"DARIO ARGENTO - TERRORE PROFONDO" contiene "OPERA" di Ivo Scanner (Newton & Compton Editori)
IL MUSEO
di IVO SCANNER
Bucarest. Muzeu de Istorie Naturala - Soseada
Kiseleff n.1
Sono stato assunto dal Museo di Storia Naturale
di Bucarest cinque anni fa. Ho riordinato
il vecchio archivio, che fu personalmente
impostato e curato da Grigore Antipa e da
sua moglie nel lontano 1894. Gli Antipa saranno
in eterno i veri padroni del Museo: le loro
ceneri sono custodite all'ingresso, dentro
urne d'argento collocate in un incavo del
muro.
In un'ala dell'edificio, grandi mobili di
legno contengono le schede di tutti i reperti
del Museo - i reperti esposti, ma anche quelli
accumulati nei magazzini.
Delle piccole chiavi aprono le ante dei mobili,
e danno accesso alle schede. Sono trecentomila
schede scritte a mano, con un antico inchiostro
nero. Le lettere, grazie all'ottima penna
imbevuta nel calamaio, e grazie all'ottima
mano del professor Antipa, sono artistiche,
finiscono in svolazzi, segnano il foglio
come un'opera d'arte. Ho cercato di imitare
la grafia di Antipa, ma invano.
Per cinque anni ho lavorato all'archivio,
collaborando nel frattempo con la direzione
del Museo per molte altre incombenze. Il
riordino delle teche, l'ausilio scientifico
nella sala di imbalsamazione, il restauro
di alcuni reperti.
Ogni anno arrivano una dozzina di animali
morti, che noi portiamo nel laboratorio.
Il nostro impagliatore li apre, con attenzione,
li svuota, li essicca. Poi decidiamo insieme
la postura che l'animale terrà per sempre,
sottovetro.
Anche l'ospedale centrale di Bucarest, talvolta,
ci invia qualche cosa da esporre. Ma in questo
caso sono più utili i vasi di vetro e la
formalina.
In un'altra sala, vicino alle grandi soffitte
dei padiglioni orientali, conserviamo queste
grosse fiale, su scaffali infiniti.
Dentro alle fiale e ai boccali, ben chiusi,
galleggiano meduse, serpenti, e anche frammenti
di uomo. Fegati o polmoni malati, lingue,
qualche feto, persino un nano.
Ormai molti liquidi sono gialli e il loro
contenuto, dopo essere impallidito nella
morte e nel bagno della formalina, ora con
il tempo si colora di arancione.
Nel centro della sala un tavolo di almeno
cent'anni ci aiuta a confezionare i boccali.
Il lavoro mi piace. Ho sempre adorato i musei
di storia naturale, fin dall'infanzia. Passeggiare
tra le bare trasparenti di tutte le creature
della Terra, bisonti e oranghi, avvoltoi
e cernie, cavallette e umani, mi ha dato
fin da bambino grandi piaceri.
Guardare questi esseri immoti, riempiti di
paglia o affogati nella formalina, mi faceva
riflettere sulla vita e la morte.
Gli occhi vitrei delle zebre, le suture sui
loro colli o sui ventri, erano il nesso con
la vita e la morte.
Ora, io vivo finalmente in un museo.
Ho passato alcuni anni nel Museo di Storia
Naturale di Genova, dopo la laurea, quando
ancora era abitato dai due coniugi tedeschi
che lo dirigevano.
Passeggiavo verso il mare, allora, e pensavo
alle creature dell'acqua, così difficili
da conservare in un museo. Bisogna ricoprirle
di lacca, renderle rigide, mentre la natura
le ha fatte guizzanti. I pesci sono la sconfitta
dell'imbalsamatore, sfuggono alla conservazione,
impediscono quella parvenza di vitalità che
i mammiferi consentono.
I pesci devono diventare come statue per
essere esposti, persino gli squali, di cui
il Museo di Genova non difettava, sembravano
di cartone. E anche la balena gigantesca
restava alla nostra ammirazione soltanto
per lo scheletro, e per il ciuffo di denti
ingialliti che riposavano in un grosso ed
ermetico bicchiere.
Solo gli insetti non mutano, dalla vita alla
morte, dal movimento all'immobilità nelle
nostre teche. Basta qualche pennellata di
conservante, uno spillo, e gli insetti restano
immutati per sempre.
Qui a Bucarest ho catalogato 82.000 esemplari
di farfalle, e quando ho finito questo lavoro
impossibile abbiamo stappato una bottiglia
di champagne con le inservienti del Museo.
Mi sono ubriacato, ma il liquido giallo della
bottiglia mi ricordava troppo la formaldeide
del primo piano, dove sono ospitati i reperti
delle creature superiori, le scimmie e gli
uomini. Ho vomitato tutta la notte, pensando
a quel liquido giallo.
Lavorare nel Museo è piacevole, catalogare
i reperti è appassionante. Ma c'è stato un
momento in cui ho avuto paura, in cui ho
desiderato fuggire da questo lavoro per sempre.
È stato quando gli insetti della teca 192
hanno emesso una sostanza strana.
Una sera, infatti, ho trovato che i coleotteri
della teca 192 spargevano sul supporto di
carta a quadretti, in cui erano infilzati,
un liquore marrone. Stillava dai loro corpi
sec-chi una incredibile poltiglia trasparente,
che si allar-gava sulla carta come una macchia
di unto.
Il fenomeno interessava tutti gli insetti
della teca, i Tenebrionidi che andavano dal
numero 2127 al 2139. Tra le fissure delle
loro corazze cartilaginose scivolava un umore
senza spiegazione.
Non ho avuto il coraggio di toccare quegli
insetti e di pulire le secrezioni. Forse,
pensai, si trattava di uno sbalzo di temperatura
che aveva sciolto la pellicola di conservante
con la quale erano stati ricoperti. Ma gli
esemplari della teca 192 erano stati preparati
ed esposti quarant'anni prima, e non era
accaduto mai nulla.
Stavo redigendo un promemoria sull'episodio
e continuavo a chiedermi come potesse aver
luogo un fenomeno simile. Dovetti alzarmi
dalla mia scrivania perché si udì un rumore
di vetri infranti provenire dal piano terreno,
e contemporaneamente fui percorso da un brivido,
che quasi mi diede vertigini.
Il Museo era chiuso al pubblico, a quell'ora,
e le luci erano state regolarmente spente.
Avevo una lampada a petrolio, azzurra e con
un piccolo specchio per riverberare la fiammella.
Scesi con la lampada di fronte a me e cercai
l'origine del rumore.
I vecchi leoni e le antiche pantere, sottratte
alle savane e alle foreste, mi guardavano
con globi oculari di vetro e le mandibole
fissate in un ruggito. Le zebre e gli gnu
attendevano inutilmente il foraggio, inconsapevoli
che tutto il loro corpo era adesso pieno
di fieno e di paglia.
Mi feci strada con la luce debole della fiammella
e percorsi le sale senza vita.
Nell'atrio, proprio di fronte al portone
d'ingresso, la grande bacheca delle scimmie
era a pezzi. Il tronco d'albero con i rami
posticci, su cui avevano posato le zampe
imbalsa-mate due grossi scimpanzé e uno scimmiotto,
era l'unica cosa rimasta: le grandi scimmie
non c'erano più.
A fianco, in un'altra bacheca, erano ancora
al loro posto i tre scheletri sistemati nella
stessa posizione immobile che avevano avuto
le tre scimmie sparite. C'erano lunghi peli
sul pavimento, sparsi.
Feci oscillare la fiamma in cerchio, per
avere una vista dell'atrio a ogni lato. Il
ladro, forse, era ancora nascosto, lì vicino.
Perché certamente era stato un ladro a introdursi
nel museo e ad infrangere la teca. Un ladro,
o più ladri, si erano impadroniti delle tre
scimmie.
Mi parve di vedere qualcosa a fianco del
piccolo chiosco di legno che funge da cassa,
dove si vendono sbiadite cartoline e opuscoli.
Sbagliavo, le scimmie non c'erano più. Mi
portai nel sotterraneo, dove un cunicolo
di pietra ricostruiva, per il pubblico del
Museo, l'aspetto di una grotta. La luce della
mia lampada toccava le guglie delle pietre,
diffondendo ombre.
Nessun ladro mi apparve. Nessun intruso era
entrato nel Museo.
Risalii al piano terreno, e mi accorsi subito
di un forte odore che appesantiva l'aria.
Non era l'odore consueto della formalina.
Era un odore di animale, odore di pelame,
di muscoli ferini tesi, di ghiandole in secrezione,
di fauci piene di saliva, di tana, di sterco
fumante. Odore di bestie.
Nel buio vidi una macchia luminosa spostarsi
rapidamente. Mi parve che fossero le anche
di un felino, in corsa.
Attesi fermo qualche segnale, un altro indizio.
Mi sembra-va di sentire, tra le teche fredde,
un respiro roco, quasi un ruggito. Spinsi
la luce contro la parete di vetro della bacheca
più vicina. Dentro, gli uccelli impagliati,
disposti sui rametti di un albero finto,
erano fermi come ogni giorno, fissi nelle
loro posizioni. Ma dietro all'albe-rello,
sull'altra parete di vetro, la fiamma mi
fece scor-gere qualcosa: un punto del vetro
era appannato, quasi che un fiato recentissimo
si fosse mosso lì accanto, un fiato caldo.
Per vedere meglio mi chinai, ma l'aura opaca
lasciata, forse, da un fiato stava scomparendo.
Si stemperava il punto appannato. Sul vetro,
ora non c'era più nulla di visibile.
Mi ero ingannato? Lo credetti, finché la
lampada non illuminò le vetrine infrante
dove si ergevano un tempo i cani selvatici
e, a fianco, un leopardo e una lince, dal
vello maculato. Adesso le vetrine erano vuote.
Di scatto mi precipitai verso il piano superiore,
ma riattraversando l'atrio urtai con la spalla
le urne dei coniugi Antipa. Sul pavimento
di marmo si diffusero le ceneri, mentre le
urne rotolavano sonanti verso il buio.
Inciampai sui gradini, poi mi ripresi e arrivai
al primo piano. Subito persi di nuovo l'equilibrio,
perché le scarpe mi slittavano su un liquido
disperso. Molti boccali della sezione dedicata
ai reperti umani erano in pezzi. Mi accucciai
per illuminare quei resti.
Si sentiva un rumore strano, come se qualcosa
strisciasse, o fosse trascinato, sul pavimento
bagnato. Orientai meglio la fiamma.
Non credo mi si possa rimproverare, per aver
perso i sensi in quel momento. Nessuno, credo,
avrebbe resistito di fronte a ciò che vidi.
Una minuscola creatura, gialla e livida,
arrancava sul pavimento. La grossa testa
sobbalzava, mentre le manine facendo forza
spostavano in avanti il corpo.
Era un feto, con gli occhi stretti e il cordone
ombelicale sciolto. Uno dei feti conservati
in boccale.
Sentii un tremito più forte e mi accorsi
di cadere all'indietro.
Rimasi in ospedale per molti giorni, vicino
a molti letti e a molti feriti. Poi ritornai
al mio lavoro qui al Museo.
Tutti, al mio rientro, si congratularono
con me. Ero scampato al terremoto, alle terribili
scosse che devastarono la Romania il 4 marzo
1977. Il Museo era rimasto danneggiato. Alcune
vetrine erano state trovate distrutte. Pare
che i primi ad entrare nel Museo, tra la
confusione del disastro, avessero fatto razzia
di reperti, dato che qualche esemplare non
venne più ritrovato.
Ora il Museo è tornato come prima. Le scimmie
si mostrano nell'atrio, e le ceneri degli
Antipa sono chiuse di nuovo nelle loro urne.
Tutte le teche sono state riparate, e il
nostro Presidente Nicolae Ceausescu ha fatto
sostituire rapidamente gli animali spariti
con nuovi esemplari, offerti dai musei amici
di Londra e di Vienna.
Io ho ripreso la mia attività, scrupolosamente.
Una sola cosa è cambiata. Non mi sono più
accostato alla teca 192, dove i coleotteri
avevano espurgato un liquore marrone. Non
voglio vedere quegli insetti, né voglio sapere
se la carta su cui posano i Tenebrionidi
è ancora macchiata.
(INEDITO)
Ivo Scanner è autore di "Orrorismo" (Lucifero-Datanews,
1996) e dei due thriller fantapolitici "La
borsa di Togliatti" (Datanews, 1993)
e "Le mani del Che" (Datanews,
1996). Per Newton Compton ha scritto la "novelization"
del film di Dario Argento "Opera"
(Aa.Vv., "Terrore profondo", 1997).
Suoi racconti sono apparsi su "Il Giornale",
"Liberazione", "Futuro Europa",
"Il Piccolo" e in diverse antologie
tra le quali ricordiamo: "Italian Tabloid"
(L'AltraItalia), "Neo Noir" (Il MInotauro), "Giorni
Violenti" (Datanews), "Neo Noir
- deliziosi raccontini col morto","Cuore di Pulp" e "Bambini
Assassini" (Stampa Alternativa). E' stato tra i promotori del movimento neo-noir. Ha pubblicato inoltre una guida turistico-letteraria
a 007 (In viaggio con James Bond, Il Minotauro,
1997).
"LA BORSA DI TOGLIATTI" di Ivo Scanner (Datanews) |
"LE MANI DEL CHE" di Ivo Scanner (Datanews) |