe potuto fare, ai grandi progetti che avrebbe realizzato se ne avesse avuto la possibilità…): ma non ci riesce, fallisce.
Si sentono echi lontani: il Manzoni della Colonna infame (chissà se l'autore ci si riconoscerà!), il Dickens della descrizione del Carnevale romano, persino Tomasi di Lampedusa (il "tempo degli sciacalli e dei traditori", contrapposto a quello dei "gattopardi"). E ho avvertito anche un richiamo - chissà quanto consapevole o felicemente indotto da uno scherzo della memoria - a Fabrizio De André (La canzone di Piero, vero inno pacifista), nella parole con cui si descrive l'uccisione di un giovane da parte di un altro giovane: Un ragazzo con una divisa diversa, che ti guardava negli occhi e aveva la tua stessa paura…
Ma ho colto, soprattutto, un chiaro riferimento allo Sciascia degli apparenti romanzi gialli, zeppi di implicazioni politiche e allusioni al tema del potere: lo Sciascia che conclude Il contesto con una nota nella quale scrive, a proposito della sua storia: Ho incominciato a scriverla con divertimento, e l'ho finita che non mi divertivo più. Anche a me, leggendo il romanzo di Enrico Solito, è accaduta la stessa cosa. Leggendolo anche voi, capirete perché.

Oliviero Diliberto


CAPITOLO I

Roma, 13 maggio 1881.
Palazzo del Governo

Il palazzo era tetro, verso sera. Benedetto Cairoli se lo disse per l'ennesima volta in quel tardo pomeriggio primaverile, guardando distrattamente fuor di finestra. L'acqua cadeva a scrosci, la città doveva essere allagata a quell'ora. Il buio era calato presto, imposto anzitempo dalle nuvole scure, gonfie di pioggia, che avevano invaso il cielo provenendo dal mare, contro ogni aspettativa: e dietro i vetri non si distingueva quasi più niente della piazza, solo qualche isolotto giallastro che resisteva attorno ai lampioni, oscillante come se da un momento all'altro dovesse cadere sopraffatto dal buio.
Ma forse era lo stesso Cairoli a essere tetro, e non il clima. Quante volte aveva salutato gli acquazzoni primaverili con allegria, negli anni passati? Ricordava il brivido di piacere che aveva ripetutamente provato nel gettarsi sotto il temporale con un ombrellaccio da pastore aperto… cose da ragazzi, di quando si ha il cuore sgombro. Adesso era il presidente del Consiglio, addirittura. Addirittura. Come se fosse davvero importante, come se fosse questo a fare fede di un uomo. E comunque era un presidente del Consiglio per modo di dire, sull'orlo delle dimissioni. Aveva resistito un anno e mezzo, ma oramai la crisi si avvicinava inesorabile. Il Re gli era ancora amico, tuttavia il clima, all'interno del partito, si era fatto irrespirabile. Era tempo di andarsene, già.
- Serve qualcosa, signor presidente? - Il segretario si era affacciato, premuroso come al solito. Cairoli sorrise pensando alle mille premure di cui era oggetto da parte di quel vecchio funzionario: e anche alla sua evidente paura di fare troppo tardi.
- Grazie, no. Andate pure, signor Corsini. Io mi trattengo qui, per stasera non ho bisogno di voi.
- Ma signor Presidente! Non c'è più nessuno nel palazzo: restare qui solo!
- E di cosa avete paura? Ci sono le guardie all'ingresso. Non soffro mica di solitudine, sapete? E ho bisogno di riflettere. Forse resterò tutta la notte, chissà. Andate, signor Corsini, dico davvero: non ha senso che restiate qui.
- Ma vi servissero un incartamento, dei documenti… - Il povero funzionario era esterrefatto. Lasciar solo il presidente del Consiglio era qualcosa di inconcepibile per un impiegato ligio come lui; ma, d'altra parte, lo aspettavano già da tempo a casa.
- Non temete, caro Corsini, ho tutto quello che mi occorre. Andate tranquillo.
A sentirsi chiamar "caro" il segretario si sentì rimescolare tutto, e decise che doveva raccontare alla moglie, il prima possibile, il grande onore ricevuto.
- Quand'è così… buon lavoro, signor presidente.
- Buonanotte, signor Corsini.
Cairoli restò a guardare la grande porta di quercia chiudersi silenziosamente sui cardini oliati, e udì il funzionario raccogliere le sue carte, infilare i fogli fruscianti in una cartella, infilarsi il soprabito e lasciare la stanza. I passi dell'uomo in lontananza divennero via via sempre più lontani mentre si dirigeva verso le scale che portavano all'uscita. Alla fine il presidente rimase solo nel silenzio.
Aveva quasi paura di romperlo, quel silenzio, e se ne stette immobile ad assaporarlo, a scrutare il nulla di là dai vetri. Che mesi aveva passato… imboscate, tradimenti, pene, e tanta ansia nel cuore. Ora che tutto era scritto, che le dimissioni apparivano come un evento inevitabile e forse vicino, si scopriva quasi più tranquillo, più sereno. Aveva voglia di stare da solo, a pensare un poco. Le delusioni erano state forti negli ultimi tempi: quand'era rivoluzionario aveva sempre pensato a cosa avrebbe potuto fare, ai grandi progetti che avrebbe realizzato se ne avesse avuto la possibilità… e alla fine, alla conferenza di Berlino aveva dovuto ingoiare l'ingrandimento dell'Austria nei Balcani senza alcuna contropartita per il giovane Stato italiano, per non parlare delle tensioni sociali che non era riuscito a smorzare e di quel nuovo re con cui non si era mai trovato davvero in sintonia... e ora la storia della Francia e della Tunisia. Solo due settimane prima aveva superato un voto di fiducia: e quella sera, Zanardelli, Nicotera e Berti erano venuti a dirgli che, il giorno dopo, mezzo partito avrebbe votato contro di lui. Meglio togliere il disturbo con dignità, senza essere sbugiardati; meglio andare dal re, e rassegnare le dimissioni.
- Bah - soggiunse a bassa voce, e il suono rimbombò per la stanza. Tamburellò le dita sulla scrivania, poi la mano corse veloce verso la scatola di sigari delle grandi occasioni. Valeva la pena festeggiare quel momento così personale. Gli anelli di fumo azzurrino che si levavano verso l'alto si allargavano sempre di più: e in quei cerchi Cairoli lasciava vagare i suoi pensieri in libertà, le sue speranze non realizzate, i suoi progetti sconfitti.
Il tuono rimbombò vicino, questa volta, tanto da far tintinnare i vetri. L'uomo sobbalzò leggermente; si portò di nuovo il sigaro alla labbra, con un gesto lento, e sorrise piano pensando alle donne che a Borgo e a Trastevere recitavano in quel momento qualche giaculatoria contro i fulmini: Santus Deo, Santus fortis… Ma il gesto si bloccò a metà, e la mano rimase a mezz'aria. Cos'era stato quel rumore?
Uno scricchiolio, non forte ma abbastanza evidente all'orecchio allenato dell'ex garibaldino. Strano, decisamente strano. Se non fosse stato al Palazzo del Governo, avrebbe potuto pensare a un topo. Ne aveva uditi tanti in passato, nascosto tra i covoni del fieno o nelle case contadine, rimpiattandosi per sfuggire agli austriaci, o quando era ragazzo, a Bergamo. E perfino nei solai di casa sua, a Roma, ce ne dovevano essere. Ma lì! Era stato il passo di qualcuno, non c'era dubbio: qualcuno che avanzava cautamente ma che era stato tradito dal parquet…
Eppure Benedetto Cairoli era solo nel Palazzo, anche su questo non c'era dubbio. A parte gli uomini di guardia giù al portone, non poteva essere rimasto nessuno della legione di solerti impiegati e funzionari che aveva ronzato tutto il giorno per le stanze e i corridoi come uno sciame di api operose. A quell'ora dovevano essere tutti a casa, e perfino per le strade solo qualche gendarme di ronda doveva essere in giro a infradiciarsi sotto quel dannato acquazzone. Ma allora?
Cairoli si alzò, deciso, e si diresse verso la porta. Ne afferrò la maniglia silenziosamente e poi la spalancò di botto.
- Chi è là? - sbottò, avanzando di un passo nella stanza del segretario. Ma non c'era nessuno: il buon Corsini gli aveva lasciato il lume acceso, sulla scrivania, per fare in modo che non rimanesse proprio al buio: e Cairoli si pentì subito di aver gridato. Buon Dio, ci mancava altro che mettersi a fare piazzate, ora! Nonostante ciò… lo scricchiolio l'aveva sentito, eccome. Si sporse nel corridoio col lume in mano, alzò il braccio sopra la testa e scrutò a destra e a sinistra. Per tutta la zona illuminata dal debole raggio della lampada, non c'era anima viva. Del resto era stato proprio lui a dare l'ordine di spegnere tutte le luci dopo l'orario di chiusura ufficiale: si spendevano cifre immense a tenere illuminati corridoi in cui non passava anima viva. Ma in quel momento, solo nel Palazzo con il buio davanti, si sorprese a concludere che quell'ordine avrebbe preferito non averlo mai dato.
Corrugò la fronte, riflettendo un attimo. Non era certo un ragazzino facile da spaventare: aveva combattuto tante e tante volte da non ricordarsele nemmeno tutte. Eppure doveva ammettere che aveva la bocca asciutta e una strana sensazione di eccitazione, che si concretizzava in un lieve brivido sulla nuca e un respiro veloce. I corridoi si allungavano nell'oscurità, lugubri. Cairoli appoggiò il lume in terra e si tuffò nel buio. Si muoveva a passi felpati, sgattaiolando lentamente addossato al muro: era acquattato, quasi carponi. Cercò di respirare a fondo, di calmarsi, sostando: non vedeva niente, e l'unico suono che udiva era il pulsare delle sue tempie. Ma in quel silenzio gli sembrava che battessero come tamburi e che chiunque avrebbe dovuto sentirle. Ora respirava meglio, e anche i suoi occhi si abituavano alla mancanza di luce: indovinava le forme che galleggiavano nell'aria scura. Aveva ripreso la padronanza di sé, adesso: poteva continuare.
Strisciò dietro l'angolo, e dietro l'angolo ancora. Per mille e mille volte, col cuore in gola, gli sembrò di scorgere una figura umana: ma erano busti di chissà quali ministri del passato, o mobili, o vetuste anticaglie. Infine svoltò di nuovo e si ritrovò nel corridoio che dava sul suo studio, col lume che aveva appoggiato per terra. Respirò a fondo e percorse gli ultimi metri calcando bene col peso in terra, facendo con soddisfazione tutto il rumore possibile. Non aveva trovato nessuno, infine. Era logico d'altronde, no? Cosa diamine andava a pensare! Tornò sorridendo sui suoi passi, col sigaro in bocca e scuotendo la testa. Il sapore del fumo gli ristorò la bocca riarsa, ancora più buono dopo un'emozione così. Se l'avessero saputo gli avversari politici! Che figura, che brutti scherzi gioca la tensione! Ma sì, la tensione, la fatica e la delusione di tutti quei giorni di lavoro dai risultati così magri: doveva esser quella la ragione. Si fermò un secondo per decidere dove andarsi a sedere. E il freddo metallico che sentì alla nuca lo prese, a quel punto, del tutto di sorpresa: una rivoltella, senza dubbio.
- In alto le mani, Cairoli. Prestami la cortesia di muoverti lentamente, molto lentamente…
Era una donna, a giudicare dalla voce. Una voce gradevole, profonda, dai toni freddi e decisi. Sentiva il cuore martellargli nel petto, ma si obbligò a restare calmo. Doveva ragionare.
- Siediti lì, su quella poltrona. Bene, così. Appoggia il lume, e poi mettiti comodo. Non fare scherzi, ti avverto che so sparare.
Lanciarle addosso il lume? Poteva tentare, a due passi di distanza. Ma la canna della pistola non tremava affatto.
Benedetto Cairoli si sedette molto piano. La donna gli girò intorno, a passi lenti, con la pistola costantemente puntata: afferrò una sedia e si sistemò a tre passi di distanza. Quanto bastava a passarlo da parte a parte prima che lui avesse il tempo di scattare e prenderla di sorpresa.
Così era venuto anche il suo turno, pensò. La polizia era riuscita a sventare un paio di attentati anarchici in quegli anni, ma stavolta era stata battuta. Eppure il suo ministro non gli aveva parlato di particolari allarmi ultimamente… ma già: non era stato proprio lui, un paio d'anni prima, a salvare la vita a re Umberto da quell'anarchico, Passanante, buscandosi una ferita alla coscia? Si sforzò di acquietare il respiro, di restare calmo: se aveva ancora un minimo di possibilità, doveva sfruttarla senza farsi prendere dal panico.
La donna indugiava nella penombra, e Cairoli non poteva vederla bene: non che gli importasse poi molto, in fondo. Ciò che in realtà gli interessava era la canna della pistola che gli puntava in pieno petto, senza una incertezza, una benché minima oscillazione.
Forse avrebbe potuto chiedere aiuto. Magari era rimasto qualcuno in qualche stanza… ma no, era completamente inutile. Neanche se avesse gridato con tutte le sue forze lo avrebbero sentito, giù, al posto di guardia; e comunque sarebbe stato morto ben prima che quelli arrivassero. Prendere tempo: ecco, quello poteva avere senso. Freddamente registrò dentro se stesso che era sudato fradicio, mentre un gelo anomalo gli paralizzava la schiena. Afferrò i braccioli della poltrona per reprimere il tremolio alle mani.
- Come avete fatto ad entrare? - chiese urbanamente.
- Non è stato poi tanto difficile - rispose la donna. - Sono passata stamani, con la scusa di una pratica urgente. Nessuno ferma una povera vedova di guerra. Poi mi sono nascosta in uno sgabuzzino e ho aspettato.
- E come sapevate che sarei rimasto così, da solo?
- Non lo sapevo. Aspettavo l'occasione. Se non fosse stata questa, sarei tornata per trovarne un'altra. Sono due settimane che ti seguo come un'ombra.
- Non me ne ero accorto…
- È esattamente quello che succede a quelli che seguo, Benedetto.
Cairoli era sempre più stupito. Che razza di attentatrice anarchica era mai quella? Una persona così tranquilla, pacata: nessuna esaltazione, nessun proclama. Era dunque così che doveva morire, assassinato senza nemmeno una spiegazione, in una sera di pioggia e di uragano? Un lampo vivido illuminò la stanza quasi a giorno, per un attimo, e Cairoli vide per la prima volta gli occhi azzurro scuri della donna: e il suo sorriso, dolce ed enigmatico, lo stupì di nuovo.
- Sorridete sempre così prima di uccidere? E giacché ci siamo, perché mi chiamate col mio nome? Non mi pare di conoscervi.
Le sue ultime parole furono quasi coperte dal tuono che rombando si era avvicinato da Monte Mario. Gli parve di esser certo che la donna avesse sorriso di nuovo, ma doveva essere solo una impressione.
- Mi hanno molto parlato di te, anni fa. A Villa Glori.
- Villa… Voi eravate lì? Avete conosciuto i miei fratelli!
- Enrico è spirato tra le mie braccia, con una palla nel petto. E dopo che ci presero, restai con Giovanni fino alla fine, nella sua agonia. Mi parlarono di te, sempre.
Cairoli scosse la testa, con le lacrime agli occhi. - E adesso venite ad ammazzarmi. Perché?
- Santo cielo, chi ti ha detto che sono qui per ammazzarti? Voi politici vi immaginate le cose e poi vi lamentate.
- State scherzando. Quella è una pistola. Ma insomma: cosa volete da me, se questo non è un attentato?
- Solo la tua parola, Benedetto. Devi promettermi che non chiederai aiuto, non mi colpirai, non te ne andrai… Alle corte: che mi starai a sentire. Ho una lunga storia da raccontarti, e un favore da chiederti. Tutto qui.
- Tutto qui?! Ma se è così, non potevate chiedermi udienza?
- Ah, certe ingenuità di voi ministri! L'ho fatto, sono tre mesi che lo faccio. Ti ho lasciato lettere e messaggi, suppliche e richieste. Ebbene, non mi hai mai degnato di una risposta. I tuoi solerti impiegati ti hanno steso attorno una cortina di protezione così fitta che non passerebbe una mosca; così, per forza di cose, mi sono dovuta inventare un sistema piuttosto melodrammatico e, lo riconosco, assai poco elegante.
- Mettete giù la pistola, dunque.
- Prima tu prometti.
Cairoli sorrise, incredulo quasi di essersela cavata così a buon mercato. - Prometto, certo. Alle buone maniere non si dice mai di no. Ma che sarebbe successo se avessi reagito?
La donna scoppiò in una allegra risata, impugnando il revolver per la canna e porgendolo al presidente del Consiglio. - Proprio niente - dichiarò. - Non c'è alcun colpo in canna. Contavo sulla sorpresa e sul fatto che non picchieresti mai una donna. Allora, tutto bene?
Cairoli la fissò come istupidito. - Roba da ammazzarmi comunque. Di spavento, però. Sentite, mettiamoci laggiù, vi dispiace? Vicino al caminetto e alla finestra. E procuriamoci un po' di chiarore: questo posto è troppo lugubre, ne converrete…
Alla luce dei becchi a gas, di nuovo a pieno regime, Cairoli poté osservare meglio la sua visitatrice. Non molto alta, vestita con una certa eleganza ma senza ricercatezza, dimostrava una cinquantina d'anni. Le primavere non erano passate senza lasciar segni sul suo viso tranquillo, ma le piccole rughe che le si disegnavano sul volto parlavano di concentrazione e intelligenza più che di angoscia. Eppure doveva averne passate: se era stata a Villa Glori coi garibaldini, poi doveva aver conosciuto il carcere, per forza. Cairoli moriva di curiosità, ma si contenne. Offrì cortesemente un calice di brandy, che la donna accettò di buona grazia. Si sedettero di nuovo, davanti ai vetri su cui la pioggia continuava a infrangersi inesorabile, mentre folate di vento cominciavano a farsi sentire e a spazzare mugghiando le strade.
- Un tempo da lupi.
- Un tempo adatto ai ricordi. E ai rancori. Adatto alla storia che voglio raccontarti, Benedetto…
La voce della donna attaccò a narrare di vecchie cose, e ideali, e sforzi, e dolore: cominciò a salire nell'aria come uno degli elementi di quella stanza, di quella notte: come la pioggia, il vento, il buio. Cairoli socchiuse gli occhi, per assaporare in pieno il racconto.
- Cominciò tutto molti anni fa, proprio qui a Roma. Nel febbraio del '49…


CAPITOLO II

Roma, febbraio 1849

La locanda era in piena attività fin dal primo mattino. Domestiche affaccendate, garzoni che andavano e venivano, stanze da rassettare, panni da lavare, la cuoca che strepitava per essere lasciata in pace dietro le faccende sue: una confusione terribile, una specie di pandemonio organizzato che prodigiosamente si ricomponeva all'ultimo momento, tutti i giorni, come se qualche Santo si producesse in una serie infinita di miracoli. Al centro di tutta quella confusione regnava olimpica e allegra la giovane Anna, la figlia dell'oste e ormai da tanto tempo la domina assoluta dell'impresa domestica. Aveva forse diciassette anni, a quell'epoca; formosa, non tanto alta, con la chioma dei capelli corvini che incorniciava un viso di rara bellezza ed esaltava due occhi blu scuri, enormi, che apparivano diversi a seconda del tempo e del cielo: grigi quando pioveva, azzurri in piena luce. Rideva sempre, e il suo sorriso era il faro intorno a cui ruotava la casa e il lavoro di tutti quelli che la abitavano. Il padre, il vecchio Ottavio Fattori, se ne stava fuori, in piazza, a chiacchierare con gli amici, osservando orgoglioso la figlia affaccendata come un'ape regina.
- Il posto vostro è mejo de la locanda "Gran Brettagna" in piazza de Spagna! - gli dicevano. - Tutto merito della vostra Anna, sor Ottavio! È la vostra consolazione!
E lo era davvero. Dopo la morte della madre aveva preso la direzione degli affari, affiancandosi al padre e, mano a mano, sostituendolo quasi del tutto: oramai la Locanda del Buon Riposo era Anna, e Anna era l'anima della locanda.
In quel bailamme di confusione e panni sciorinati al sole, di coperte battute alle finestre come tappeti, di lavoranti che frullavano come trottole impazzite, un giovane scese dalle scale e si guardò intorno con aria interrogativa, come spaesato.
- Buongiorno, signor Ermanno. Dormito bene, vedo!
- Non prendetemi in giro, Anna. Avevo fatto tardi ieri sera, e poi ero stanco del viaggio. È lunga dalla Toscana!
- La Toscana… - mormorò lei con voce sognante. - Quanto mi piacerebbe andarci! E ditemi, di dove siete esattamente? Siete arrivato solo da un paio di giorni e non ho potuto ancora chiedervelo.
- Di Arezzo sono… il più bel posto di questo mondo.
- Già, ci mancherebbe altro! È Roma il posto più bello del mondo! Ma lo sapete benissimo, polemico che non siete altro!
- Polemico io? Se sono un agnellino! E parlando di agnellini, quanti ne ho visti per le vostre campagne, venendo giù dal nord… molte più pecore che cristiani. E che desolazione… terre morte paiono, abbandonate e piene di malaria. Uno spettacolo triste, sapete? Non ci fa una bella figura, Roma, a vederla comparire da lontano in mezzo a tanta miseria. Stringe il cuore pensare a quello che era una volta.
- Intanto noi siamo qui e belli vivi. Lucia, fa' attenzione con quelle lenzuola, che le sporchi, benedetta te! A proposito, non avete avuto freddo? Qui da noi non si usa riscaldamento nelle locande: ma se volete vi preparo uno scaldino, con la carbonella dolce o la ciniglia. E dite, cosa vi è piaciuto di più di Roma?
- Ho visto poco o nulla per ora, datemi un po' di tempo. Ma cosa sono tutti questi preparativi, questa confusione? Fiori, carrozze, vestiti portati di sopra e di sotto…
Anna sgranò gli occhi e congiunse le mani in segno di preghiera, sinceramente stupita dell'ingenuità dell'ospite toscano.
- Benedetto ragazzo! Ci dovete essere solo voi, a Roma, a non sapere che oggi è l'ultimo di Carnevale! Ma non vi siete accorto di niente, ieri?
- Vi confesso che ero a dormire - fece lui per tutta risposta, appoggiandosi indolentemente al bancone. - Forse l'aria locale mi ha attaccato un po' di pigrizia…
- Linguaccia! Dite pure che siete voi un pigrone e non date la colpa a noi romani! Comunque, per vostra norma, oggi si conclude il Carnevale e si terrà un gran passeggio al Corso, nel pomeriggio: sarebbe un gran peccato se non vi partecipaste. Anche perché con la Quaresima, dopo, non ci sarà molto da festeggiare.
- Ma non ho vestiti, e poi non ci capirei niente.
- Che volete che ci sia da capire! Verrete con noi, con me e Checco… guardate, è lì che lavora al carro. Venite che ve lo presento.
Se ne uscirono nel sole. La locanda sorgeva all'estremità di una strada che sfociava in una magnifica piazzetta, piazza Scossacavalli: erano giusto nel centro del quartiere popolare di Borgo, sotto San Pietro. Nell'angolo della piazza più vicino, proprio davanti ad una grande chiesa, un ragazzo dai capelli neri si affannava dietro un carro, fasciandolo e decorandolo.
- Checco, come sei sudato! - rise Anna, burlandosi della confusione di lui. - Permettete che vi presenti: il signor Ermanno Nocentini, da Arezzo, appena arrivato a Roma. Checco Valle, mio cugino.
- Cugino di secondo grado, Anna. Secondo, non dimenticarlo… Molto piacere, signore.
I due uomini non avrebbero potuto essere più diversi: il toscano, alto, schietto, con occhi chiari e un volto quasi da bambino, allargato da un sorriso contagioso, e i lunghi capelli lisci, color dell'oro, che gli cadevano fluenti sulle spalle; il romano, invece, più tarchiato e compatto, scuro di pelle, gli occhi di carbone e i riccioli neri tagliati corti, che finivano con l'assomigliare al vello di una pecora, o a un velluto fittissimo. Ermanno vestiva in modo elegante anche se non affettato, mentre l'estrazione popolana di Checco era resa trasparente dalla camicia e dal corpetto che indossava. Tutti e due sui vent'anni, si guardarono a lungo mentre si stringevano con forza le mani.
- Stavo giusto dicendo al signor Ermanno che potrebbe essere nostro ospite, oggi… gli faremo da ciceroni.
- Come no! Purché sia disposto ad affrontare la folla e la confusione. Cade l'ultimo di Carnevale e la festa è al culmine.
- Per parte mia, signor Checco, sarà un piacere fare un po' di baccano. Non sono venuto a Roma per atteggiarmi a penitente. Ma cosa state combinando?
Checco si mise a ridere e cercò di spiegare al forestiero la situazione. Avrebbero potuto raggiungere il Corso anche a piedi, spiegò, proprio come facevano di solito: ma allora buona parte del divertimento sarebbe sfumata.
- Il mio padrone, andandosene, mi ha lasciato un poco di soldi: un gesto gentile da parte sua, alla faccia dell'illustre schiatta. È un nobile, molto legato al Papa. E ha preferito togliersi di torno prima che l'aria divenisse pesante.
- Sì, lo so. Pare che tutta l'aristocrazia nera abbia seguito il Papa a Gaeta. Si dice che laggiù ci sia un bel sovraffollamento.
- Che si stringano, per parte mia: avrebbero potuto restare a Roma, Papa compreso; o Patrigno, come hanno cominciato a chiamarlo qui a Borgo e a Trastevere. Non è proprio piaciuto a nessuno che ci abbia abbandonato di punto in bianco, scappando di nascosto dopo che ammazzarono quel poraccio de Pellegrino Rossi. A ogni modo, non mi va di parlar male di lui, né del mio padrone. Sapete, qui in città molta gente vive andando a servizio dai nobili, come camerieri o cocchieri, e in tanti siamo rimasti senza lavoro. Comunque, vi dicevo, un po' di soldi li ho; così, ho deciso di offrire ad Anna una carrozza per il Carnevale, come i signori, per una volta. Io farò da cocchiere, e voi starete dietro, con lo zio Ottavio e qualche altro cliente della locanda che si vorrà aggiungere. Ce ne andremo a passeggio per le strade, a guardare e a farci guardare… Stamane ho fatto una capatina da Ciceruacchio, giù a piazza del Popolo, e ho affittato questo carro. Ora si tratta di addobbarlo.
- Ciceruacchio? Che strani nomi avete, voi romani!
Checco si allargò in una risata: decisamente gli piaceva quel ragazzo. - Si chiama Angelo - spiegò. - Angelo Brunetti. Era un poveraccio come tutti, ma a furia di lavorare onestamente si è fatto strada. Ha un bel po' di magazzini di legname e carbone lungo il Tevere, e affitta carrozze. Sapete, è diventato famoso perché è uno dei capi dei Circoli Popolari: lo chiamano Ciceruacchio perché è eloquente quanto Cicero, l'avvocato dell'Urbe antica. Pure lui non faceva che osannare Pio IX; gli aveva organizzato perfino un arco di trionfo… e adesso sputa in terra tutte le volte che lo nominano.
Anna si alzò in punta di piedi per spiare dentro il carro. - Purché i cavalli siano buoni… conosci il detto, no? Uomo a cavallo, sepoltura aperta! E come ci vestiamo, Checco?
- Da marinai. Osserva tu stessa: nel mezzo della carrozza ho issato un palo; lì ci attaccherò delle specie di vele e un pennone con una bandiera. Il cocchio ha la forma di una scialuppa, e mi sono fatto prestare un paio di remi da un amico che fa il marinaio, giù a Ripetta. Da uno stracciarolo ebreo ho avuto l'altro giorno dieci giacche azzurre e pantaloni a righe. Guarda che belle!
Anna scrutò con aria critica i panciotti e le giacche coi bottoni d'oro. - Saranno pieni di pulci - sentenziò. - E poi, io che mi metto?
- Tu sarai la nostra capitana, col binocolo e il tricorno. E niente pulci, ho fatto lavar tutto.
- Però - interloquì Ermanno, che già si divertiva alla sola idea - non capisco questa specie di teli di cotone all'esterno. A che servono?
- Sono le protezioni per i fregi del cocchio - rispose Checco. - Vedrete i confetti: ne tirano a palettate, e fischiano come proiettili!


Nel primo pomeriggio uno strano equipaggio uscì dalla Locanda del Buon Riposo alla Spina di Borgo. Sembravano marinai - anche se dall'uniforme un poco strampalata - e formavano una ciurma piuttosto composita. Saranno stati sei o sette: Checco ed Ermanno, insieme al grasso Ottavio e a un paio dei suoi amici più matti e attempati, che di sicuro non avrebbero mai potuto montare su una nave vera, e i cui addomi prominenti erano implacabilmente strizzati dalle giacche attillate. In loro compagnia, due o tre artisti dei Paesi Bassi che erano soliti frequentare la locanda, e in onore dei quali venne issata sulla "scialuppa" una lunga bandiera a nastro olandese. I loro capelli biondi e le lunghe barbe fulve contrastavano curiosamente con i coloriti scuri di Checco e Ottavio. Li guidava una splendida ragazza vestita a festa, con il corpetto ricamato, una lunga gonna a fiori, e, bizzarramente, una benda sull'occhio e un tricorno degni del miglior capitano di ventura.
Si issarono a bordo, facendosi strada tra i sacchi di confetti pronti ad essere lanciati insieme ai mazzolini di fiori per le belle ragazze: tutto il carro, anzi, debordava di fiori, all'esterno ma anche all'interno, dove era difficile trovare un posto libero dove accomodarsi. Checco, seduto a cassetta, gettò galantemente il primo mazzolino alla sua capitana, sorrise e prese le redini. Il sole non era ancora calato e mancavano ancora diverse ore all'Avemaria. Si mossero lentamente, con i brontolii di Ottavio e le risate spensierate degli altri, e si diressero piano piano verso il fiume.
Ermanno era a bocca aperta. Trovarsi a Roma, nella Città Eterna, era già un qualcosa che aveva sognato fin da piccino, e aveva una certa difficoltà a credere a tutto quello che gli si parava sotto gli occhi. Le case addossate alla grande Cupola che troneggiava su tutta la città, i modi stessi della gente, che erano così simili eppure così diversi da quelli che conosceva, gli davano una strana sensazione di ebbrezza e stupore. La sera prima, dopo cena, se ne era andato dalla locanda giù per le stradine che dalla piazzetta Scossacavalli conducevano a San Pietro, svoltando tra vicoli e casupole: e di botto, senza alcun preavviso, si era trovato nella piazza immensa, solo, davanti alla enorme basilica che conosceva dai quadri che aveva ammirato fin da bambino. La cupola del Brunelleschi, mastodontica e silenziosa, lo aspettava da quattrocento anni. Adesso Ermanno era lì, senza parole davanti a tanta magnificenza e alla sorpresa che Bernini aveva giocato a lui, come a tanti altri prima di lui. La facciata illuminata dalla luna sembrava osservarlo; l'immenso colonnato lo abbracciava come la fede, come la Chiesa. Ermanno si era dovuto appoggiare al muro per non cadere, ed era rimasto nella piazza per ore ed ore, letteralmente incapace di muoversi. Alla fine era stata una guardia a riscuoterlo, preoccupata che non si sentisse bene; era per quello che si era svegliato tardi al mattino. Ora si guardava intorno, cercando di assorbire ciò che vedeva, le case, i monumenti, la gente, la confusione.
Via via che si avvicinavano al Tevere, la folla in cammino che li attorniava andava aumentando. Maschere di tutti i tipi, ragazze addobbate a festa, popolane con una semplice mascherina sul volto, Arlecchini, moltissimi Pulcinella, e tantissimi romani agghindati nel modo più ridicolo. Strane giacche rosse, così striminzite che le maniche arrivavano ben lontane dai polsi; mantelline polacche orlate di pelliccia e talmente strette alla vita da far sembrare chi le portava ribes maturi pronti a scoppiare; cappelli di innumerevoli fogge, calzati in ogni modo possibile meno quello usuale: tutte le esagerazioni più iperboliche e le mostruosità più sfacciate si moltiplicavano intorno alla carrozza e alle altre che si incamminavano nella processione: e l'allegria e le risate, e i primi lanci di confetti e di fiori crescevano di pari passo.
- Dobbiamo deviare, Anna! - fece Checco, girandosi. - Per entrare a piazza del Popolo passiamo dai vicoli. Guarda, i Dragoni dirigono il traffico!
S'era formata una coda di carrozze, che a tratti avanzava velocemente per qualche passo e a tratti ristava. Ogni tanto la gente intorno alla carrozza la prendeva d'assalto a furia di confetti, e gli occupanti avevano il loro daffare a rispondere: ma nelle viuzze strette che portavano alla piazza, ingombrate da due file di veicoli che andavano e venivano, fu allora che fiori e confetti cominciarono a volare sul serio. Il sor Ottavio, preso dall'entusiasmo, centrò con un mazzolino la finestra a cui era affacciata una bella mora, con una precisione tale da suscitare gli applausi della folla. Ma proprio mentre il vecchio oste, lusingato, si esibiva in un cerimonioso inchino di ringraziamento, fu centrato a sua volta, all'altezza della tempia, da una arancia gettatagli da un uomo vestito mezzo di nero e mezzo di bianco, che catapultò il poveretto bocconi dentro la carrozza, con gran divertimento della figlia.
- Così imparate a fare il galletto, padre!
Dopo un buon quarto d'ora di marcia sbucarono in piazza del Popolo e di lì nel Corso. Ermanno aveva gli occhi fuori delle orbite: balconi in ogni dove, collocati in modo così abbondante e disordinato che gli pareva avesse piovuto a balconi, letteralmente, e che un vento dispettoso li avesse poi ridistribuiti a casaccio nelle case. Tutti, comunque, esibivano festoni dai colori squillanti - rosso, azzurro, verde - e drappi, e festoni bianchi che sfolgoravano nelle ultime ore del sole pomeridiano. Le finestre rigurgitavano di bandiere dalle tonalità più accese, che sventolavano dai tetti, dai parapetti, dagli androni dei palazzi. I portoni erano stati rimossi ad uno ad uno, per fare più spazio alla folla, e le vetrine smontate, con l'interno delle botteghe e dei negozi pieni di gente vociante e colorata, e di arazzi, festoni, ghirlande. I romani ridevano, ballavano, lanciavano fiori e confetti. Gli sguardi si incrociavano, lanciando messaggi di fuoco.
Le carrozze marciavano in file parallele di tre o quattro, adesso, e potevano sfidarsi l'un l'altra con tutta comodità. C'erano grandi calessi rivestiti a festa, colmi di fiori fino all'orlo, in cui sguazzavano letteralmente belle figliole che ballavano e cantavano senza posa. Carrozze travestite da barche, da palazzi, perfino da chiese: un mare di veicoli tale da riempire il Corso da piazza del Popolo a piazza Venezia, un oceano senza fine di legni, cavalli, maschere, confusione. E in tutte le finestre, in tutti gli anfratti, tra i vicoli, nelle botteghe, una folla ridanciana, eccitata e scalmanata: un corteo di finti pazzi che se ne andava urlando e sbraitando; un gruppo di gentiluomini di corte con monocoli larghi mezzo metro; un manipolo di giannizzeri ottentotti che menava fendenti spietati per farsi largo, con le sue micidiali sciabole di cartone; zingare e mendicanti, straccioni e ricchissimi borghesi, dame e poverette, vecchie che in realtà erano giovani e giovani avvenenti che in realtà erano uomini travestiti con improbabili parrucche. E su tutto una tempesta di confetti e di fiori che oscurava il sole del meriggio.
La carrozza attraversò l'intero Corso sotto i lanci di fiori, confetti e frutta, e i suoi occupanti risposero vigorosamente al fuoco che proveniva da tutte le parti. Il sor Ottavio fu trattenuto a stento un paio di volte dallo scendere per azzuffarsi con una coppia di gentiluomini che lo aveva centrato a suon d'arance: vennero a diverbio con un due carrozze vicine e le riempirono di contumelie e proiettili. Gli olandesi erano i più scatenati e Anna dovette trattenerli dall'abbordare un legno vicino, che ospitava quattro trasteverine niente male. Checco faceva il suo meglio per evitare di travolgere quelli che si infilavano tra i legni per raccogliere i fiori caduti, che formavano ormai uno strato su cui tutti si muovevano. Quanto ad Ermanno, era così stralunato, sudato, eccitato e stravolto, che nei giorni successivi avrebbe ricordato quella sfilata come un sogno, un'unica scena di follia e fiori, ebbrezza selvaggia e violenza contenuta.


Erano già le quattro e mezza quando giunsero verso la fine, e le trombe dei gendarmi dettero il via ai Dragoni per sgombrare la strada, con grande dispiacere di tutti. Loro furono ributtati nei vicoli dietro il Pantheon, in un bailamme di folla e carrozze, di parapiglia e spintoni tali da far giudicare impossibile che qualcuno non ci avrebbe rimesso la pelle in quel pigia pigia. La gente a piedi premeva per ritornare indietro e assicurarsi una buona visione del Corso vuoto: le carrozze cercavano un posto dove fermarsi.
- Mi infilo là dentro! - urlò Checco rivolto ai suoi marinai. - Si dovrebbe vedere bene. Altrimenti scendete e cercatevi un posto a piedi.
Ermanno, che non sapeva nulla di cosa sarebbe successo, tenne d'occhio gli altri. Ma non fu necessario scendere: il vicoletto in cui era entrato Checco finiva sul Corso, e anche se loro si trovavano piuttosto lontani dallo sbocco, il vantaggio di essere in alto sul cocchio compensava la distanza. D'altronde era tale la calca, tra la gente appiedata in mezzo alle carrozze, che sarebbe stata pura utopia sperare di farsi largo a piedi. Erano la seconda carrozza della fila, ma quella che li precedeva, con un solo occupante - una strana figura vestita di nero e di rosso - era bloccata a metà della strada, circa una trentina di passi dallo sbocco, da una serie di casse che alcuni avevano piazzato per issarsi e vedere meglio, incuranti delle proteste del cocchiere. Subito dietro di loro, invece, si fermò un calesse elegante, con un impeccabile maggiordomo e quello che sembrava un perfetto gentleman britannico. Il gentiluomo, imperturbabile, cavò una palettata di confetti e li scagliò con violenza verso la carrozza di Anna, scatenando un ondata di improperi: erano di ghiaia, e facevano un male del diavolo. I tre olandesi e il sor Ottavio si diedero a raccoglierli e a rilanciarli indietro, cercando di centrare la zucca dello scortese gentiluomo e del suo servo, non senza una sequela di insulti nordici che probabilmente a Roma non erano ancora mai stati uditi in venticinque secoli di storia.
Checco scoppiò a ridere e si girò davanti per godersi la scena, mentre Anna si spostava accanto a lui, a cassetta, per proteggersi da quei lanci pericolosi.
Pochi passi più in là, l'uomo nel veicolo bloccato continuava a sbracciarsi, per nulla rassegnato: ma la gente davanti a lui e intorno alla carrozza non si voltava neppure a prestargli attenzione, attratta com'era dallo spettacolo che di lì a poco si sarebbe svolto sul Corso. Tra la folla, a un certo punto, si fece largo un Pulcinella con tanto di mascherina nera, che prese ad apostrofarlo. I due si dovevano conoscere, pensò Checco, perché l'uomo sul cocchio aiutò l'altro a salire - cosa non certo semplice in quella confusione.
- Aho! - fece Anna, urlando nell'orecchio di Checco per farsi intendere nella bolgia. - Se quei due non si mettono a sedere, non vedremo nulla. Gesù benedetto! Ma che fa quello?!
Il Pulcinella aveva estratto un pugnale. L'altro uomo tentò di fare un passo indietro ma, colto di sorpresa, non poté che abbozzarlo. Il colpo lo colse in pieno, squarciandolo dal basso verso l'alto: si portò le mani all'addome e si piegò. Il Pulcinella, non ancora soddisfatto, lo sostenne con un braccio mentre con l'altra mano colpiva ancora una volta. Quindi si girò e si buttò tra la folla, mentre il primo si accasciava tra i fiori.
L'aggressione si era consumata troppo velocemente per attirare sguardi indiscreti, e la gente accanto alla carrozza era troppo distratta per comprendere quello che stava avvenendo dentro il cocchio, sopra le sue spalle: quei pochi che videro la scena con la coda dell'occhio pensarono a una pantomima. Qualcuno rise e applaudì: nessuno poteva rendersi conto che l'uomo sulla carrozza era crollato all'interno, in un lago di sangue.
Checco, senza una parola, diede le redini ad Anna, che tremava come una foglia, e si issò in piedi. Fece un passo, appoggiandosi sulla sella di uno dei cavalli da traino, e di lì si tuffò nella carrozza di fronte. Fu un bel salto. Atterrò tra i fiori, che costituivano uno strato alto quasi una trentina di centimetri. Aveva le braccia affondate in quel morbido pavimento e con orrore si ritrovò faccia a faccia con il volto dell'uomo del cocchio. Mentre si risollevava, scorse un'ombra accanto a lui: era Ermanno, che aveva eseguito la sua stessa manovra e gli era volato al fianco.
L'uomo riverso sul fondo del calesse era già morto; doveva aver reso l'anima a Dio in pochi istanti. Il poveretto aveva le mani artigliate sul ventre, come a tamponare la ferita che l'aveva ucciso, e uno sguardo stupito sul volto. Checco fece un segno d'intesa a Ermanno, scrutando tra la folla. Ardua impresa riconoscere una singola maschera in quel marasma di gente, ma la macchia bianca di Pulcinella restava comunque ben avvistabile tra tutti i colori. Così, non gli sfuggì quella che guizzava tra la calca cercando di raggiungere un vicolo laterale, qualche passo davanti a loro. Schizzarono ancora, camminando in equilibrio sulle groppe bardate dei cavalli, e si lanciarono sulle spalle dei malcapitati, calpestando la folla in mezzo a mille maledizioni per guadagnare terreno. Quando toccarono terra erano parecchio più avanti e fecero in tempo a vedere il loro uomo divincolarsi e infilarsi in un crocchio di persone sulla destra. Sgomitarono senza tanti complimenti e raggiunsero il punto in cui lo avevano visto scomparire.
- Aho, ma ve pare er modo, ve pare? Nun bastava quer matto llà, pure questi se dovevano mette a spigne, li possino… - inveì una popolana al loro indirizzo.
Ermanno seguì il movimento della mano della donna e ringraziò dentro di sé l'abitudine così romana di gesticolare, giacché quel palmo aperto, quelle dita unite che fendevano l'aria gli permisero di scorgere una casacca bianca mentre svoltava dietro una cantonata. Da quel punto la gente era meno assiepata e potevano muoversi meglio: ma, purtroppo per loro, poteva farlo anche l'assassino. Cominciarono a guadagnare metri, però, sempre a costo di spintoni furibondi ai poveri passanti. Ormai il Pulcinella si era accorto di essere inseguito: si girò indietro a guardarli, con la sua maschera nera dal naso adunco. Checco, mentre si avvicinava di gran carriera, lo vide frugarsi nell'ampia casacca. Poi un guizzo repentino, e come un lampo saettante.
- Badate! - fece Ermanno, affibbiando all'amico una spintonata da far stramazzare un bue, e spedendolo a sbattere su una porta che scricchiolò paurosamente all'urto. Una frazione di secondo dopo, nel legno si piantava un coltello, più o meno alla stessa altezza dove era stato il petto di Checco. Continuarono a correre, ma Pulcinella era ormai lontano: si voltò ancora una volta, prima di farsi sommergere dalla folla.
- Non è finita! Avete visto quello strappo sulla casacca? Possiamo riconoscerlo. Coraggio!
Cominciarono a spingere anche loro, fendendo gli spettatori sulla scia dell'omicida. Lo riavvistarono, più vicini questa volta. Checco si mise a ragionare: di nuovo il frastuono era cresciuto e non avrebbe avuto alcun senso urlare all'assassino! Fece cenno ad Ermanno di girare dall'altra parte, così da prenderlo in mezzo avvicinandosi dai due lati. Pulcinella continuava a farsi largo a strattoni, e Checco non riusciva proprio a capire cosa sperasse di combinare nelle prime file: anzi, così in bella vista sarebbe stato più facile acchiapparlo. Lui ed Ermanno convergevano lentamente, avanzando sulla punta dei piedi per non perderlo di vista. Il rumore aumentava, sempre più assordante; le urla della folla si confondevano col rombo di zoccoli al galoppo.
Pulcinella aveva raggiunto la prima fila e si slanciò in mezzo al Corso, giusto davanti ai primi Dragoni che lo percorrevano alla carica, a tutta velocità. In un attimo tutto fu avvolto da una nuvola di polvere, sudore, strepiti, nitriti di cavalli e urla inorridite di donna. Ermanno stava per buttarsi anche lui e Checco fu costretto a strattonarlo per impedirgli di ammazzarsi. Perché sarebbe stato un autentico suicidio tentare di attraversare proprio in quel momento, mentre il grosso dei cavalli passava al galoppo coprendo di polvere e schiuma la strada, l'aria e gli spettatori.
Quando la polvere fu calata, diversi minuti dopo, tossendo e asciugandosi gli occhi irritati, videro sulla sabbia i segni degli zoccoli e anche del disperato tentativo di frenata di un paio di cavalli: ma non c'era nessun corpo, e nessuna traccia di sangue. Pulcinella ce l'aveva fatta una volta per tutte.
Rimasero lì, a prendere fiato per un poco. - Non ho neanche sentito il colpo di cannone che dà il via alla corsa, mannaggia - disse Checco, ancora ansimante. - Ecco perché è rientrato nella confusione: aveva previsto di buttarsi davanti ai cavalli all'ultimo momento. Che fegataccio, però. Venite, torniamo indietro; voglio vedere quel coltello.
Lo trovarono ancora infisso nell'uscio di legno. Checco lo tolse di lì e lo soppesò in mano.
- Un bel pugnale, io me ne intendo. Si sa, noi trasteverini i coltelli li conosciamo bene. Guardate, è ancora sporco di sangue. E se non fosse stato per voi, a quest'ora ci sarebbe pure il mio qua sopra.
- Mi pare che ci siano delle lettere incise…
- Viva la Repubblica! Sangue del demonio! Ecco perché l'hanno ammazzato!
Ermanno guardò l'altro: il romano era impallidito, e stringeva i pugni con rabbia.
- Conoscete l'ucciso?
- Si capisce che lo conosco. Era un altro che lavorava con me: il capo di noi garzoni. Bernardo si chiamava, ma il cognome non lo ricordo. Non lo frequentavo molto, perché si diceva che fosse uno spione del Papa: uno di quelli che prendono nove scudi al mese per andare a raccontare al Vicario chi parla male dei preti. Ma ammazzarlo in questo modo! Manco li cani, e che diamine! E poi, se fanno fuori così tutti i vecchi spioni, a Roma resteremo in pochi!


L'aria s'era fatta scura mentre i due tornavano. A poco a poco, nel buio della sera che calava, piccole fiammelle cominciarono ad ardere. Era l'ultimo di Carnevale e la festa finiva così: con migliaia di moccoletti, piccole candele accese dappertutto, sulle carrozze quasi illuminate a giorno, sui davanzali, alle finestre… un moccoletto per ognuna delle migliaia di persone che si assiepavano lungo le strade. Ermanno si guardò intorno scuotendo il capo, come incredulo: l'omicidio, il sangue, la corsa… la concitazione degli eventi lo aveva proiettato di nuovo nella realtà, svegliandolo dallo stato di allegria scatenata che aveva permeato quel pomeriggio. Via via che fendevano la calca verso la loro carrozza, le luci delle candele aumentavano di numero e intensità, mentre il grido Senza moccolo! squarciava irridente la sera, rimbalzando a destra e a manca, per tutta Roma, come se restare con la propria luce accesa e schernire gli altri fosse l'ultima beffa del carnevale che rotolava via verso l'espiazione dei peccati, verso la Quaresima. C'erano cauti uomini che proteggevano il loro moccolo con un paralume, e un ragazzo dall'aria trionfante, con un intero mazzo di candele accese, legate come un mazzo di asparagi, così da formare una luce inestinguibile. Ermanno vide almeno due persone tentare di scalare un carro per spegnere i lumi dei viaggiatori, e agguati di ogni sorta a coloro che restavano isolati con le loro candele in mano. Senza moccolo, senza moccolo, senza moccolo!!!
Il loro veicolo era ancora fermo, dietro quello dell'assassinato. I tre olandesi e il sor Ottavio avevano formato una specie di cordone insieme alle due guardie civiche che erano sopraggiunte nel frattempo, per isolare Anna e la carrozza. Il capo dei gendarmi, un uomo di mezza età dall'aria massiccia e paziente, stava ancora parlando con Anna e chiedendole cosa aveva visto esattamente.
- Quello che vi ho detto. Chi l'ha ucciso doveva conoscerlo, perché quel poveretto lo ha fatto salire.
- Eh già, come correte voi! Magari quello gli ha chiesto per carità di montare, che era stanco morto. Che ne sapete? La cosa è chiara, secondo me.
- E sarebbe?
- Ma se capisce, una rapina! L'assassino l'ha visto tutto solo su una carrozza così bella: avrà pensato che doveva essere pieno d'oro.
- Ma scusate - intervenne Checco, che si era avvicinato - quando ho spostato il corpo - perché è il qui presente che è corso sul carro e l'ha preso tra le braccia - ho visto che la borsa l'aveva ancora ben attaccata alla cintura. Il vostro ladro l'ha accoltellato ma non ha preso l'oro.
- Per forza, ragazzo mio! - sbottò il capo dei gendarmi. - Vi ha visto arrivare ed è scappato via come il fulmine. Se non fosse stato per voi che gli eravate dietro, la gente intorno alla carrozza non se ne sarebbe neanche accorta, no?
- Questo è vero.
- Orbene! Rapina, vi ho detto, rapina! E voi capite che di mettere le mani su 'sto impunito, adesso, non c'è proprio verso. Vai a sapere chi è e dove sta! A casa del diavolo! Ma lo acchiapperemo, prima o poi. Perché un farabutto così a quest'ora sarà a far bottino con qualcun altro, e quando lo beccheremo per quello, confesserà pure questa. Qualcuno conosceva la vittima, sa dirmi dove stava? Devo avvertire la famiglia.
Furono date le generalità dell'ucciso, che era persona abbastanza nota a Borgo, e il gendarme se ne andò brontolando, dopo aver ordinato ai sottoposti di portare via il cadavere.
- Oh Checco, perché non avete riferito della scritta sul pugnale? - chiese Ermanno, messosi a cassetta con il romano.
- Perché non voglio guai, ecco perché - fu la risposta. - E non li vogliono manco i gendarmi. Mica era soltanto il qui presente Checco Valle a conoscere il sor Bernardo! Come lo sapevo io il mestiere di spione che faceva, lo sapeva pure il capo dei birri: e ha fatto di tutto per sostenere che era una rapina. Mica scemo! Se invece è per politica, allora sono guai anche più grossi: bisognerebbe andare al Governo e dire che qualche repubblicano si è messo a scannare i vecchi papalini… in tal caso, potete figurarvi come la prenderebbero! No, meglio lasciar perdere; in fondo era solo un domestico, no? E chi volete che se la prenda più di tanto per uno come il sor Bernardo, o come me?
Ermanno fissò il ragazzo accanto a lui, pensieroso. - Io sono repubblicano. Sono venuto fin qui da Arezzo proprio perché volevo vedere come funziona la Repubblica, e dare una mano, se posso. Però non mi piace l'ingiustizia, non mi piace chi ammazza. Sicché, per parte mia, voglio andare in fondo alla faccenda. Se Pulcinella è un repubblicano, ebbene, alla fine di questa storia avremo un assassino repubblicano di meno.
- Parlate bene voi! - interloquì Anna. - E come facciamo a mettergli il sale sulla coda, a quello?
- Non mi avete sentito, ragazza mia? - replicò l'aretino. - Quei due avevano l'aria di conoscersi, hanno scambiato qualche parola; e del resto il vostro Bernardo non avrebbe certo fatto salire uno sconosciuto, vi pare? Dunque, ecco un punto di partenza: dobbiamo sapere chi frequentava, chi gli ronzava attorno. Visto che era una spia, chi ha denunciato in passato: magari è stata la vendetta di qualcuno finito in galera per colpa sua. E poi chi gli ha dato i soldi per affittare la carrozza. Tu, Checco, avevi ricevuto un gruzzoletto e volevi far contenta tua cugina. Ma lui?
- Di', Ermanno, hai notato che mi stai dando del "tu"? Per me va benone, figurati, tanto più che oggi mi hai pure salvato la vita. Ma io sono un poveraccio, e tu quasi un signore. È proprio Repubblica, va!
La gente continuava a spegnersi i moccoli a vicenda, mentre loro si districavano dal traffico e riprendevano la via di Borgo e della locanda. Dalle finestre, uomini e donne con pertiche e ami si sporgevano per cogliere di sorpresa chi transitava e potergli poi urlare il loro senza moccolo! di dileggio. Mentre ripassavano il ponte e l'aria scura della notte fasciava le rive incolte del Tevere, i rintocchi dell'Ave Maria iniziarono a rincorrersi di chiesa in chiesa, da San Pietro all'ultima delle chiesine fuori le Mura. Anna si fece il segno della croce, intabarrandosi in una mantella pesante. E il silenzio e la stanchezza avvolsero la città come un sudario.


UNA STORIACCIA TENERA
di ENRICO SOLITO

Pioveva. Anche quella sera pioveva, e tirava un ventaccio maledetto. Che umido che faceva sul viale, sotto i tigli... Maria rabbrividiva nel suo pellicciotto finto, e decise di accendersi un'altra sigaretta. Con quel tempo da lupi non sarebbe passato nessuno di sicuro... se se ne fosse tornata a casa? Già, una bella trovata davvero! E chi avrebbe rimediato i soldi per domani, poi?
No, non c'era soluzione. Bisognava lavorare, anche stasera. Anche se pioveva. Si avvicinò una macchina, rallentò. Lei non vedeva niente, solo i fari negli occhi. Alzò leggermente l'ombrello, si tolse la sigaretta di bocca e lanciò una voluta di fumo, sorridendo e guardando le luci che l'accecavano con un sorriso che voleva essere invitante e tentatore. L'aveva imparata tanti anni prima quella mossa, e l'effetto che faceva oramai era soltanto penoso: ma lei non lo sapeva, chi mai avrebbe potuto dirglielo?
La macchina accellerò bruscamente, alzando un muro di schizzi che la presero di striscio.
Stronzo - disse a mezza voce rimettendosi la sigaretta in bocca -, un altro stronzo che si diverte a fare il giro delle puttane. Bella serata, sì.
Fece due passi, tanto per scaldarsi. Due passi in sù, fermarsi, girarsi,due passi in giù. Ne aveva fatti di chilometri in vita sua, in questo modo! Sorrise amaramente, mentre rabbrividiva. La vita non era poi malaccio, almeno quando non pioveva. Ma che schifo, stasera.
L'acqua scendeva a secchiate, violenta, dal cielo che non si vedeva più e Maria si accorse che piano piano ci vedeva sempre di meno. Gli alberi diventavano sempre più bui e quelli dall'altra parte della strada li indovinava, oramai, più che vederli. Strinse gli occhi e fissò il lampione, che spandeva intorno un piccolo cono di luce assediato: la pioggia lo rigava, curiosamente. Intravide qualcosa che si muoveva , sul marciapiede dirimpetto, e che si avvicinava istintivamente al lampione, a quell'isola di luce braccata dall'acqua e dal buio, come faceva lei. "Eh già,- pensò - ti pareva che mancasse, quella troia.- Poi sorrise: dare della troia a un altra non era il massimo dell'eleganza, da parte sua: diciamo che non era la persona più indicata a farlo. L'altra, riprese a pensare: un maledetto travestito che le aveva rovinato la piazza. Ecco il guaio di lavorare senza un protettore serio, con quello scimunito di Renzo. Un altro, appena avvertito, si sarebbe precipitato a controllare, a chiedere, a vedere: l'avrebbe minacciata, quell'altra, l'avrebbe magari sfigurata... ma sì, Renzo! Figuriamoci: quello era buono solo a bere e a fumare a letto. L'aveva ascoltata con aria annoiata, e si era girato dall'altra parte. Ma che la smettesse di fare l'isterica: avrebbe provveduto lui. Domani. Figuriamoci. Erano passate settimane oramai: e Maria non ne poteva più davvero. L'aveva osservata da lontano, nelle sere prima: un bel tocco di ragazza, accidenti a lei. Un travestito, certo: non poteva sbagliarsi su come andava vestita, con quei tacchi assurdi, tanto più per passeggiare in su e in giù, quelle minigonne... e poi quei trucchi, e quel tono di voce. Però era bella, quella carogna. E le macchine si fermavano per lei, oh se si fermavano. Almeno si fosse presentata, le avesse detto qualcosa... ma già, le puttane non si presentano. Non siamo mica a un ricevimento di gala... quella avrà avuto paura di ritorsioni del protettore: se sapesse...
I pensieri le frullavano nel cervello, in quella serataccia fradicia d'acqua e di rabbia, mentre passeggiava avanti e indietro, due passi su, voltarsi, due passi in giù, sculettare, su e giù per quel dannato pezzo di marciapiede. Non c'era niente da fare, d'altra parte. E se l'avesse affrontata lei? Era tanto che ci pensava. Bisognava fare qualcosa. E d'altra parte, Maria ne era convinta, non ci potevano essere rischi. Se l'altra fosse stata ben protetta, la sua organizzazione si sarebbe fatta viva per prima: sarebbero andati da Maria per spaventarla, per cacciarla...no, doveva essere un cane sciolto. Come me, pensò amaramente, visto che quel farabutto di Renzo è solo capace di fregarmi i soldi, bere e picchiarmi... ma basta. Avrebbe detto basta. Avrebbe attraversato la strada e l'avrebbe presa a botte, che cazzo. Tanto più che in una serata come stasera, non c'era certo da lavorare tutte e due, era evidente no? Le sere prima, ancora ancora... un traffico! Ma sì, perché non ammetterlo? Le aveva fatto perfin comodo. Era tanto che non si fermavano in tanti così: per forza, quella stronza era proprio bella: e poi ci sapeva fare, sculettava, attaccava discorso: era logico che gli uomini ne fossero affascinati. Ma quando poi capivano che era un travestito, molti se ne andavano. E allora rimorchiavano lei, che si metteva apposta un poco più in là. Meno bella certo, una puttana qualsiasi, ma una donna... sì, le aveva quasi fatto comodo. Però alla lunga non poteva durare, eh no che cavolo. Quel posto era suo, e le avrebbe fatto vedere...
Sospirò di nuovo. Che acqua. Perché diavolo poi faceva scorrere i pensieri in libertà in quel modo... le mulinavano nel cervello: a volte le pareva di essere ubriaca. Era capace di ragionare da sola per ore e inventarsi delle storie: storie belle, emozionanti, in cui lei aveva una parte importante: e alla fine si metteva a parlare da sola e a gesticolare, ed era preoccupata, e poi felice, e rideva come una matta da sola nella strada, felice nella sua storia... qualcuno pensava che era matta.
Una macchina, dall'altra parte della strada. Una frenata brusca. Una porta che si apre qualcosa che cade. La portiera che risbatte, la macchina che riparte di scatto, senza sgommare per via dell'acqua. Ma che cazzo succede. Non si vedeva niente laggiù, troppa pioggia. E poi un lamento.
Eh no per la miseria.
Maria buttò via la sigaretta e cominciò a correre. Che è successo.
La trovò a terra, nel fango. Piangeva. Le calze rotte, il vestito strappato. Una scarpa col tacco rotto. Il trucco che colava via sotto l'acqua gelida . La faccia... dio che botte che aveva preso. Si lamentava piano, strano che l'avesse sentita con il rumore della pioggia. Rimase lì bloccata, con l' ombrello in mano, come una stupida: non sapeva che fare.
Si guardarono, senza parlare. Il travestito singhiozzava ancora, piano piano. Lei si schiarì la voce.
Doveva dire qualcosa, cazzo.
-Te le hanno date, eh?-. Brava si disse, il tono giusto. Comprensivo, ma non pietoso. Da collega.
L'altro tirò su col naso. E alzò la testa, quasi in segno di sfida. Ma lei non accettò la provocazione e sorrise. Perché diavolo le sto sorridendo, si disse. Poco fa l' avrei presa a schiaffi.
-Dai alzati su. Non vorrai mica restare lì. -
-Tanto...-una voce strana, roca, da travestito. Le faceva effetto sentire quel vocione da uomo uscire da un corpo tanto più femminile del suo. Notò l'accento napoletano.
-Tanto che? Non fare la scema, dai. -
Il travestito si alzò a fatica, e lei automaticamente gli afferrò il braccio per aiutarlo.
-Incerti del mestiere...-sorrideva anche lui adesso.- Madonna mia, guarda come sto combinata...il vestitino nero aderente scollato... madonna, con quello che m'era costato! Le calze, le scarpe...che disastro.-
-Com'è successo?- Domanda stupida, lo sapeva. Era chiaro com'era successo.
- Come sempre, no? Erano due giovanotti, io mi sono fidata... e dopo hanno alzata la voce, mi hanno riempito e' schiaffi e m'hanno strappata la borsetta con tutti i soldi, mannaggia a'lloro!-
-Va là che è andata bene. Vieni sotto l'ombrello, che almeno smetti di bagnarti. E' andata bene, sì: ti potevano ammazzare lo sai. Ma tu con due insieme non ci andare mai, dai retta a me. E' pericoloso.-
Il travestito la guardò con uno sguardo strano.
-Grazie, sei gentile. Ma torna pure a lavorare, io me ne torno a casa. Tanto accussì combinata, chi vuoi che si ferma cchiù?-
-Ti accompagno io, sennò ti fradici. Tanto con quest' acqua non passa nessuno.-
Non le disse che senza la presenza dell'altra nessuno, anche se fosse passato, si sarebbe fermato. Non le voleva dare una soddisfazione così.
La prese sotto braccio- il travestito zoppicava, con uno solo dei suoi assurdi tacchi alti- e si incamminarono sotto il temporale.
-Io mi chiamo Maria- fece, tanto per dire qualcosa.
-Io Antonietta- fece subito lei, quasi di slancio- anche se nel mestiere mi faccio chiamare Deborah. Solo dai clienti però, non dalle amiche. Oddio- continuò precipitosamente, come se fosse stata in imbarazzo a darle implicitamente dell'amica- il nome vero mio sarebbe Antonio. Poi quando faccio l'operazione cambio pure il nome. Tu l'avevi capito, vero, che non ero una donna?-
No, figurati. Una sorpresa.- Poi si guardarono un secondo negli occhi e scoppiarono a ridere come matte, tutte e due.
Ridevano da sbellicarsi, e Maria non riusciva a tenere diritto l'ombrello, e si fradiciavano ancora, e più si bagnavano più ridevano.
- Oh Gesù, Gesù, che bugiarda sei. Ma noi siamo pazzerielle veramente, o'ssai sì?-
- No , guarda - disse Maria tirando il fiato- due puttane sotto l'acqua. Ma che ci troviamo da ridere? Io non ho rimediato niente, a te t'hanno pure menata...-
- E cche vuo' fa'! E' la vita... ringraziamo Iddio che siamo vive no? Guarda siamo arrivate. E' qui.-
Era una palazzo anonimo, in quello schifo di periferia, subito dietro i viali dove battevano. Era ancora più squallido, grigio e umido sotto quella pioggia battente. Qualcuno aveva attaccato dei manifesti sull'intonaco scrostato- manifesti elettorali sembravano, che l'acqua furiosamente aveva quasi strappato via, e da cui gocciolavano via i colori misti a pezzetti di cartone. Scavalcarono un rigagnolo gonfiato dal temporale ed entrarono nel portone.
Ripresero fiato un attimo aspettando l'ascensore, mentre ai loro piedi si formava velocemente una pozzetta d'acqua che scendeva dai loro corpi bagnati. Ma non avevano più voglia di ridere adesso, solo di mettersi al caldo e cercare di riposarsi un poco. Di parlare un attimo, forse.
Che strano, pensava Maria, che strana storia che mi sta capitando. Io, che sono più dura della roccia delle montagne del paese mio! Erano anni che non parlavo così con una sconosciuta, che mi lasciavo andare. Tutte le volte che ti lasci andare ti fregano, stà attenta Maria, lo sai che dopo ci stai male. Sono tutti stronzi Maria, ricordatelo accidenti a te. Che strano, pensava Antonietta, che strana storia che mi sta capitando. Io, che sono più dura della roccia delle montagne del paese mio! Erano anni che non parlavo così con una sconosciuta, che mi lasciavo andare. Tutte le volte che ti lasci andare ti fregano, stà attenta Antonietta, lo sai che dopo ci stai male. Sono tutti stronzi Antonietta, ricordatelo accidenti a te.
In casa di Antonietta si stava bene : all'asciutto finalmente, con un bicchiere di roba calda tra le mani, e sdraiate in poltrona (Antonietta, chè Maria non si era voluta cambiare ed era ancora un poco umida).
Cazzo che bello qua- fece Maria, rigirandosi attorno con l'occhio famelico della puttana di professione- ti deve essere costato un sacco di soldi arredarlo bene.
-Ma che vuoi, io non ho spese. Non mi faccio, non bevo, non ho protettori. Quello che guadagno è mio: certo metto da parte i soldi per l'operazione. Ma non ho tanta fretta, poi.-
Maria la scrutò a lungo. Non sapeva se lasciarsi andare. Poi si decise.
-Io ti invidio, sai. No guarda, non per quello che credi tu. Sì, hai un bel corpo e io a confronto faccio pietà - non negare, lo so che è così, non sono mica scema , che ti credi - ma non è questo che ti invidio. E nemmeno i soldi: io faccio quasi la fame, perché quello che guadagno si frega tutto l'uomo mio, quel porco. Ma stammi a sentire, quello che proprio mi lascia rincretinita è che tu sei libera.-
- Libera? - Antonietta scoppiò a ridere.
- Sì, libera, stammi a sentire. Io ho passato una vita cogli uomini. Belli stronzi, tutti. A cominciare da mio padre, un alcoolizzato che mi menava tutti i giorni, e che piantò mia madre incinta e me che avevo otto anni... cazzo, che stronzo. Poi - parlava mentre beveva, e il liquore le faceva bene, la faceva sentire a posto, intelligente, con le idee chiare - poi gli altri. Quello che mi fece la prima volta, in piedi, al buio, di fretta... capisci? E poi tutti gli altri. E adesso Renzo. Uno buono a darmi un sacco di botte, quel vigliacco, e a bere e a spassarsela alla faccia mia... ma lui che fa per me? Ma io scema, eccomi qui!- aprì teatralmente le braccia - Hai bisogno Renzino? Vuoi qualcosa? Servono i soldini? Ecco qui Mariuccia tua che te li dà, tanto poi va a battere... che tanto poi se non ci fosse lui ce ne sarebbe un altro. Sono tutti uguali gli uomini. Tutti stronzi.
- Infatti.- fece con tono serio Antonietta - Pure io non sopporto gli uomini . E' per questo che io voglio diventare donna.-
Scoppiarono a ridere di nuovo tutte e due. Una risata calda, che faceva bene. Una risata di due che condividevano qualcosa.
- Ma tu no. Tu non hai protettore, te ne freghi, stai da sola. Vivi da sola, i soldi sono tuoi, la vita è tua. Se ti fa schifo andare in strada nessuno ti obbliga. A me Renzo m'ammazza. Se te ne vuoi andare da un'altra parte, lo fai e basta.
- Sì, e poi mi succede come a stasera. Mi sarebbe servito un protettore, stasera.
- Sì, un bel protettore come Renzo, sì! Che credi che non mi sia capitato pure a me? Te l'ho detto, lui è buono solo a succhiarmi i soldi miei, a quello è buono. Di me se ne frega. Se ne fregano tutti. Tutti gli uomini. Tutti stronzi.-
- Però tu tieni pure torto, sai Maria. Scusa se te lo dico ma tu tieni torto, e per un sacco di ragioni. Io guarda non è che ti voglio fare la predica, sai, ci mancherebbe altro. E poi da che pulpito... no, ma io credo che è pure colpa nostra, non solo di loro che sono stronzi. Un poco di colpa è pure nostra, che non desideriamo altro che farci trattare così, pur di stare con qualcuno, sentirsi importanti per quell'uomo, almeno lui... è che teniamo paura di restarcene da sole. Fa freddo da sole... E poi tieni torto a dire che io sono libera. Libera, sìì.... se tu sapessi davvero la storia mia...
- Raccontamela.- si sorprese lei stessa a sentirselo dire. E che era diventata, una dama di San Vincenzo, come quelle che le facevano la predica all'orfanatrofio?
- Veramente ti interessa? Io però non te la voglio fare tanto lunga. E grazie che non mi hai chiesto "ma come mai sei accussì, quando te ne sei accorta... sei maschio o femmina veramente..." lasciamo stare tutte queste cose. Tu pigliami per quello che sono, che poi non lo so nemmeno io quello che sono. Diciamo che sono accussì, sono Antonietta, va bene? Ma tu dici che sono libera. Libera di fare che? Tu credi che una come me se ne va tranquilla tranquilla a fare un concorso per entrare in banca? O per avere uno straccio di posto? Io ho studiato sai, avrei potuto fare un bel lavoro. E ci ho provato pure, sai, ho avuto la faccia tosta di provare... non lo sai nemmeno in che imbarazzo stava quella povera gente per mandarmi via: solo uno si incazzò di brutto, fu scortese... insomma io capii chiaramente che se mi travestivo - come dicono loro, i maschi, che non capiscono niente: perché per me è vestirsi normale, come mi sento io, come ci sto bene! - se mi travestivo dicevo non potevo assolutamente lavorare. E se non lavori non mangi, bella mia! E che dovevo fare? Un'amica mia si travestì da uomo - perché quello è travestirsi davvero sai, per quelle come noi - cambiò città e provò a fingersi uomo. Lavorava. Faceva vita riservatissima, in casa da sola, per non farsi scoprire: niente amiche, niente amore. Televisione e patatine fritte. Dopo due anni gli è scoppiato un esaurimento nervoso, è finito alla Clinica psichiatrica e ha perduto il lavoro lo stesso. Vedendo questa cosa ho capito che non c'era scelta: l'unica cosa che può fare uno di noi è battere, cercare di fare un po' di soldi, fare l'operazione e cambiare sesso. A quel punto, forse, può cercare di vivere come una donna vera, e cercare di cambiare mestiere. Se non è troppo tardi. Ma nel frattempo, battere, e senza buttare via una lira. Perché il tempo, capisci, quello è determinante. Non posso perdere tempo. Se divento vecchia senza aver fatto i soldi sono fottuta: per questo non voglio protettori. Piuttosto rischio: mi costa sempre di meno. E tu dici che sono libera? Sì, libera di scegliere tra battere e crepare di fame: libera un cazzo, cara mia!
Sospirarono tutte e due. Si capivano.
Maria andò via tardi, quella sera, dopo aver insistito che Antonietta si mettesse a letto e averle preparato qualcosa di caldo. Tornata a casa, non disse niente a Renzo - e come avrebbe fatto a spiegargli? - e gli raccontò solo di essere furiosa per aver preso tanta acqua per niente: non era passato nessuno, una serata maledetta.

La sera dopo si andarono incontro, si salutarono, si augurarono buon lavoro. Maria si spostò: un po' più in là, molto vicino ad Antonietta. Così potevano scambiare due chiacchiere, quando non passava nessuno, e si sentivano anche un poco più sicure. Quando una delle due montava in macchina con gente che non sembrava supersicura, l'altra prendeva nota della targa. Il cliente se ne accorgeva, e filava dritto. Non capitarono più incidenti. Si guardavano, parlottavano del più o del meno. Si sentivano meno sole.
Passarono diverse settimane.
Una sera Maria tardava. Antonietta si era messa su in grande stile: avevano deciso così la sera prima, di mettersi in ghingheri tutte e due. Ogni tanto lo facevano, per scherzo: facciamoglielo vedere agli uomini, come siamo belle. E si guardavano, si ammiravano tra loro, si facevano i complimenti, come due ragazzine: era un modo per sentirsi meno sole, sulla strada. Antonietta camminava in su e in giù, rispondeva a quelli che si fermavano: ma non era allegra, pimpante come al solito. No. Era tesa, nervosa. Preoccupata, ecco, era preoccupata. Che succedeva? Mai Maria era arrivata così tardi, lei era così precisa... Fosse stata male? L'avrebbe avvertita, il telefono ce l'aveva. E allora?
Eccola. Finalmente. Arrivava come al solito, a piedi, dalla fermata dell'autobus che la lasciava a un chilometro. Antonietta le corse incontro, lasciando là un cliente ai primi approcci, che ci rimase malissimo. Ma che hai fatto, le chiese? Niente niente, lasciami stare adesso, andiamo a lavorare. Ma come? Lasciami stare t'ho detto, lasciami stare. Ma che hai Marì? Niente ho, non ho mai niente.
Antonietta era furiosa. Era stata così preoccupata, e mò adesso quella si metteva a fare la misteriosa. La scontrosa. La dura. Ecco cosa stava facendo: la dura, quella che non ha bisogno di niente. La puttana, insomma: la puttana esperta che non solo non chiede niente a nessuno, ma che ti morde se ti avvicini: che se ti cadono cento lire le abbranca e poi ti guarda male, ha paura che tu te le voglia riprendere. Ne conosceva di femmine così, quante ne aveva conosciute! Ma Maria no: Maria non era mai stata così, per questo le piaceva. Per questo erano diventate amiche, perché si asssomigliavano... I travestiti non diventavano come le puttane - pensò - diventano vecchi e tristi ma mai duri e cattivi. Non imparano mai. E a lei era sembrato che Maria pure fosse fatta così: sennò perché avvicinarsi quella sera che l'avevano colpita? Che si fosse sbagliata? Ma no, no. E allora? E allora... non voleva confidarsi ecco, non voleva parlarle. Certo, parlare con qualcuno era sempre difficile... però le faceva rabbia. Sicuro, rabbia. E allora la ignorava, a bella posta. Faceva la sexy, si spogliava quasi nuda quando passavano le macchine, che si rifacessero gli occhi, che guardassero, che la mettessero a paragone- pensava- con quell'altra. E che Maria schiattasse di rabbia al confronto, perché lo sapeva che a questo era sensibile. Era sempre una donna, no? La guardava di sottecchi, mentre sculettava in su e in giù, civettando coi clienti in macchina: macchè, se ne stava imbronciata da una parte, quasi non illuminata dai lampioni. Ma che aveva? A far così non avrebbe raccattato un chiodo stasera... poi capì di colpo. Si avvicinò, senza badare a quelli della macchina che la chiamavano, le prese le spalle e la portò di colpo sotto il lampione.
- Fammi vedere, dai. Ma guarda come t'ha conciata quel disgraziato. E' stato lui?-
Ma certo che era stato lui. Aveva un occhio gonfio e blu, era strano che ci vedesse ancora. Ecco perché era in ritardo, poverina: ed ecco perché non voleva parlare. Si vergognava. Antonietta sorrise: Maria era capace di vergogna. Non s'era poi sbagliata: era una persona dolce, delicata, pure se batteva.
Maria si sfogò, a quel punto, almeno come poteva farlo, tra un cliente e l'altro, tra una macchina e l'altra. Renzo s'era ubriacato, quella sera, e voleva i soldi, e non gli importava niente se ancora lei non poteva averli perché doveva ancora andare a lavorare, lui li voleva. E così le aveva allungato quel pugno, che le faceva rabbia, ma così rabbia, a parte il male! Perché lui lo sapeva che lei con la faccia ci lavorava. Lo sapeva che così non avrebbe guadagnato niente quella sera, e così lui si sarebbe arrabbiato di più e l'avrebbe picchiata ancora... Non c'era fine, ecco, non c'era fine.
Maria scoppiò a piangere, singhiozzando come una bambina. Antonietta l'abbracciava e le carezzava piano i capelli. Le sussurrava qualcosa in napoletano negli orecchi, e la gente che passava non capiva che ci facessero quelle due puttane abbracciate sotto un lampione, lì sul viale.

Quella sera Maria tornò a casa con un po' di soldi di Antonietta. Ma non fu tutto. Il giorno dopo, e il giorno dopo ancora, Maria e Antonietta passarono un sacco di tempo al telefono.
- Tu sei na' matta. Quello ci ammazza a tutte e due -
- See, o' castigamatti. Ma fammi o' piacere! No, tu devi dare retta a me. Sennò quello continua a fare come al solito e o prima o poi tu le penne ce le lasci veramente. Io ci tengo a te, Marì, sei l'unica amica che tengo. Non posso campare solo cogli uomini attorno, Maria! -
- Maria deciditi. Guarda che non puoi continuare così. Ne ho viste altre Marì, ne ho viste altre ti dico.-
- Maria fammi sta carità, dammi retta.
E la vita che continuava sempre uguale. La notte sui viali, la mattina a dormire, e quando si svegliava lui già non c'era, sparito coi soldi guadagnati la notte, già a giocare, a ubriacarsi, a fare chissà che. E poi i lunghi pomeriggi di noia, e lui che rincasava e la guardava. Si guardavano come estranei oramai: lui si piazzava brontolando davanti al televisore, lei non sapeva che dire, che fare... e lei capiva sempre di più che quella storia, quell'amore, se lo era costruito lei da sola, con la sua fantasia, con la sua voglia disperata di un affetto, per povero e miserabile che fosse. Capiva sempre di più che quell'amore non c'era mai stato davvero, era stato solo un'illusione coltivata con disperazione e che aveva vivacchiato alla meglio, come il basilico sul balcone: ma era un'illusione. E le illusioni prima o poi muoiono. Guardava quell'uomo, in mutande e canottiera, che fumava e guardava la televisione annoiato, senza uno scatto, senza orgoglio, senza voglia di vivere. E capiva ogni giorno di più che lo disprezzava invece di amarlo: lo disprezzava per il suo accettare quella situazione. Un uomo vero non ci sarebbe mai stato. Se non l'amava, le avrebbe detto no, basta. Questo avrebbe fatto un uomo vero, come quelli del cinema. Ma lui no. Lui alzava le spalle e fumava un'altra sigaretta. Maria, un'altra... un film o un altro alla tv. Un giorno o l'altro della vita. Tutto era uguale, tutto noioso. Tutto un rompimento di balle. No: con un essere inutile così lei non ci poteva stare. Era lei che non ci poteva stare più: perché quando le donne si accorgono che non amano, è finita davvero. Proprio questa frase disse ad Antonietta quella sera: e Antonietta le diede un bacio ammirata.
E questa dove l'hai letta Marì ? - fece - Pare una frase di uno scrittore russo !-
- Scherza tu. E' così, sai. Io finchè pensavo di amarlo, a Renzo, mi andava pure bene che me le dasse, e di battere per lui. Ma non è un uomo, è una gelatina. Se non mi vuole bene, doveva mandarmi al diavolo. E allora di che sono innamorata: di una gelatina? No guarda, basta. Basta.-
-Allora d'accordo?-
D'accordo. E che Dio ce la mandi buona-

Quella sera Maria non tornò a casa. Renzo si preoccupò solo al mattino, quando si svegliò e non trovò né lei né i soldi sul comò. Andò a cercarla sul viale, ma non c'era nessuno. Ci tornò la sera: niente, le automobili passavano di gran carriera sul viale deserto. Ma che stava succedendo? Maria era troppo furba per farsi ammazzare da un cliente. Certo, c'era tanta gente pericolosa in giro... macchè: se l'avessero ammazzata a quest'ora il corpo l'avrebbero già ritrovato. E allora?
Lui non capiva. Ma che poteva fare? Tornò a casa tardi, dopo averla cercata nei locali malfamati che anche lei conosceva. Si versò un whisky e si sprofondò in poltrona, brontolando. Che poteva essere successo?
Trillò il telefono.
Renzo sussultò. Alle due di notte il telefono. Poteva solo dire guai. Forse l'avevano trovata, e lo cercavano: diavolo, si sentì stringere lo stomaco. Ci si era quasi affezionato, a quella donnuccia. Alzò la cornetta con la mano che tremava, ma non disse una parola.
Dall'altra parte qualcuno respirava. Respirava forte, ansimando. Che cazzo di scherzi, pensò. Poi sentì la voce: roca, profonda, piena di fumo, di stanchezza, di noia. E pericolosissima.
- Non dovevi sgarrare, picciotto. Non dovevi. Uno sbagghio è stato. E gli sbagghi si pagano.-
Si ritrovò la gola secca.
-Ma chi... ma che dite?
Un profondo sospiro.
- Le puttane non sono cchiù di chi gli pare, picciotto, in questa città. Sono cosa nostra.-
Renzo non riusciva più a parlare.
- Don Tano ti invia i suoi saluti.
Clic.
Il bastardo aveva riagganciato. Renzo rimase con la cornetta in mano e la bocca aperta, con la mano che tremava come impazzita. Guardò stupito il braccio che tremava, si afferrò il polso con l'altra mano e si costrinse a posare il ricevitore sulla cornetta. Don Tano, pensava, e non riusciva a pensare ad altro. Rimase seduto nel buio, ad occhi sbarrati. Era finito, fottuto, chiuso. Avevano deciso di impadronirsi del mercato delle puttane, porca miseria. Maria dovevano averla presa loro, non c'era dubbio. Fatta fuori forse: o forse no, trasferita in un altra città, forse. O forse no, perché? Per quella, Renzo o un'altro... quella troia. Ma il problema non era Maria: era lui. Dovevano farlo fuori, certo. Don Tano. Don Tano. Avrebbero fatto fuori tutti i piccoli protettori... ma forse... forse no, perdio! In fondo gli avevano telefonato, no? Perché? Non facevano mai nulla per niente, quelli... Don Tano. Maledizione, maledizione. Forse, sì, forse non si sarebbero dati la pena di far fuori i pesci piccoli, o almeno non tutti: bastava dirgli di levarsi di torno. E certo che l'avrebbe fatto, e subito. Don Tano. Don Tano. Doveva lasciare la città immediatamente, senza neanche far le valigie. Forse aveva pochi minuti, forse lo stavano osservando per decidere se agire o risparmiarlo... scappò fuori di casa senza neanche cambiarsi la camicia, senza prendere un abito di ricambio. Don Tano. Corse verso la macchina ad occhi chiusi, convinto che una raffica di mitraglietta lo stesse aspettando nel buio. Si infilò dentro, col cuore impazzito, i denti che tremavano e una folle gioia in testa. Lo lasciavano campare, lo lasciavano campare. Sgommò via a tutta velocità, verso il casello dell'autostrada: e l'ultima cosa che pensò, mentre lasciava per sempre quella schifosissima città, fu che era stato furbo a mettere da parte un po' di soldi. Gli sarebbero serviti.

Il silenzio scese di nuovo sulla strada. Nella cabina all'angolo della via due figure stavano stipate dentro a una cabina del telefono. Ridevano, ridevano di gioia, e di incredulità.
-Mica me lo credevo, che ci cascasse così facile, sai. -
-Perché non li conosci gli uomini, Marì. Dai retta a me, che me ne intendo. Sei d'accordo, no, che me ne intendo di più io, o no? Quelli fanno sempre i prepotenti co'nnuie, ma poi trovano sempre qualcuno più strunzo e'lloro.-
-Ma tu sei brava coi dialetti. Quasi quasi mi facevi paura pure a me.-
-No, è che tu tenevi paura per conto tuo. E pure io, Marì. Pure io! -
Tornarono a casa insieme, quella sera, e da allora andarono a vivere da Antonietta. Si dividevano i compiti di casa, cucinavano una volta per uno, e pure a fare la spesa facevano i turni: ma a battere no, ci andavano insieme: e Antonietta insistè a mettere i soldi in comune. Poi Maria ebbe l'idea del telefono: cominciarono a mettere l'annuncio sul giornale e a ricevere i clienti in casa. Più comodo che andare a prendere il freddo per strada, e rendeva di più.
Fu dopo sei mesi che successe.
Erano in macchina - ora si potevano permettere una macchina - ed erano andate a passare il pomeriggio al mare - ora si potevano permettere qualche giorno di vacanza, ogni tanto. Videro la macchina arrivare veloce, frenare. Si aprì la portiera, qualcuno scaraventò un fagotto per terra, la macchina ripartì. Loro si fermarono, ne avevano viste troppe per non capire. Il fagotto piangeva, si lamentava piano. Si avvicinarono. Si guardarono. Si sorrisero e strinsero le spalle. Che vvuoi ffà?
-Gesù. Una bambina. Questa è una bambina. Avrà quindici anni-
-Vieni cocca. Vieni.-
La ragazza le guardò terrorizzata. Diede due urli nella sua lingua, gridò di andarsene, lasciarla in pace. Ma nel viale rispose solo il motore delle macchine.
-Sta tranquilla. Non ti facciamo niente, sei con noi ora. Ci penseremo noi a te. Vieni qua. Andiamo via. Andiamo a casa.-

La pioggia ricominciava a cadere, sui viali di quella sporca città. Tre puttane salirono in macchina, e la gente che passava non capiva cosa diavolo facessero.

Enrico Solito (Roma, 1954). Pediatra e neuropsichiatra infantile, vive ed esercita la professione in Toscana. E' membro di varie associazioni scientifiche e dell'Associazione Sherlockiana Italiana "Uno Studio in Holmes" per la quale cura la rivista "The Strand Magazine". L'Associazione ha anche un sito internet. Ha scritto, oltre a numerosi libri e articoli di carattere medico, moltissimi racconti apocrifi con Sherlock Holmes protagonista raccolti nei seguenti volumi: "Uno Studio in Holmes (Biblioteca del Vascello, 1995), "I Casi proibiti di Sherlock Holmes" e "Sette Misteri per Sherlock Holmes" (Hobby & Work, 1998 e 2000) ed una enciclopedia holmesiana insieme a Stefano Guerra "I 17 Scalini" (Bottega delle Meraviglie, 1998). Nel 1997, con il racconto "La Sindrome di Caino" ha vinto il premio letterario "Palazzo al Bosco".

"UNO STUDIO IN HOLMES"
di Enrico Solito
(Biblioteca del Vascello)
"I DICIASSETTE SCALINI
ENCICLOPEDIA
DI SHERLOCK HOLMES"
di Enrico Solito e Stefano Guerra
(Edizioni Il Torchio)
"I CASI PROIBITI
DI SHERLOCK HOLMES"
di Enrico Solito
(Hobby & Work)
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