J'ACCUSE
di Enrico Solito
Nel mese di settembre tutti i giornali del
Bel Paese, perfino quelli, ed erano tanti,
completamente in linea col Governo, furono
invasi dalle polemiche e dalle discussioni
scatenate da un articolo comparso sul principale
quotidiano di opposizione. La cosa aveva
fatto veramente rumore, finendo col costituire
una specie di valanga che aveva travolto
gli imbarazzati silenzi e i pudici distinguo
cui il pubblico era ormai abituato. Non che
il contenuto di quel pezzo, intitolato significativamente
J'accuse, come il celebre pezzo di Zola che
aveva dato il via all'affare Dreyfus un secolo
e mezzo prima, non che quel pezzo dicevamo
avesse dei contenuti particolarmente nuovi
o sconvolgenti, o che il tono acceso fosse
una novità sui giornali della risicata opposizione
italiana: ma era la firma dell'autore che
destava scalpore, essendo egli stato considerato
fino a poche ore prima la penna di punta
del sistema berlusconiano.
J'accuse, io accuso. - così recitava quel
pezzo- Io accuso il Capo del governo e i
suoi collaboratori, di aver costruito un
sistema basato sulla menzogna e sulla falsità
sistematiche. Lo accuso di aver mentito,
di aver volutamente detto il falso, di considerare
il proprio tornaconto ben al di sopra dell'interesse
pubblico. Di aver sistematicamente, costantemente,
coscientemente attaccato tutti i poteri costituzionali,
i politici, i giudici, i magistrati, che
gli hanno contestato le sue magagne. Di essere
riuscito a cavarsela davanti alla legge per
una incredibile serie di tattiche ostruzionistiche,
intimidazioni, dilazioni. Piccole furberie
insomma: legittime legalmente ma moralmente
ripugnanti.
Ma cominciamo dall'inizio. Quest'uomo si
è fatto dal niente, come dice lui: è stato
fatto da qualcuno, tutti lo sanno in Italia.
Chi gli ha dato i soldi? I primi capitali?
Con quale incredibile serie di salti mortali,
girandole e contorsioni molto al limite del
legale- ad essere generosi- è riuscito costui
ad arrivare? Tutta la sua ascesa è costellata
da misteri, da affari loschi, da piaceri
fatti da amici e confratelli, da iscrizioni
a logge segrete, da società di comodo, di
capitali spariti e riapparsi, di travasi
che non si può definire poco chiari, perché
è chiarissimo il sistema truffaldino usato
da lui come da tanti altri lestofanti. Certo:
non c'è reato. O per meglio dire: non si
può provare alcun reato, perché le note spariscono,
le rogatorie sono bloccate, chi sa tace e
chi parla è delegittimato : e quando tutto
ciò non è possibile il parlamento amico cambia
le leggi per cambiare le carte in tavola
e rendere lecito ciò che era illecito. Una
incredibile schiera di legulei prezzolati,
di professionisti dell'insabbiamento, di
tecnici dell'imbroglio legale e azzeccagarbugli
venduti al potere blocca, insabbia, ostacola
e alla fine fa prescrivere. Prescrivere,
non assolvere: quest'uomo è l'unico leader
politico del mondo che non pensa affatto
che Cesare deve essere al di sopra di ogni
sospetto e che dovrebbe vergognarsi di essere
riconosciuto probabilmente colpevole ma non
punibile. Lestofante impunito, mestatore
nel torbido, uomo dalla coscienza e dalle
mani sudice.
Questo per quanto riguarda lui: ma non solo
lui io accuso. E non solo la schiera di lestofanti
prezzolati al suo fianco, molti dei quali
già condannati, sfacciati traffichini e manigoldi
matricolati: no, non mi basta. La verità,
quella mi interessa: accuso gli italiani
che lo amano, che l'hanno votato, che credono
in lui: perché nessuno di loro può non sapere.
Essi preferiscono la tranquillità alla verità
e alla giustizia. Quando Napoloni cadrà lo
farà con un grande botto e già vedo le facce
stupite, il tirarsi indietro, il "io
non lo sapevo": l'abbiamo già visto,
lo vedremo ancora. Le mani che applaudono
oggi sono quelle che getteranno indignate
monetine ed agiteranno cappi domani: le lingue
che sputeranno insulti negando di aver mai
saputo sono le stesse che oggi si arrabattano
a negare l'evidenza. Ma io vi dico: io accuso
tutti voi, già da oggi, a futura memoria.
J'accuse."
Quello che accadde dopo la pubblicazione
di quell'articolo è difficile da descrivere
nei particolari, pezzetto per pezzetto. Forse
è più adatta l'impressione generale che si
ebbe, come di un alveare centrato in pieno
da un sasso: le polemiche, gli insulti, arrivarono
a un parossismo mai raggiunto prima, come
se in un Bar dello Sport fosse entrato un
tifoso della squadra avversaria ad insultare
l'idolo di quella di casa. Giornalisti che
si stracciavano le vesti, proteste, trasmissioni
televisive a difesa del cavaliere, ore e
ore di collegamenti: e Lui, il Grande Comunicatore,
che sorrideva triste con l'aria di chi è
stato così ingiustamente calunniato. Non
si poteva non andare in tribunale e infatti
ci si andò. Altre volte l'apparato aveva
nicchiato, aveva fatto finta di stare al
gioco, aveva usato l'insabbiamento e il silenzio:
ma che a scrivere quelle cose fosse stato
Marco Armellini Pozzetti, beh, era troppo.
Calunnia sì, e insulti gratuiti: la galera
avrebbero voluto, e intanto la sospensione
dall'ordine e una multa coi fiocchi.
Il processo si svolse in un'aula ostile,
col pubblico accuratamente selezionato: pochi
membri dell'opposizione, stretti intorno
agli avvocati del giornalista, e tutto d'intorno
una folla di deputati, esponenti, giornalisti
di regime: tutti agitati, rossi in faccia,
con la cravatta a righe del partito (anzi
no, del movimento) e la spilla d'ordinanza,
tutti a farsi vedere indignati e desiderosi
di giusta vendetta. Figurarsi, parlare così
del Nostro Grande Capo, quello che se non
ci fosse bisognerebbe inventarlo, l'uomo
della provvidenza…comunista, ecco quello
che era, delinquente. In galera, in galera.
L'aula era buia, e sapeva di umido e stantio.
Nella folla che rumoreggiava c'erano solo
tre persone impassibili: due carabinieri,
che erano impassibili per dovere e professionalità,
e l'imputato. Lui se ne stava rigido e impettito
come se andasse alla parata, al centro del
gruppetto della difesa che pareva il settimo
cavalleggeri a Little Big Horn: sorrideva
vagamente, tranquillo ed incosciente: i suoi
amici si chiedevano se era un pazzo o un
eroe.
Il dibattimento fu rapido: la parte lesa,
tra gli applausi entusiasti ed assordanti
del pubblico, si lanciò in una vibrante arringa
che si concluse in una vera ovazione: che
si portassero le prove, se c'erano, o che
si smettesse di infangare ancora una persona
specchiata che era uscita indenne dalle accuse
montate solo da giudici corrotti e di sinistra.
Gli avvocati del giornalista, fischiatissimi,
sostennero che più volte nell'articolo si
diceva che di condanna morale si parlava,
non di reati: e che su questo piano dunque
non si poteva parlare che di legittime opinioni.
Tentarono anche di specificare che il Cavaliere
era stato sì assolto qualche volta, ma in
quel caso erano stati condannati i suoi collaboratori:
e più spesso se l'era cavata col proscioglimento,
che era come dire "sei colpevole ma
non t'ho acchiappato a tempo": ma questo
tipo di considerazione fu semplicemente travolto
dal chiasso.
Fin qui tutto previsto, né la difesa sperava
che il giudice, come si fa di solito, imponesse
il silenzio al pubblico: e non ci fu nulla
di strano, una volta sospesa l'udienza e
il giudice si fu ritirato per deliberare,
che il giornalista e i suoi passassero tra
due ali di folla inferocita, protetti dalla
polizia, con Armellini a testa alta e il
sorriso spavaldo sotto gli insulti e gli
sputi. No, tutto questo Armellini se lo aspettava
perché scemo non era. Ma quello che invece
non si aspettava proprio era quello che accadde
dopo, una volta lontano dall'aula.
Il maresciallo dei carabinieri che lo aveva
scortato, prima di congedarsi, si chinò leggermente
verso di lui, quasi a fargli una confidenza.
-Dottore, avrei una ambasciata da riferirle.
Mi raccomando: si tratta di cosa delicata
e certamente al di fuori delle procedure.
Una persona desidererebbe parlarle a quattr'occhi.
Armellini lo guardò interrogativo. L'altro
tossicchiò, si guardò intorno con fare circospetto
e, esaurito il cerimoniale, si decise.
- Il giudice Mariotti, dottore. La aspetta,
se lei può, nel suo studio al tribunale.
- E perché mai non me l'ha detto quando eravamo
laggiù?
- Sta scherzando spero? E' cosa altamente
irregolare che il giudice la riceva ora,
mentre si è ritirato a deliberare: scatenerebbe
un vespaio se si sapesse. Per questo il giudice
mi ha chiesto di fare, e di dimenticare.
E io infatti ho dimenticato tutto.
Lo studio di Mariotti, al tribunale, era
facile da raggiungere, specialmente per un
giornalista che quelle aule le aveva praticate
per tanti anni. Un bugigattolo buio e squallido,
infilato in un corridoio enorme di quel tribunale
seicentesco, come una cosa pigiata dentro
a forza e del tutto fuori posto. Armellini
si fece largo tra le pile di faldoni accumulati
al lati e schivò un trafelato commesso che
portava carte svolazzanti tra gli uffici.
Bussò ed entrò senza aspettare la risposta.
La stanza era piccola, quasi del tutto riempita
da un enorme scaffalatura traboccante di
fogli, e sbarrata a metà da una scrivania
dietro cui era trincerato un ometto calvo,
pallido e sudato: il giudice.
Armellini chiuse la porta e si sedette tranquillo.
-Ciao Mario- fece.
L'altro se lo guardò ben bene, come se riflettesse
a lungo prima di rispondere.
- Ciao un accidente, pezzo di incosciente.
In che razza di pasticcio ti sei cacciato,
dì? Che confusione è questa?
- Nessuna confusione, caro mio. E' tutto
molto chiaro, mi sembra.
- Chiaro? Chiaro?? . sbraitò l'altro, smanacciando
l'aria con le mani come chiamando a testimoni
presenze invisibili. - Ma come?! Tu, uno
dei migliori giornalisti, e meglio pagati!
Ti seguivo sempre sul giornale, sai? Metterti
nei guai così…Ma lo sai cosa rischi, dì?
E per cosa poi? Per fare l'eroe? Per una
alzata di ingegno?
Il giornalista non replicò. Flemmatico, tirò
fuori una chewing-gum dalla tasca e si mise
ad aprirne la cartina, prima, poi la stagnola.
La assaporò lentamente, come se fosse la
cosa più importante del mondo. Poi iniziò
a lisciare la cartina, con attenzione quasi
maniacale. Cominciò a parlare solo quando
ebbe quasi finito, con una voce calda e profonda,
eppure indifferente, come lontana anni luce.
- Voglio raccontarti una storia, Mario. Non
lo so se riuscirai a capire, vedi, ma mi
chiedi di farlo e io debbo provarci, almeno.
E' sempre una possibilità vedi, e una possibilità
non si nega a nessuno, nemmeno a uno come
te. Però è una storia lunga Mario, e fammi
il piacere di non interrompermi, va bene?
Con l'età perdo il filo facilmente. E' una
storia lunga sai…Cominciò tanti anni fa,
tanti che mi è difficile contarli adesso.
C'erano due ragazzi all'università, e uno
dei due ero io. Ero un tipo allegro, dicono,
e brillante. Pieno di idee, di grilli per
la testa, di ideali…già, gli ideali. Volevo
salvare il mondo sai? E difendere la giustizia.
Per questo studiavo legge. Ma non ero molto
bravo a studiare, e se fosse dipeso da me
temo che la giustizia sarebbe stata nei guai:
per quanto, anche così…Le ragazze però erano
tutte mie. Dicevano che avevo una luce negli
occhi quando parlavo, e credo che fosse vero,
perché io a quello che dicevo ci credevo.
Le notti passate a discutere, a arrabbiarsi,
a fare grandi progetti…già. - Armellini aveva
un vago sorriso mentre si arrotolava una
sigaretta.
- Però avevo tante altre belle qualità: oh
sì, un giovane interessante. Scrivevo bene
per esempio, scrivevo ancora meglio di quanto
parlassi. Lo avevo saputo da sempre, da quando
ancora alle medie i compagni mi chiedevano
di fare i temi in classe per loro, e nelle
due ore del compito scrivevo tre o quattro
temi che passavo in giro…e così, quasi per
scherzo, mi trovai a scrivere dei pezzetti
per il giornalino universitario, poi per
delle riviste di dilettanti. E alla fine
un amico che lavorava in un grande quotidiano
mi propose di fargli da vice: quando lui
aveva troppo da fare mi commissionava un
pezzettino che buttavo giù io. Mi dava qualche
soldino e io mi sentivo qualcuno. Così, un
po' alla volta, cominciai a pensare allo
scrivere come a una professione. Cominciai
a frequentare l'ambiente del giornale, e
sempre meno quello dell'università: fino
a quando non seppi che cercavano uno nuovo
in cronaca. Feci fuoco e fiamme, angosciai
il mio amico e il caporedattore finchè non
ne potettero più, e incredibilmente ci riuscii.
Adesso che so come funziona quel mondo proprio
non riesco a capacitarmene: ora so che entrarci
così per caso è quasi impossibile, eppure
a me andò proprio come ti ho detto.
Era una vitaccia intendiamoci: soldi pochini
pochini e soddisfazioni punte. Uno pensa
al giornalismo e pensa al caso Watergate,
alle grandi firme…macchè. Gavetta, pasti
saltati, necrologi da riempire, noia, sigarette
su sigarette, caffè, notti in bianco e tutto
per niente: per poter dire "ci lavoro
anch'io" ma senza neanche vedere la
tua firma. Ma a me andava bene così: ero
come inebriato da quell'aria, dalla sensazione
di far parte del giornale. Volevo salvare
il mondo, te l'ho detto. E poi i soldi non
mi servivano, e quanto alla gloria sarebbe
venuta, ero ancora tanto giovane…Così andai
avanti, sempre allegro, sempre spavaldo.
Smisi di fare i necrologi e alla fine riuscii
ad avere qualche piccolo incarico di cronaca
nera. Scippi per lo più, niente di veramente
operativo; raccoglievo le notizie e le buttavo
giù in una specie di bollettino di guerra
su quello che avveniva in città. Perché la
giunta era di sinistra e il giornale di destra,
e aveva tutto l'interesse di sottolineare
le malefatte dei criminali: non mi piaceva,
e capivo benissimo quale era l'operazione,
ma avevo diverse scusanti. Innanzi tutto,
se non l'avessi fatto io l'avrebbe fatto
qualcun altro: e poi era solo un incarico
di collage, di mettere in fila dei fatti,
da archivista insomma, senza nessun parere,
nessuna interpretazione: a quelle ci pensavano
i fondi del caporedattore. E alla fine non
erano mica fatti falsi no? Se i lettori di
quel giornale la pensavano così erano fatti
loro, erano loro che si prendevano in giro
da soli. Quanto a me avevo le mie idee, me
le tenevo dentro e non le avrei certo mutate.
Quando avessi potuto tirarle fuori, allora
avrebbero visto.
Continuò così per diversi annetti, e alla
fine della gavetta cominciai ad avere qualche
incarico sul campo. Ancora strettamente in
cronaca locale, e in piccoli incarichi senza
importanza.
Allora sì che cominciai a divertirmi sul
serio. Gli studi, quelli, li avevo ormai
abbandonati, e non me ne pentivo. Ero sulla
strada finalmente, ad annusare piste, a cercare
fatti. Certo, erano fatterelli: il gatto
sparito, la vecchietta truffata. Ma era l'inizio.
Un giorno…un giorno iniziò davvero. Abbi
un poco di pazienza, che arrivo al punto.
Hai una sigaretta?
Armellini si allungò sulla scrivania e afferrò
il pacchetto che gli veniva porto. Con cura
sfilò un cilindretto di carta e l'accese:
ne assaporò voluttuosamente un paio di boccate,
con gli occhi persi chissà dove, e poi ricominciò,
con quella sua voce bassa e suadente, quasi
allegra.
- Giravo per la città a cercare cose strane
e una vecchietta mi disse che proprio sotto
il ponte del fiume piccolo, quello stagnante
quasi tutto l'anno, ci dormivano dei tipi
strani. Così pensai di andare a vedere e
mi infilai in una specie di canneto che copriva
le spallette del fiume, con l'idea di raggiungere
il greto, visto che si era in estate e il
rivolo d'acqua era quasi in secca.. Ma quando
le canne finirono mi trovai di fronte un
cadavere.
Era la prima volta che mi capitava e temo
di non essermi affatto comportato in maniera
professionale. Un cronista di nera non dovrebbe
mettersi ad urlare, non credi? Ma non c'era
nessuno per fortuna e la cosa non si seppe.
Era una ragazza di vent'anni, molto bella
e ben vestita. Era stata strangolata con
una sciarpa e lasciata lì: a giudicare dal
vestito dopo una notte passata a ballare.
Passò qualche minuto e cercai con tutte le
forze di calmarmi. Avevo un delitto, e lo
avevo per primo. Sapevo che avrei dovuto
chiamare la polizia, ma perché non prendersi
il piccolo vantaggio che la sorte mi aveva
regalato? Così tirai fuori il fazzoletto
e con grande precauzione, senza lasciare
impronte, aprii la sua borsetta, frugai tra
le sue cose, i suoi documenti: attento a
non pestare impronte o ad alterare prove,
che d'altronde, come seppi poi, non c'erano
affatto perché non era lì che era stata uccisa.
Avvertii i poliziotti solo dopo una mezz'oretta,
ma nel frattempo avevo fatto il pieno: l'esclusiva
era mia. Al lavoro mi mossi con grande abilità:
prima di sparare i miei siluri chiesi al
caporedattore di avere l'esclusiva sugli
articoli, con tanto di firma. Se mi volevano
bene, se preferivano aspettare le notizie
dalla questura non avevano che dirlo e io
ritornavo obbediente ai miei compiti di tutti
i giorni…ebbi l'esclusiva e il giornale ebbe
lo scoop. Fu un successone, con la gente
che non parlava d'altro. Quanto a me mi gettai
sulla pista come un segugio sull'usta: e
mentre i miei colleghi aspettavano ancora
di sapere dalla polizia chi era la vittima,
io parlavo con le sue amiche e i suoi parenti,
ricostruivo le ultime ore della sua giornata,
le sue amicizie…. Naturalmente i poliziotti
capirono com'era andata quando sul giornale
del giorno dopo trovarono le foto in esclusiva,
ma ero stato attento a non esagerare e lasciarono
perdere. Fecero come fanno sempre in questi
casi: indagano per un poco, poi, quando si
calmano le acque, lasciano perdere: e lasciarono
perdere pure stavolta. Ma io no: era la mia
grande occasione. Continuai a sparare articoli
sensazionali, sempre un po' più avanti degli
altri: e battevo una pista per conto mio.
Il mio asso nella manica era un bigliettino
sgualcito che avevo trovato nella borsetta,
e che non avevo citato nell'articolo per
paura che mi accusassero di aver inquinato
le prove, tanto più che nella conferenza
stampa della polizia non era stato citato.
C'era un numero di cellulare, e feci fuoco
e fiamme per sapere di chi era. Telefonare
così non mi sembrava il caso, se quello era
uno implicato l'avrei messo sull'avviso…qualche
giorno dopo lo seppi: il figlio di un pezzo
grosso di Viva L'Italia, il partito-non partito
del Presidente. Un pezzo molto, molto grosso.
Cominciai a cercarlo, a sentire cosa dicevano
i domestici, così, senza parere. In breve:
il ragazzo era uscito quella sera ed era
rimasto fuori tutta la notte. Era tornato
sul far dell'alba stravolto, e da allora
era stato malissimo. Erano venuti fior di
dottori e alla fine era stato portato in
una clinica svizzera: depressione, dicevano.
Avevo messo giù il telefono da pochi minuti
quando bussarono alla porta. Aprii ed erano
due poliziotti, con la faccia da poliziotti.
Entrarono con la faccia dura e mi fecero
un discorsetto molto chiaro: senta dottore,
noi siamo sicuri che lei ha frugato nella
borsetta della vittima. Non ce ne frega niente,
fa parte del gioco. Ma non si metta di mezzo,
non intralci le indagini. Nota bene Mario
che le indagini oramai erano ferme: e non
venivano a chiedermi cosa sapevo. Se smetterà
di mettersi di mezzo, creda, c'è chi le sarà
grato. Tu lo sai cosa vuol dire no?
Ci riflettei tutta la notte sopra. Certo,
c'era l'etica professionale, e non solo quella.
Però, però…in fondo che prove avevo? Nessuna,
e d'altronde è logico, io il giornalista
facevo, mica Sherlock Holmes. Se non cavavano
un ragno dal buco loro…e poi non c'era il
rischio di beccarsi una bella querela? Certo
che c'era se avessi pubblicato quei fatti.
Fatti poi…indizi certo, ma niente altro.
E alla fine, che garanzie avevo che il giornale
me l'avrebbe pubblicato, un articolo così?
Nessuno, anzi era probabile che non l'avrebbero
fatto: mi sarei bruciato per niente. In fondo,
samurai che fugge è buono per un'altra battaglia.
Lasciai perdere: e dopo una settimana fui
promosso. Chiamato direttamente nella redazione
centrale, sezione cultura. Era il grande
lancio. Cominciarono a chiedermi di dire
la mia sulle varie manifestazioni culturali,
intingendo un poco di veleno su questo o
quello. Questo o quello erano sempre gente
di sinistra, ma in quell'ambiente è normale
essere cattivi: e di nuovo, le mie convinzioni
erano diverse dal lavoro, io mica votavo
a destra. Piano piano mi davano fiducia,
spazio. E io me lo prendevo. In fondo, che
male facevo? Non parlavo di politica io,
solo di cultura, di libri, di filosofia.
Mi chiesero di occuparmi di revisionismo:
sai, quelli che scrivono che i campi di concentramento
non ci sono mai stati, eccetera. Non dovevo
dare un giudizio di merito, ma fare una battaglia
di libertà: la linea del giornale era che
avessero il diritto di scrivere e che la
sinistra non poteva comandare dappertutto,
eccetera. Lo trovai un po' duro da digerire,
ma lo feci: mica dicevo che ero d'accordo,
no?
E' continuata così per anni. Piano piano,
un passo dopo l'altro, mi son trovato a dire
cose che non penso, a difendere posizioni
che non condivido…certo, mi pagano bene.
Un mese fa ho avuto un dolore violento qui
al petto. Ero sudato, ghiaccio e terrorizzato:
come se un bulldozer mi fosse passato sopra.
E' durato una mezz'oretta, un periodo paurosamente
lungo sai? Ero sicuro che fosse un infarto.
Non lo era: una mezza pleurite, può fare
uno scherzo del genere mi han detto poi.
Ma ho visto la morte in faccia. E in quei
momenti sai, non è mica retorica che rivedi
la tua vita: è vero. E mi sono chiesto: ne
è valsa la pena? Un compromesso dopo l'altro,
un piccolo cedimento alla volta, mai un tradimento
vero, ma tanti piccoli e perfettamente giustificabili,
logici, normali…ne valeva la pena?
Ho capito che il sistema è terribile, perché
non ti propongono mai l'abiura. Mica ti torturano,
o ti ricattano: tutt'altro, ti sorridono,
sempre. Napoloni, lui, mica ha l'apparenza
del demonio: è buono lui, tanto buono. Sorride.
Solo che bisogna volergli bene. Bisogna credergli.
Bisogna adorarlo ecco, è questo che vuole:
essere adorato…E così finisce: che hai dato
via la tua anima, la tua coscienza, tutto
te stesso, per due quattrini, una casa e
una macchina. Ero colpevole, senza attenuanti:
mi ero venduto, per un pezzo di pane mi ero
venduto. Tanti piccoli sì, tanti piccoli
"in fondo non tocca a me": e a
me toccava invece, a chi altro sennò?
No che non ne valeva la pena, l'ho capito
benissimo. E allora basta; grazie, no. Ipocrisie,
falsità, balle, falsa coscienza: grazie,
no. Di vita ne ho una sola e il prezzo non
è mai troppo alto per comprarla: fate quello
che vi pare, io adesso sono tranquillo. E'
per questo che ho scritto quel pezzo.
Ma vedi, all'inizio di questa storia ho parlato
di due giovani studenti, pieni di ideali
e di voglia di giustizia: uno ero io Mario,
ma l'altro, lo sai, eri tu. Che ne hai fatto
di quello di allora, dì? Quanti compromessi,
dì? Quanti cedimenti, piccoli piccoli, come
le smagliature di una rete? Ma ad ogni strappo
si è pronti allo strappo successivo, finchè
è troppo tardi. Li hai visti no, i tuoi colleghi
onesti denigrati, attaccati, derisi e svillaneggiati
perché indagavano troppo: messi alla gogna,
perché erano onesti. Nel "Pinocchio"
di Collodi il giudice condanna il burattino
"proprio perché è innocente" e
questa ormai è la regola da noi: se sei furbo,
allora nessuno ti tocca: la giustizia è un
mezzo del potere per inchiodare chi dissente.
Tu lo sai, e adesso devi decidere. Bada,
mica devi decidere sul mio caso: non sono
io alla sbarra, sei tu. Calpesterai il diritto
e mi condannerai o sfiderai il regime?
Ecco, mi avevi chiesto perché, e io te l'ho
detto. Tu fai quel che vuoi, la cosa non
mi riguarda più: ma se decidi di giocare
ancora al loro gioco, di ignorare la verità
che non puoi non vedere, beh, chiediti almeno
se il prezzo è giusto. E vedrai che è sempre
troppo basso. Auguri vecchio mio.
Armellini si alzò, sempre sorridendo, si
girò e se ne andò: l'ultima visione che ebbe
del suo vecchio compagno di studi fu quella
di un uomo sbalordito, che fissava il vuoto.
Non sapeva cosa avrebbe fatto il giudice:
ma sapeva che quanto a sé, era un uomo sereno.
Finalmente.
Enrico Solito è nato a Roma nel 1954. Pediatra e neuropsichiatra
infantile, vive ed esercita la professione
in Toscana. E' membro di varie associazioni
scientifiche e dell'Associazione Sherlockiana
Italiana "Uno Studio in Holmes"
per la quale cura la rivista "The Strand
Magazine". L'Associazione ha anche un
sito internet, offertole dal Comune di Firenze. Ha scritto,
oltre a numerosi libri e articoli di carattere
medico, moltissimi racconti apocrifi con
Sherlock Holmes protagonista raccolti nei
seguenti volumi: "Uno Studio in Holmes
(Biblioteca del Vascello, 1995), "I
Casi proibiti di Sherlock Holmes" e
"Sette Misteri per Sherlock Holmes"
(Hobby & Work, 1998 e 2000) ed una enciclopedia
holmesiana insieme a Stefano Guerra "I
17 Scalini" (Bottega delle Meraviglie,
1998). Nel 1997, con il racconto "La
Sindrome di Caino" ha vinto il premio
letterario "Palazzo al Bosco".