Sacha Sacha Rosel ha una laurea summa cum laude in Lingue e Letterature Straniere Europee e una laurea magistrale in Lingue e Civiltà dell’Asia Orientale, specializzandosi rispettivamente in lingua inglese e in lingua cinese con due tesi a tematica letteraria di ispirazione femminista. Oltre ad aver partecipato a numerose antologie collettive di stampo horror, fantastico e/o noir, ha pubblicato una raccolta di poesie, Carne e Colore (Noubs, 2008), un romanzo horror di ispirazione cinese, Fiori nell’ombra (Demian, 2012) e un romanzo fantascientifico, La foresta delle idee (Demian, 2016), di cui è stato rieditato da poco un estratto, il racconto lungo Pandora, Ricordanza (Delos Digital, 2024). Ha inoltre all’attivo un romanzo in inglese, My heart is The Tempest (Vraeyda, 2021), il primo di una trilogia dark fantasy ispirata a La Tempesta di Shakespeare. Ha tradotto diversi romanzi dall’inglese all’italiano, fra i quali la trilogia Warcraft - la guerra degli antichi di Richard Knaak. Collabora con diverse riviste e portali quali Thriller Magazine.it (thrillermagazine.it), Libro Guerriero (libroguerriero) e Leggere Donna (leggeredonna.it). Il suo sito personale, prevalentemente in inglese, è lunadonna.net, comprendente anche una parte italiana che ospita contributi di artiste donne. Ha inoltre un blog personale in inglese (sacharosel.substack), dove scrive le sue impressioni sulla scrittura e recensioni di libri.
La foresta delle idee (Demian, 2016)
My heart is The Tempest (Vraeyda, 2021)
La scrittura per me è poesia, perchè è la
formula dalla quale sono partita, nel 1993. Ponendosi come contatto diretto con i
limiti della pagina, la poesia si realizza per me in primo luogo come corpo a corpo
con il bianco-barriera del foglio - che si frappone tra il sé e il nulla - e insieme come
tentativo di raggiungere il vuoto, l'essenza mistica del cosmo. La poesia è tirannia
azzurra che sfiora continuamente l'assoluto, senza riuscire a toccarlo; ma finché le
parole sapranno aprirsi un varco, o essere esse stesse varco verso l'ignoto, allora
varrà la pena tentare, e continuare a lanciare i propri dadi, come suggerì Mallarmé
nella sua poesia più disperata e pura, Un coup de dés jamais n'abolira le hasard.
TEMI PREDILETTI
Amo molto la simmetria. Credo che sia il
tema principale della mia scrittura. Penso
che nei rapporti tra persone, si cerchi soprattutto
un elemento di contatto che possa far sentire
simili tra loro gli individui che s'incontrano.
La simmetria diventa dunque spia della ricerca
di sé che ognuno di noi fa con sé stesso/a:
capirsi attraverso l'altro/a, vedersi nell'altro/a,
o vedere l'altro/a in noi e capirlo/a in
noi.
Altro obiettivo della mia scrittura è l'esplorazione
di ciò che chiamerei il "femminile",
perchè non so chiamarlo altrimenti. Femminile
è per me tutto ciò che tenta di scardinare
il sistema attraverso una ruvidità di fondo
e una continua ricerca di rinnovamento nell'analisi
del reale. Femminile è considerarsi processo
e mutazione continua rispetto alla cultura
dominante. Ciò comporta andare al di là delle
categorie, che cercano di imporre una visione
univoca, rigida e statica delle cose.
A Ping
Ricominciamo, pensò Lidia. È necessario ricominciare
in qualsiasi modo, non importa quale: andrà
bene comunque. Si voltò dal lato del suo
finestrino: alberi rossi e carnosi le scorrevano
davanti come sezioni di immagini-lampo, negativi
appesi ad asciugare in attesa dello sviluppo.
Cercare di dimenticare l'idea delle nostre
vite come territori della conservazione,
urne dove porre le ceneri di un'identità
mai posseduta. È quello che faremo, io e
Ian. Lo stiamo già facendo.
Lo conosceva da poco, Ian. Non sapeva neanche
il suo cognome, né cosa facesse nella vita.
Poco male, si era detta, sono particolari
che ho sempre detestato. Hanno il potere
di diventare delle categorie di giudizio,
e dare giudizi è un'attività da stronzi.
Conoscenza a partire da un solo, breve gesto.
Così era stato tra loro: poggiando gli occhiali
sul tavolo, lui aveva sfiorato le dita di
lei. Era bastato ad entrambi per risalire
la corrente insieme, e giocarsi a testa o
croce la destinazione da percorrere.
Il treno procedeva i suoi passi lenti e regolari,
proiettandoli in una dimensione ignota che
aveva il sapore della verità e dell'innocenza,
molto più di quanto l'una o l'altro credesse.
Mesi di nausea. Mesi senza sazietà e senza
fame, Ian continuava a ripetere a se stesso.
Non un libro da vivere, non una persona da
sondare, non una pelle da toccare. Sudore
inutile, senza febbre e senza idee. Non so
cosa scrivere. Non so scrivere. Ma lei, tu,
Lidia, tu mi aiuterai.
La guardò avidamente ad occhi spalancati,
e lei istintivamente sentì il suo sguardo
e volle tenerlo, conservarlo per sé. Piantò
i suoi febbrili fari azzurri contro di lui,
quasi a voler perforare la polpa delle sue
pupille. Non un attimo di tregua, occhi costanti,
due con due, due contro due, e Lidia nel
mentre cercò affamata a tastoni un pezzo
di carta, solo uno, anche un orlo rosicchiato,
ma bianco, abbastanza chiaro per poterci
scrivere sopra. Come le zanne di un segugio,
come rasoi luccicanti che roteino all'orizzonte,
le sue dita frenetiche saettavano sul sedile,
guidate da uno sguardo di polpastrelli. Finalmente
la carne sentì il fruscìo della carta e,
gli occhi sempre costanti, il suo passar
via nel soffio dell'aria, in caduta libera
sul sedile di fronte.
Ian ora teneva quel pezzo di foglio tra le
mani, sottili e anemiche. Le fece cenno di
sì con la testa: aveva capito. Estrasse la
penna dalla tasca sinistra e scrisse sul
foglio. Non appena ebbe finito, lasciò che
Lidia leggesse ciò che in quel momento poteva
comunicarle.
Sto scappando da questa sensazione di dover
scrivere a tutti i costi. Rifuggo la scrittura
per raggiungere me. Sto male. Rincorro il
tempo, rincorro te, ma non pervengo a nulla.
Lidia sollevò la testa dalle lettere impresse
sul foglio. Sorrise. Ian fece lo stesso.
Lei allora cercò il suo blocco per appunti
nello zaino, lo trovò, prese la sua mano
destra fra le sue e vi lasciò scivolare con
forza la penna, per rispondergli.
Scrivere é solo una minima parte di me. La
scrittura é l'universo che ho ritagliato
dal resto del mondo per vivere, una zona
in cui io posso essere ciò che voglio e fare
ciò che voglio. Parlare.
Ian ha letto il messaggio. Ho letto. Leggo.
Sento i battiti del cuore disciogliersi nel
collo come ninfee tremanti nel verde di uno
stagno. Sono un fiore che stenta a dischiudersi.
Ma lei mi aprirà. Sta per aprirmi. Stupenda
fame di te, che sei l'oblìo e la speranza.
Lui legge, e Lidia rimane ferma, ad osservarlo.
Non posso fuggire la sete del tuo palmo,
Ian. Me, come un imbuto rovesciato, come
una forbice aperta che luccica nella trasparenza
di questo scompartimento. Percorro la tua
pelle con un semplice soffio del respiro
e dell'indice, e a poco a poco comincio a
scrivere al buio. Accanto a me, una pagina
viola rumoreggia e non sa emanare un vero
ricordo dei tuoi palpiti, ma soltanto la
loro ombra infedele. Scrivere al buio, più
in là di un romanzo. Senza romanzi con te.
Detesto i romanzi. La poesia permette una
maggiore fluidità, una maggiore dittatura
delle parole.
E allora non aspetta, non c'é più nulla da
aspettare, il treno sta per fermarsi, possiamo
scendere anche qui, anche prima che lui abbia
letto e capito tutto, allora Lidia strappa
un nuovo foglio dal blocco, la penna scorre,
dipinge, calca sulla superficie. Ed é lì,
nemmeno lui può più aspettare, si avvicina
per leggere, per scoprire il mistero delle
lettere che schizzano via dall'inchiostro,
per vederle direttamente nate, generate dall'inchiostro.
Scrivono insieme.
Che fremito sarebbe,
strappare le tue aperture con la siringa
della mia voce, dentellare l'ovale del tuo
volto con gli uncini delle mie ciglia. Allora
la mia incompletezza si sommerebbe alla tua,
e forse potremmo intravedere una fetta d'intero,
nell'orizzonte di fronte a noi.
I loro corpi sobbalzano più volte sui sedili.
La frenata del treno li ha colti di sorpresa,
ma riescono a riprendersi subito, si alzano,
lui aggiustandosi gli occhiali sul naso,
lei con il blocco sotto il braccio e lo zaino
sulla spalla. Niente bagagli.
Sono scesi. Dietro la stazione non c'è nulla,
solo un immenso prato incolto, gremito di
moscerini. I loro polsi s'incontrano, un
ultimo foglio scorre sul petto nudo di entrambi.
La sua mano premuta contro la sua impugna
la penna per scrivere, prima di dire addio
alla comunicazione grafica. Ecco giungere
la frase dell'amore, una risposta al di là
della precisione delle suture, le fiamme
cicatrizzanti che lasciano stampate sulla
pelle mappe di geroglifici mimetici, all'incrocio
dei corpi uniti:
Voglio incontrare il tuo dolore
per lasciarlo scorrere nel mio.
Uno sguardo gettato per caso su quel nome
che ricordi stampato sulle labbra di un'amica
lettrice; poi, sfogliando il volume, ecco
la folgorazione: ti getti sulle fiamme delle
parole per essere la carne del loro fuoco,
per assorbirne il dolore, quasi senza accorgertene.
Attraversi un territorio che sa di inaudito:
un amore il cui viaggio è la Notte, mangiatrice
e massacro, giungendo nel cuore della sua
paralisi, la Foresta, immobile e raggelante,
e queste due entità indemoniate ti appaiono
come esorcizzate dall'incrocio di due destini
- quelli di Robin e Nora, le due amanti -
e dalla fusione delle paure, dalla Morte
unione suprema, vera intermediaria tra le
identità. Questa fu, in sostanza, la prima
opinione che mi feci de "La Foresta
della Notte" (1936), magnifico romanzo
dell'americana Djuna Barnes: illimitata com'ero
nella fede nelle proprietà purificatrici
della morte, non potevo capire che noi "non
conosciamo la morte, non sappiamo quante
volte abbia saggiato il nostro spirito più
vitale" (pag. 109). A distanza di anni
da quella lettura in chiave romantico-adolescenziale,
il romanzo ora si rivela essere molto di
più che un semplice gioco di morte. La folgorazione
attraversa nuovamente la pelle, ma con movimento
più sottile e rilassato. Djuna, ora mi è
chiaro, non va assaporata con frenesia: le
grandi divoratrici di letteratura cedono,
costrette ad inchinarsi al cospetto della
sua bella scrittura, elegante e austera come
i cavalli, quelle fugaci creature che nomina
spesso nelle sue pagine. Credo che le trame
segrete di cui il libro è intessuto siano
da ricercare nelle tematiche del tempo e
del sangue. Il primo è il lungo filo dell'eternità
che si fa gioco della vita sul doppio asse
dei ricordi e delle assenze buie, "le
due metà convergenti di un destino spezzato"
che sarà quello degli/delle amanti, segmenti
di passato che si completano reciprocamente
nel futuro, mai nel presente. Nora e Robin,
i cui cognomi - Flood (inondazione) e Vote
(voto al cristianesimo mistico o vòte nel
senso di vuote/a?) - incitano alla fusione
continua fra opposti, ci appaiono come l'equivalente
umano di questo doppio asse: l'una è l'Albero
del Tempo, il fossile che conserva le parole
e i pensieri dell'amore per non rassegnarsi
alla libertà dell'amata e al proprio dolore;
l'altra è la Notte, la follia dell'identità
dimenticata, "l'errore imperdonabile
di non saper esistere" (pag. 107), una
bellezza tale "come se la scorza del
tempo le fosse stata tolta di dosso, e con
essa ogni transizione di conoscenza"
(pag. 144). Ma l'amore totale trasforma l'opposto
in consanguineo: colei che viene amata diventa
la nostra immagine e nella ricerca dei due
corpi che vorrebbero essere uno la morte
è allontanata, attraverso la potenza del
sangue. Quest'ultimo è, secondo me, un elemento
che campeggia prepotentemente nell'immaginario
dell'autrice: da subito viene evidenziato
"il peso di un sangue inammissibile",
che non si riferisce soltanto all'ebraismo
di Felix (marito abbandonato di Robin), ma
anche a ciò con il quale noi lettrici dobbiamo
fare i conti, nel nostro approccio a Djuna.
Un approccio mistico, proprio perchè tracciato
nel nome del sangue che è parto e odore ferroso,
principio di orrore ed eco della storia,
furia di possessione che fluisce nell'estuario
del corpo divino, l'essere collettivo che
è noi e fuori di noi. La donna è sangue,
sembrano sussurrarci le pagine, sollevandosi
dai loro geroglifici sotterranei, e quella
"qualità di orrore e di fato strettamente
imparentata con quella della tragedia elisabettiana",
che T.S. Eliot riconosceva al romanzo, ci
appare risplendere non soltanto della sua
crudeltà intellettuale e linguistica disseminata
sulla carta, ma anche di una luce supplementare
indisturbata, che è la linea rossa continua,
il filo della vita violenta e allegra che
segna il nostro cammino. Un filo di Arianna
che ritorna, in un viaggio a ritroso, sia
nella produzione narrativa giovanile raccolta
in "Fumo" (1919), racconti ripudiati
in età matura, che nella prova successiva,
"La Passione" (1929). Nella prima
raccolta, la copertina azzeccatissima rispecchia
chiaramente la predilezione cromatica dell'autrice:
donne dai capelli "terribilmente rossi"
(pag. 14), nomi emblematici (Tom Scarlet:
il sangue non è forse scarlatto?), luci rosse,
occhi "orlati di rosso" (pag. 155)
e di venuzze pullulano le pagine come trionfo
cromatico di quel "colore ostinato"
che continua a scorrere nelle vene, a volte
come fosse ferro, marziale e duro come una
corazza, implacabile come il destino dei
miserabili, a volte come fumo evanescente
e buffo, densa nuvola che si consuma nella
morte di una frivola sigaretta o di una sentenza.
"Voi, miei poveri amici, vagate per
il mondo come ombre. E noi dovremo ritrovare
i vostri corpi", dice uno dei personaggi
rinnegati da Djuna. Ma le sue parole suonano
come un'eco di un discorso ancora a venire,
quello di Matthew O'Connor, il dottore de
"La Foresta della Notte". I bellissimi
racconti del '29 celano anch'essi un gusto
aristocratico per il sangue, nonchè una propensione
più accentuata per le sentenze. Qui gli oggetti
inanimati e le bestie si tingono del colore
mistico più cupo, lasciando muovere gli esseri
umani nello spazio del desiderio, che non
deve più ammantarsi di rosso perchè ne è
imbevuto fin nelle radici. Ecco dunque personaggi
irrequieti, "come un racconto che non
ha principio nè fine, ed è solo passione,
come il bagliore di un fulmine" (pag.
46), le urla sanguinarie di amanti che non
hanno visto sangue e che tornano a vivere
attraverso la morte dell'amato, il bosco
che apre le sue fauci di sangue per eternare
il furore femminile, annientando il maschile.
Perchè i personaggi più violenti di vita
e forse per questo enigmatici sono proprio
quelli femminili, che torturano e comandano,
bruciano e risorgono nel liquido dell'orrore,
amore che si rovescia crudelmente sull'altro,
l'uomo piccolo e misero che non partecipa
al mistero del funereo. "Vede,"
afferma una donna al proprio amante, "c'è
chi beve il veleno, chi usa il coltello,
chi si annega. Io uso lei" (pag. 97):
con questa frase Djuna sembra ammettere di
soggiogare noi lettrici, intrappolate nel
suo mondo di distruzione che è la porta verso
la rigenerazione. Una scrittura così imperiosa
non ammette di essere ignorata: chi oserebbe
contraddirla?
Djuna Barnes, nata nel 1892 e morta nel 1982,
pubblicò poesie, articoli giornalistici e
di critica letteraria, testi teatrali e di
narrativa. Visse a Parigi negli anni Venti,
dove frequentò James Joyce e T.S. Eliot,
per poi tornare nella sua terra, gli Stati
Uniti, conducendovi una esistenza appartata.
Dei suoi tre testi fondamentali - "Nightwood",
"The Antiphon" e "Spillway"
- sono apparsi in Italia il primo, con il
titolo "La Foresta nella Notte"
(Lit. 12.000) e il terzo, chiamato "La
Passione" (Lit. 20.000), entrambi pubblicati
dalla Adelphi. Sono inoltre disponibili "Fumo"
(Lit. 18.000), Adelphi e "Anche le ragazze
tireranno di boxe" (Lit. 18.000), Novecento.
"Djuna Barnes": articolo apparso su "Leggere Donna" n. 71 novembre-dicembre 1997 |
Giovanna Iorio, specialista in Letteratura Irlandese Contemporanea e collaboratrice del Dipartimento di Italiano del Trinity College di Dublino, ci presenta questa bella polifonia di "otto voci femminili che si levano dal buio di una tradizione silenziosa", tradizione che le ha inghiottite nella legge del patriarcato. La ricerca della propria voce diventa dunque il territorio prescelto per la poesia femminile, il viaggio necessario da edificare sul silenzio. In Eavan Boland, la voce è tratto delicato che fluisce di fronte all'irta bellezza del biancospino, "the only language spoken in those parts" (la sola lingua tra quelle colline, White Hawthorn in the West of Ireland), è impronta dell'istante che, sospeso come falene e bucce intorno ad un frutto, matura in movimento dalla curva dell'abbraccio tra madre e figlio (This Moment); è verso che imbrunisce in immagini di morte, falene sottili come punte di spilli negli anni che passano tra gli spigoli del tempo, che restringe l'ombra (Moth), ed è forza che riscalda la lava del ricordo, trasformando la vita perduta della nonna da muta illusione a significato tangibile (Lava Cameo). Il timbro di Moya Cannon respira nell'epica, dove gli elementi marini e terrestri si fondono in celebrazione dell'energia vitale: dal remo, ala fatata che danza nella vita del mare (Oar), dai suoni che comunicano il cosmo alla "clay part of the heart" (la parte argillosa del cuore, Listening Clay), al richiamo selvaggio delle colline bagnate che "will come howling through my blood like wolves" (cominceranno ad ululare nel mio sangue come lupi, Hills). Finché la voce arriva ad ergersi prorompente invocando la gaelica lingua madre in una preghiera di salvezza, perché il mondo e le donne possano ritornare a conoscere il vero dolore che è fango e pietre, la vera gioia che è "throbbing, wandering earth" (terra vibrante e girovaga), perché possano riacquistare la forza di opporsi al presente sbiadito attraverso la lama compatta dei giorni perduti (Prodigal). Con Rita Ann Higgins, il tono assume forme dirette, quasi prepotenti: ecco l'urlo della protesta, il lamento duro e necessario della donna del popolo che denuncia il suo sentirsi sottovalutata e sola, il suo essere "no class" (senza classe, Some People), la trascuratezza con cui gli altri si avvicinano alla sua realtà. Una voce furiosa e affamata di giustizia, un solco di dolore e concretezza come "acres in old women's eyes" (gli acri negli occhi delle donne vecchie, The Long Ward). Medbh McGuckian è forse, più di ogni altra, tessitrice del filo della consapevolezza evocativa. In lei, la voce è metapoesia, "questioning the underlying clearness of a cloud" (interrogare la velata trasparenza di una nuvola, The Colouring Book), arte che riflette su se stessa e sui propri spazi, dando vita ad un mirabile dialogo tra autrice e vuoto, nell'arcata bianca che intercorre tra una creazione e l'altra - "The interval between my poems is like the light between seasons, or the darkness a mountain is filled with" (l'intervallo tra le mie poesie è come la luce tra le stagioni o l'oscurità che riempie un monte) - annotando tra i versi evanescenti e tangibili una metafora sul proprio modo di vivere l'ossessione che la tiene uncinata all'arte delle parole: "Every hour the voices of nouns wind me up from their scattered rooms, where they sit for years, unable to meet, like pearls that have lost their clasp" (ogni ora le voci dei nomi mi avvolgono, salendo dalle loro stanze sparse, dove se ne stanno da anni, incapaci di trovarsi come perle che hanno perso il gancio, A Dream in Three Colours). Poesia che ritorna come grido di appartenenza, come voce del destino, in Paula Meehan, che nel cogliere il seno della statua di Venere, freddo e pesante "like an apple" (come una mela, Fruit) sembra voler accennare alla difficoltà di saper "cogliere" lo spirito della poesia, che come il vento e l'acqua è richiamo fertile "of song whorling within" (di canto che si leva in un vortice dentro, Night Prayer), soffio vitale da tramandare di madre in figlia per cancellare la ferita del silenzio, per riemergere sulla superficie dell'acqua finalmente voce, mai più "unwritten, silent, mute" (una pagina bianca, silenziosa, muta, The Wounded Child). Voce che è curva di luce in Eiléan NÍ Chuilleanáin la poeta più concreta nelle descrizioni, più vicina ai contorni del reale, come i bordi sulla macchinetta del caffè, una scatola di metallo di luce che dà la misura delle cose pur trasformandole. Forse perché non c'è vita senza luce e non c'è vita (e dunque poesia) senza trasformazione (London). Nuala Ní Dhomhnaill è la voce del ritorno per eccellenza, essendo l'unica, tra le autrici qui raccolte, a comporre in gaelico. Ed è ritorno che si configura come viaggio parallelo verso le stanze acquatiche e luminose della morte, a cui affidare le membra ormai stanche della madre (Madame), e verso la poesia, vera speranza d'acqua che, essendo "little boat of language" (piccola imbarcazione del linguaggio, The Language Issue) protegge e spinge ad esplorare l'universo imprevedibile ed immenso della creatività. L'antologia si chiude con la voce maestosa e fiera di Mary O'Malley, il cui canto selvaggio rivendica il riscatto dalla condizione di territorio inesplorato, proprio delle donne alle quali il potere della parola è stato privato per troppo tempo (Cornered). Tra le falde di questa voce risuona il passato, il sangue che ritorna nel sogno matrilineare in "waves of whispering women" che "clamour to be heard" (onde di sussurranti donne che si infrangono con clamore per farsi udire, Weakness). Ed è con la rottura del silenzio, con "the thread of my grandmother's voice" che guida "through a labyrinth of syllables" (il filo di voce di mia nonna che mi guida attraverso il labirinto di sillabe), che la donna debole rientra nella sua dimensione fertile, quella luce che le permette di annodare le voci del tempo ai versi che si distendono sulla pagina. Voce che diventa fusione totale con l'acqua: "and my own deep song merged with a surge in the blood" (e il mio canto profondo si fuse all'onda, nel sangue, Canto Jundo), visione di uno spirito indomito di donna che invoca la morte, in un nuovo corpo a corpo sonoro con il mare. S'ode il respiro unico della settima onda - l'onda del non ritorno - e della donna che brama a sentirsi trasportata nella tempesta e colta dal soffio di morte dentro l'attimo fermo del respiro, "poised to whisper a name, a plea, a floating incantation" (pronta a sussurrare un nome, una supplica, un fluttuante incantesimo, Prayer). Pronta a celebrare la lingua in un trionfo tagliente e liquido di sillabe.
"Dopo lungo Silenzio": articolo apparso su "Leggere Donna" n. 74 maggio-giugno 1998 |
Mentre nel Diario di una schizofrenica (vedi
numero due, anno due di Virus) si partiva
dalla follia per approdare ad un'identità
rinnovata, ne La merlettaia (1977) di Claude
Goretta, la follia è il punto d'arrivo. In
realtà, tale tematica, condensata nell'ultima
mezz'ora dell'opera, viene marginalizzata
rispetto all'esperienza amorosa con François
della protagonista Pomme. Ciò a cui assistiamo
è la messa in scena del silenzio, un dramma
tutto interiore che quasi richiama alla mente
l'espressione che Carlo Bo usò a proposito
della poesia di Sainte-Beuve: una poesia
sottovoce. Le emozioni di Pomme rimangono
fino alla fine inespresse o soltanto vagamente
percettibili dietro uno sguardo svuotato
della sua vitalità a causa della rottura
con François e della sua incomunicabilità.
Non ci troviamo di fronte ad un capolavoro:
tutt'altro. Il film è quasi asettico nella
sua immobilità, eppure riesce a colpire per
la sua linearità basata sul non detto. Soprattutto,
ad emergere è l'attenzione focalizzata su
Pomme come segno nascosto. Durante la visione
dell'opera, infatti, la protagonista ci appare
non-significante, muta, invisibile, quasi
dà ai nervi per la sua mancanza di conoscenza
(per parafrasare le parole dette da François).
Ma la chiave d'accesso al suo mondo alla
fine arriva, in un suggerimento scritto del
regista: "Elle ètait de ces âmes qui
ne font aucun signe, mais qu'il faut patiemment
interroger, sur lesquelles il faut savoir
poser le regard. Un peintre en aurait fait
autre fois le sujet d'un tableau de genre.
Elle aurait été porteuse d'eau ou dentellière*".
Ecco l'illuminazione: restituire allo sguardo
meticoloso il suo valore preminente. Nessun
ansia d'ingerire immagini dall'occhio, ma
una lenta assimilazione delle stesse nell'occhio.
E, ovviamente, il tema della pittura di genere
ci ricorda i Paesi Bassi e Vermeer. Tra i
suoi 26 quadri, ritroviamo La merlettaia,
da cui il film prende il titolo. "Le
opere di Vermeer comunicano un senso di attesa
che qualcosa si verifichi, un evento latente
dietro la quiete apparente; per comprenderlo
bisogna considerare il carattere allusivo
del suo realismo" (Vermeer, S. Danesi
Squarzina, Art Dossier n.45, Giunti). I personaggi
più umili vengono da lui immessi nella pittura
non per registrarne la meticolosità dei gesti
dunque, nè per celebrare ciò che avviene
ogni giorno nell'Olanda ricca e trionfante,
bensì per suggerire l'inquietudine dietro
la calma. Tornando a Pomme, assunta come
oggetto di una pittura di genere per la sua
naïveté, per i suoi gesti meticolosi e per
la sua attitudine da serva umile, e proprio
nel suo sguardo che possiamo spesso cogliere
la perplessità e il dolore. Quello stesso
sguardo che si volge in chiusura verso noi
spettatori inquietante e ormai preda della
follia, forse in cerca di aiuto, o derisorio,
che ritroviamo anche nel Ritratto di fanciulla,
quadro vermeeriano contenuto nel Metropolitan
di N.Y., che abbaglia con il suo fascino
il broker di All the Vermeers in New York
(1990) di Jon Jost. Sguardo che è anche,
come dice Barthes, il numen della pittura
fiamminga, in contrasto con il numen antico
(il gesto divino, che ritroviamo ne La creazione
di Adamo di Michelangelo. "C'est le
regarde qui est numen ici, c'est lui qui
trouble**", ma che ci fa paradossalmente
esistere. E se il numen in Barthes è sguardo
collettivo concesso allo spettatore dalla
classe patrizia, allora gli occhi di Pomme,
prima di introdurci all'esistenza, sono lì
per chiederci di vedere la loro esistenza
e di non ignorare la loro "padrona"
come intelligenza e come fisicità. Tale fisicità
assume per un attimo un valore molto importante
nell'unica scena del film veramente significativa:
François è di spalle, vestito; accostato
alla finestra, sta osservando qualcosa. Pomme,
anche lei di spalle ma nuda, gli si avvicina.
Le loro braccia si sfiorano dietro le schiene,
le mani toccano la vita dell'altro/a. Ma
François non vuole distrarsi dalla sua osservazione:
ritira subito il braccio, e Pomme con lentezza
e rassegnazione fa altrettanto, tornando
a letto. Nel silenzio di questi gesti, i
due corpi diventano protagonisti, lasciando
emergere il contrasto totale tra i personaggi.
I vestiti di François simboleggiano la sua
cultura, pesante involucro di cui si riveste
e che lo acceca di fronte alla realtà di
Pomme, che non accetta e che vorrebbe cambiare
finchè non combaci con la propria, per il
gusto perverso di avere il proprio clone
accanto a sè. La nudità di Pomme è invece
segno della sua trasparenza e semplicità,
che si offre allo sguardo attento di chi
la sa capire. Ecco dunque nuovamente lo sguardo,
che per essere vero deve scrollarsi di dosso
ogni presunzione per rendersi finalmente
nudo e ricettivo nel cogliere la vita che
è dentro le persone che lo circondano. Esercitare
l'occhio, acquistare la nudità dello sguardo:
è questo il messaggio quasi ascetico che
il film ci lascia (la visione di un film
non è forse un'esperienza ascetica?), permettendoci
di recuperare la distensione delicata e contemplativa
della visione, laddove molto cinema frenetico
e cannibale vuole rubarci il gusto di una
fruizione meditativa. E infine, l'opera può
segretamente essere d'insegnamento per quelle
donne che, rassegnate nel mutismo, ancora
s'illudono di poter dare un senso alla propria
esistenza tramite l'altro, l'uomo, per capire
che spetta soltanto a loro stesse di agire
per la loro personale e collettiva rigenerazione.
*Ella era una di quelle anime che non danno
alcun segno ma che bisogna pazientemente
interrogare, sulle quali bisogna saper posare
lo sguardo. Un pittore, in un'altra epoca
ne avrebbe fatto il soggetto di un quadro
di genere. Ella sarebbe stata portatrice
d'acqua o merlettaia. **È lo sguardo che
è numen qui, e lui a inquietarci.
Sacha Rosel
"Lo Sguardo nudo": articolo apparso su "Virus" Anno II n. 5 1997 |