"TOSCANA - delitti e misteri" a cura di Graziano Braschi - (Carlo Zella Editore)
contiene un racconto di Claudio Pellegrini

Il racconto che pubblichiamo è parte di un romanzo ancora inedito di Claudio Pellegrini "Le fontane dell'abisso" ed è stato pubblicato con il titolo "Sollevami la gonna no?!" su "Bambini Assassini" (Stampa Alternativa) mancante di 5 capitoli. Qui appare per la prima volta in versione integrale.
(i pinguini nel sottoscala)


BUSH DOCTOR
di CLAUDIO PELLEGRINI



CAPITOLO ZERO


... fu come una vibrazione, cupa e profonda (sotterranea). E d'un tratto le luci della città si spensero. La notte schiantò sul mare.
In un silenzio sconvolgente.
In un nulla oscuro e senza appello.
Poi si accese una luce. Laggiù, piccola. Poi due. Poi tre, quattro, sei, trenta... poi il Quartiere Latino, poi lo Zen, Marianopoli e Costa Alta, i Magazzini del Cotone e Le Saline, la Polveriera Zighermann e Le Cave, Marmorito e La Pietà... infine San Sebastiano. La città risplendeva nuovamente, alta sulle onde, maestosa nelle sue torri, tormentata nelle sue ciminiere, opulenta nei suoi lungomare, ardita sulle geometrie frangenti dei suoi moli.
E il mare era uno sfolgorio di luci.
E tutto sembrò come prima.

Nessuno si accorse che la città stava iniziando a naufragare.
Lentamente.
Inesorabilmente.

Era un giorno di maggio.
Ma non uno dei tanti.


CAPITOLO PRIMO

<<Vorrei parlare con il signor Ebdòmero>>. Di prima mattina una telefonata. E mi dava del "lei" e mi appellava "signore". Mh, niente di buono. Non era del mio ambiente. E di sicuro non aveva soldi, me lo sentivo a pelle. <<Chi le ha dato il mio nome? E questo numero?>> <<Ecco... da voci... sì, da voci... è stato una specie di passa parola... ha presente?>> Certo che avevo presente, le notizie sbagliate viaggiano sempre sul passa parola. Conveniva precisare subito: <<Precisiamo subito, io sono abbastanza caro, insomma costo abbastanza. Avete abbastanza grana?>> <<Grana?>> <<Avete soldi?>> <<Ecco... credo che varrebbe la pena di parlarne di persona... sa, è una cosa un po' delicata... ma pagheremo, stia tranquillo, basterà mettersi un po' d'accordo...>> Lasciamo perdere <<Vabbé, lasciamo perdere. Comunque non posso far nulla perché sono già impegnato, molto impegnato>>. Pizzicai un capezzolo a Minù, che si mosse facendo un piccolo mugolìo. <<Ma, signor Ebdòmero, noi... abbiamo bisogno di lei, del suo aiuto...>> Ascoltare quel tizio al telefono era peggio che leggere un libro di Céline, tutto pieno di punti di sospensione. Aveva le idee poco chiare così cercai di aiutarlo: <<Una mano ve la do... ma non sono mica il solo a fare questo mestiere. Ecco, chiami... dove ho messo il numero? ... Dove... e smetti di succhiarmi l'alluce... no, non dicevo a lei... ecco! Prenda nota, si chiama Mr&Popper, vanno forte in città, davvero...>>


CAPITOLO SECONDO

<<Mr&Popper?>> <<Sono me>>. <<Ah! Ma lei chi è Mr o Popper?>> <<Io sono Popper, ora le passo Mr>>.
<<Hallo?>> <<Pronto il signor Mr?>> <<In persona, con chi ho il piacere di parlare?>> <<Non qui al telefono, non qui… sa, è una questione un po' delicata. Forse il signor Ebdòmero… insomma le ha anticipato questa mia telefonata>>. <<No, per niente. Comunque, se vuole vediamoci>>.


CAPITOLO TERZO

Si videro e l'uomo che aveva chiamato al telefono disse: << Mi aspettavo di meglio>>.
<<Cosa ti aspettavi, eh?>> Urlò Popper avanzando, ma Mr lo trattenne per una mano dicendo: <<Ha ragione. Ma vedi come ti presenti?>> Popper fece un passo indietro come per guardarsi i piedi. E l'uomo della telefonata guardò Mr&Popper. C'era uno, lì, davanti a lui, che avrà avuto poco meno di trent'anni, più lungo che alto, capelli fosforescenti (rosa-fucsia sotto e verde chiaro sopra) e la pelle d'un candore marmoreo. Vestiva con giacca e pantaloni neri, camicia bianca e cravatta anch'essa nera. Dalla manica sinistra del giovane spuntava un ranocchio di pelouche verde con una gran bocca rossa. Ecco Mr&Popper: il ranocchio simbiotico con l'uomo, l'anello mancante fra l'uomo ed il batrace, l'astuzia del cacciatore d'insetti infilata nella mano dell'ultimo singulto dell'homo sapiens oppure un ventriloquo fuori di testa.
<<Oh, Madonna santa...>> sospirò l'uomo del telefono dopo aver dato una seconda occhiata all'investigatore (o gli investigatori?) che voleva assoldare.
<<Perché - riprese Popper - come mi presento? Ho un bel completo, sobrio e che m'è costato pure un pacco di soldi...>> <<Che hai pagato un sacco di soldi, vorrai dire.- precisò Mr- Non so se ad altri... lasciamo perdere, comunque il vestito non c'entra. Ma ti sei guardato? Sei secco rifinito, pallido e poi, siamo sinceri, quei capelli... ma chi vuoi che ti prenda sul serio?>> << Ah! I miei capelli! E te allora? Un ranocchio di pelouche che parla dalla mia mano. Per te questo sarebbe presentarsi perbene?>> <<Oh, Madonna santa...>> sospirò ancora l'uomo (che si chiamava Eka).


CAPITOLO QUARTO

<<Scusi, ci andiamo a lavare la mano>>, avevano detto Mr&Popper dirigendosi verso il bagno. E lasciando Eka solo. Costui, per sedare l'ansia da ingaggio e la noia di una attesa, si era messo a guardare la stanza. Ma fece presto, perché c'era ben poco su cui fermare lo sguardo o l'interesse. Un tavolo in fòrmica più da rigattiere che da modernariato, due poltrone (diverse) in velluto liso, il calendario di un ristorante cinese (anche "a portar via" e pizzeria, aperto tutti i giorni), una macchina da scrivere poggiata su una sedia ed un baule con macchine fotografiche, cineprese e cavi vari, che sembravano più il bottino di un furto ad un negozio di ottica che un'attrezzatura da lavoro. La stanza era piccola, umile, ma disordinata. L'uomo si sedette su una delle poltrone ed allungò le gambe, rassegnato. Appese lo sguardo alla porta del bagno ed attese. Dietro a quella porta chiusa Mr&Popper stavano confabulando. << Un altro incarico da due lire!>> Strillozzò Popper. Mr cercò di mordergli il naso << Abbassa la voce, testa a neon, che quello ti sente e poi se ne va. Non abbiamo poi così tanto lavoro da poter selezionare la clientela. Meglio di niente…>> << E poi non ho capito perché ci voglia prendere per il culo>>. << Lo sai, il cliente non dice mai la verità. Per principio>>. << Sì, ma quando il cliente rappresenta anche altri, ti senti anche più preso pel culo. E poi noi che dovremmo fare? Anche su questo è stato fumoso. Dovremmo andare a scoprire se è vero che un vecchietto s'inchiappetta i loro bimbetti?>>. <<E' un lavoro per noi>>. <<Va bene, ma il fatto che Mastino, da quello sbirro rabbioso qual è, non abbia voluto dare ascolto a quei quattro fessacchiotti mi lascia perplesso>>. << Anche a me, poi scopriremo anche la ragione. Tanto non abbiamo niente di meglio da fare…>> << Almeno riuscissimo ad andarcene da questa merda di città che affonda…>> sospirò Popper. Poi si appoggiò alla finestrella accanto al cesso e lasciò che lo sguardo spaziasse fra le antenne, oltre le antenne, verso la cattedrale, oltre la cattedrale, verso le scaglie di luce del mare (così indifferente alla loro prigionia), oltre il mare, là dove l'orizzonte sfumava nella speranza. Infine sorrise, carezzò la testa al ranocchio e <<Andiamo socio, c'è da lavorare>>, disse.


CAPITOLO QUINTO

<<Perché... lei non viene?>> <<No, mi dispiace signor Eka. Non si offenda, ma vede io ed il mio socio Popper, siamo come Nero Wolfe ed Archie Goodwin, ha presente?>> <<Veramente no>>. <<Vabbé, io non mi muovo mai di casa, chi si muove è Popper. Insomma io sono la mente e lui è il braccio>>. <<Oh Madonna Santa>>. Sospirò ancora l'uomo.


CAPITOLO SESTO

Più che nuvole sembrava un cielo con la vitiligine. Un principio di tramonto rosa-porco infestato da irregolari macchie bianche (vaste o punteggiate), in grado di suscitare più diffidenza che fascinazione. Ma nessuno, a Marianopoli, pareva accorgersene. Forse non interessava più di tanto. L'attenzione, per tutti, era sempre spostata terra terra, più o meno ad altezza d'uomo. Perché erano gli uomini il problema. Sul passato, le loro case cioè, avevano ormai espresso rassegnazione. Tirate su in un furore speculativo, cementate nell'abusivismo, erano un groviglio incoerente di finestre ed antenne, impilate con l'istintiva convinzione che, chi ha pochi soldi, debba necessariamente soffrire. Il che, per un paese cattolicheggiante, non era male. Quel cemento scadente, quei mattonacci da due lire, quell'esaltazione di un nulla morale, quell'asfalto instabile, quel ribollire di automobili ed immondizia, quello stagnare di anidride solforosa e sguardi tristi, quella mancanza di luce, quell'affollarsi impastato di necessità e noia pareva aver infettato chi c'abitava, incarognendolo. A Marianopoli si andava per necessità, altrimenti non c'era ragione. Popper, invece, lo faceva per lavoro. E questo gli rendeva leggero essere lì. Eka era sempre più agitato. <<Mi stia lontano, mi stia lontano. Faccia finta di non conoscermi!>> La voce era incrinata da un principio di attacco isterico. Quando l'ometto tirò fuori dalla tasca un giornale e lo spiegò facendo finta di leggerlo, allora Popper disse <<Oh, Madonna Santa!>>. E si sedette su un angolo di una panchina semidivelta.


CAPITOLO SETTIMO

<< E' quello lì. È quello lì! >> Bisbigliò Eka. Quando Popper si girò l'ometto era già scomparso. Ma non il vecchio che gli era stato indicato. Quello se ne stava beatamente camminando verso una piazzetta dove al centro era rimasto infisso lo scheletro di un platano (ignudo, scortecciato, annerito, pisciato, ribubbolonante di funghi del legno, scavato dal marciume, scagazzato da corvi e piccioni). Su un lato c'era un bar, miserrimo. Forse vedendo in lui un novello Mosé suburbano la piccola folla si aprì al passaggio del vecchio (tutti senza girarsi, come per caso), lasciando libero un corridoio dalla porta al bancone. Mummiette di ciambelle e cornetti stinti cercavano di tentare più la pietà che la gola. Il cameriere si inchinò ossequioso ad un ordine non espresso e si fiondò a preparare un caffè dietro la macchina cromata. Il vecchio con il mignolo alzato, guardandosi un po' in giro, ghignando. Poi poggiò la tazzina ed uscì, senza girarsi. Senza pagare. La piccola folla si richiuse al suo passaggio, con indifferenza. Tutto tornò come prima. Nessuno guardò nessuno, le chiacchere continuarono serene. False.
Era un tortello d'ometto, tondetto, spostato in avanti di pancia, bassotto e calvo, piccoli occhi, piccola bocca e piccolo naso. Manuccine candide, grosso anello d'oro con una pietra che lanciava riverberi di luce dappertutto. Certamente la sua non-altezza doveva avergli fatto fermentare l'anima in una rivalsa crudele, in un incarognimento espansivo. La felpa grigia e blu che portava lo faceva sembrare anche più basso. Sembrava che stesse passeggiando per casa, se non fosse stato per i mocassini marroni di morbido capretto. Quello era il suo territorio, lo si capiva. E lui voleva che si capisse. Un vigile urbano uscì da un pizzeria con una teglia di pizza estorta. Si trovò davanti il vecchio, si fermò e, con una mezza riverenza, gliela porse. L'uomo rise, ne sbocconcellò un pezzo filamentoso con le mani e se la cacciò in bocca. Con l'altra mano fece un "vai, vai" al vigile (che si inchinò di nuovo e andò verso la macchina dove lo aspettavano due suoi colleghi). L'ometto si pulì la mano sulla felpa e continuò il suo passeggiare. Il pizzaiolo fece finta di sorridere.


CAPITOLO OTTAVO

<< E poi?>> Chiese Mr continuando a guardare la sua collezione di kiccerie (tutte riunite, oltre la porta bianca, in una strana stanza, stretta e lunga, incastrata nella facciata di una chiesa inglobata da una antica speculazione. In tutte le bifore, gli archi, le nicchie e gli anfratti era collocata la collezione di Mr. L'ultimo acquisto era una gondola in plastica, con decori dorati e sparpagliati, gondoliere-bambolotto e luci colorate - come quelle dell'albero di Natale- per contorno. La gondola poggiava sulla valva di una conchiglia. Un vero capolavoro). << E poi ha bighellonato per tutto il quartiere, fino all'ora di pranzo. Indi…>> << Indi?>> << INDI se ne è andato verso una via sbarrata da una cancellata. Ai lati di quella via c'erano telecamere a circuito chiuso>>. << Ah!>> <<Di lì non passava nessuno. C'erano due tizi che mi hanno detto che era meglio che passassi da un'altra parte>>. <<Erano armati?>> << Si comportavano come se lo fossero>>. << Erano gli Amanita?>> <<Visto il luogo, direi proprio di sì>>. << Ci stiamo infilando in una brutta storia>>. << Sì, proprio brutta>>. La stanza ebbe una vibrazione. La lampadina appesa al lunghissimo filo che scendeva oscillò sopra loro, quasi a ricordargli il loro futuro. Nessuno, giù nella strada pareva farci caso. << Pensi che dovremmo trovare delle scatole per la tua collezione?>> Chiese Popper. Mr scosse la testa verde, aprì la bocca, come ridendo: << No, non serve. Questa città non affonderà. La merda rimane sempre a galla>>.


CAPITOLO NONO

Visto dall'alto pareva una memoria di natura incistita fra i palazzi della città. Quello era il parco di Marianopoli. In origine era stata una pineta, poi una pineta accerchiata dalle periferia, poi risucchiata, masticata e rivomitata in forma di ricordo vegetale. Gli alberi erano stati tostati dal fuoco di continui incendi. L'erba riarsa e soffocata da calcinacci, fazzoletti accartocciati, preservativi, cacate, siringhe, squartamenti di auto, cani in branco, ragazzi in branco, puttane nigeriane stravaccate su divani sfondati e vicini a tutto ciò che la notte aveva abbandonato durante i suoi misfatti. E c'era un muro di cemento (che dal nulla partiva e nel nulla finiva) buono solo per pisciare e per scriverci sopra. E lì sopra, cavaliere dell'inutilità, sedeva Popper guardando e riguardando tutto ciò che intorno a lui accadeva.


CAPITOLO DECIMO

Questa volta il vecchio indossava una nuova tuta da ginnastica, di Valentino. Anche i mocassini erano nuovi. L'anello no, quello era sempre lì a riverberare nello sguardo altrui. E sorrideva sornione, il tortellino d'uomo. Era arrivato su di un'auto, un Mercedes scoperto, giallo banana. Si era fermato vicino alla pineta e si era messo lì come ad aspettare. Come elfi apparvero da dietro i tronchi scortecciati due ragazzini, una piccola lei ed un biondino lui. Avranno avuto dieci anni. Si somigliavano. E molto. Arrivarono allo sportello dell'auto e parlarono con il vecchio. Lui ridacchiando, li fece girare su se stessi. Annuì con la testa. Infilò un dito in bocca alla bimba e disse qualcosa. Lei allargò la bocca, succhiando, ed il maschietto iniziò a leccare la mano dell'uomo. Tortellino Amoroso rise, fece cenno di sì con la testa ed aprì lo sportello. I due sedettero nello stesso sedile, stringendosi. L'auto ripartì, tranquillamente.


CAPITOLO UNDICESIMO

Schianta, schiaccia e sibila la piazza. Ribolle inesausta. Sale, spinge e s'accartoccia. Ficca, trasuda ed ansima. Rigurgita, insulta e stenta. Ammorba, assale e rintana.
Poi appare, di slancio da un crocicchio, un candido levriero e si ferma, nel centro della piazza
e la piazza si ferma, immobile, trasognata.
Fiuta l'aria, aguzzo, il muso. Si inarca e balzo si spinge, con slancio arcuato e poi disteso, avvolto in una fantastica magrezza
e scompare.

E la piazza si trattiene
prima di straripare.


CAPITOLO DODICESIMO

<< Allora?>> la voce di Mr era quasi annoiata. Stava contemplando un quadro ologrammato di un Cristo, che si vedeva sorridere (biondo, nella barba e nella chioma), ma come uno si spostava di qualche centimetro appariva lo stesso volto insanguinato, torturato dalla corona di spine. Icona tridimensionale di un mai sopito desiderio, tutto cattolico, di godere il tormento sino all'estasi. Appoggiò l'ologramma dentro una nicchia di marmo, quasi un'ogiva un po' annerita dal vuoto (in quella posizione il Cristo sanguinava). << Allora?>> Ripeté un po' innervosito Mr.
Popper sapeva con quale disgusto il felpato ranocchio doveva lasciare la sua gotica galleria di mostruosità kitsch per dedicarsi ai sudori della vita quotidiana. Cercò di interessarlo al caso <<Lo chiamano Sparapolli. Il nome è suo da quando, dieci anni fa, sparò con un cannone sparapolli al capo dei Pigafetta. La cosa andò così: la sua famiglia, gli Amanita, e quella dei Pigafetta si stavano dissanguando in una guerraccia fatta di sparatorie e imboscate. Tutti e due i clan volevano controllare Marianopoli. Ad un certo punto il nostro amico propose un incontro, in un terreno neutrale, per discutere un eventuale accomodamento, un armistizio insomma. Furono gli agenti del Mastino a perquisire tutti i convenuti all'ingresso di un hangar che di giorno serviva a fare test per cristalli d'aereo. Quando Mastino ed i suoi agenti se ne andarono iniziò il chiarimento. Per entrare subito nel vivo dei problemi il nostro amico caricò lo sparapolli che era lì (un cannoncino che serve a similare l'impatto dei volatili contro gli aeroplani), con una morta ovaiola livornese, lo puntò contro Torrino, il capo dei Pigafetta e pigiò il chiodo. Un botto. Tutti videro Torrino steso sotto una parete, una gran macchia rossa nel petto, due zampette di pollo gli sbucavano proprio da lì. E sangue dappertutto. Novello Ulisse, il nostro amico caricò ancora ad ovaiole il cannoncino e sparò su luogotenenti e pretoriani dei Pigafetta. Fu una strage, un mattatoio, un frullato di occhi, becchi, creste, catene d'oro e culi di gallina come stimmate nei costati. Il resto lo fecero gli uomini Amanita con le mani. E così fu risolto il problema della divisione di Marianopoli. Sparapolli ci guadagnò un regno ed un nome di battaglia. Con lui la famiglia s'arricchì nel mercato delle armi, nello strozzinaggio e poi nel traffico di cocaina. Soldi a palate per tutti. Poi, un bel giorno, Sparapolli convocò tutti gli Amanita, si accese un sigaro, e disse: <<Io sono arrivato fino a qui e ora passo la mano. Ora ho voglia di divertirmi. Continuate voi!>> E davvero non ne volle più sapere di occuparsi degli affari. Si dedicò, anima e corpo, ai buchi stretti dei ragazzini e delle ragazzine. Naturalmente quando è necessario, quando c'è da prendere qualche decisione importante, la sua voce è ancora quella determinante. Nessuno, naturalmente, ha avuto mai nulla da ridire sul suo modo di divertirsi. Sparapolli non ha nemici, non più>>. Mr&Popper si guardarono. << La cosa richiede una bella riflessione. Cosa abbiamo di buono per cena?>> Chiese Mr. Popper sorrise raggiante: <<Cibreo!>> Disse.



Divagazione dell'Io Narrante

Cibreo. La prima volta che sentii questa parola fu come nome di un ristorante. Era una calda notte d'estate. Tanti, tanti anni fa. Eravamo giovani, potevamo scialare la vita senza rimpianti. Non c'era azzardo, non c'era paura e potevamo ungerci i muscoli prima della lotta. Nulla avrebbe retto al nostro assalto, tantomeno un mondo ingiusto. Era una notte di tanti anni fa e Piazza Santo Spirito si apriva magnifica davanti a noi.
Cibreo. "Ho cucinato per te", mi disse. Ma con una strana voce. Fu lei a raccontarmi quel piatto, mentre apparecchiava per due, fu lei a divagare su quella ricetta da nobile di campagna, su quel nome così esotico e misterioso, su quegli ingredienti così semplici e su quella preparazione così sofisticata. Sorrise, scoprendo la pentola di coccio. Spostai la sua giacca di fustagno e mi sedetti. La notte si caricava di profumi intorno a noi.
La mattina dopo mi svegliò "Ora devi andare", mi disse. C'erano troppe persone care che ci univano. Troppe
Cibreo. Ricordo altre cucine, l'odore schietto dell'inverno disteso nella campagna, la notte, la neve che mulinellava nel cerchio della luce, la stufa caricata, il caminetto acceso, l'allegria con cui aggredivamo la nostra aristocratica povertà. Ed il nitrito della cavalla, là nella stalla. Una capretta le faceva compagnia. Non c'era motivo di essere tristi.
Cibreo. Si fa soffriggendo nel burro un po' di cipolla, aggiungendo creste sbollentate e fegatini di pollo. Prima ci mettevano anche le palline, del pollo. Si fa cuocere aggiungendo brodo caldo. Quando il tutto è ben cotto si amalgama un uovo sbattuto (uno a testa) con un po' di succo di limone e si lascia ritirare.
Cibreo. Cucina povera? Ma se era il piatto preferito di Caterina de' Medici.
Cibreo. Cucinare e scrivere libri gialli, in fondo, le due cose, si somigliano. In ambedue si usano corpi morti come base, ma ingentiliti, resi piacevoli da spezie o trame. Sono sempre la fantasia e la cura a rendere gustoso il tutto. Lo squartamento deve essere occultato con i toni dell'originalità. Se si è capaci di meravigliare nel successo si può sperare.
Cibreo. Esisterà un'arte culinaria degli antropofagi?



CAPITOLO TREDICESIMO

<< Allora?>> ripeté Mr. La voce era quasi annoiata. Eka stava piangendo come una vite tagliata. Aveva visto suo figlio scendere dal Mercedes giallo banana. Era rimasto nascosto dietro un albero a guardare. Suo figlio aveva appoggiato un bacio sulla bocca di Sparapolli e se ne era andato. Il vecchio era rimasto a guardarlo fino a che il bimbo era entrato nella pineta, poi sorridendo aveva messo in moto ed era partito. Lentamente. Si era girato ancora una volta a guardare. Dopo Eka era uscito da dietro l'albero ed aveva preso il figlio per il braccio chiedendo spiegazioni. E Ekino si era liberato con uno strattone e l'aveva guardato dritto negli occhi, quasi con sfida. << Lasciami stare!>> Gli aveva detto. E ora il povero genitore stava piangendo. Disperatamente. Da tempo. Mr&Popper si guardavano ogni tanto con evidente imbarazzo. Eka aveva rincorso il figlio. Questi si era girato guardandolo ancora fisso nelle palle degli occhi <<Cosa cazzo vuoi?>> Gli aveva digrignato <<Smettila subito o lo dico…>> e con la mano aveva indicato vagamente la curva dietro la quale era sparito il Mercedes giallo banana. E ora Eka aveva paura a tornare a casa. Mr&Popper si chiusero nuovamente in bagno. Lavandosi la mano Popper disse: <<Basta! E' arrivato il momento di chiudere questa situazione>>. <<Sì, socio, hai ragione. Dobbiamo intervenire>>. << ? >> <<A mali estremi, estremi rimedi>> Gracidò Mr (gracidava solo quando era indignato). <<… vuoi dire…. ?>> <<Esattamente, socio>>. <<Oh, mio Dio!>>


CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Interno notte. Buio totale. Stanza da letto. Voce di Popper: <<Nessun'altra alternativa?>>. Voce di Mr: <<A cosa? >> <<Ad utilizzare…insomma sai chi>>. <<Non possiamo fare diversamente>>. <<No?>> <<No!>> <<Potremmo sparargli>>. <<Troppo poco>> <<Potremmo avvelenarlo>>. <<Troppo poco>> <<Potremmo infettarlo e fargli venire il tetano o la cancrena>>. <<Troppo poco>>. Silenzio. <<Ho capito, va bene, domani andrò a Polveriera Zighermann >>. La voce di Popper era incrinata dal timore.
Silenzio.
Buio.

Esterno notte.
Alta la luna si isola nel cielo, lontana dai pinnacoli pietrosi della cattedrale, lontana dal brillio del mare che entra nelle case, lontana dal rinsecchirsi degli alberi alle acque salse, lontana dalle carcasse della auto sbranate dai ladri, lontano dalle macchie scure di sangue nelle arene dei cani. Lontana da tutto, lontana da tutti.


CAPITOLO QUINDICESIMO

Candida Erèndira viveva al quarto piano del palazzo. Da lassù non era più scesa da almeno vent'anni. Non scese nemmeno quando il palazzo sprofondò dritto dritto su se stesso. Quasi due piani sparirono, poi si fermò. I mobili furono fatti uscire dalle finestre, calati con funi ed argani. Nessuno si fidava di rimanere fra quelle mura. Nessuno tranne Erèndira. E le sue nipoti, naturalmente. <<E' solo un po' più basso, ma per il resto va bene>>, diceva ridendo con la sua risata grassa. Le sue nipoti non dicevano nulla, come sempre. E così rimasero solo loro, lassù, all'ultimo piano del palazzo. Nelle notti d'inverno il vento si avventava selvaggio su per le scale, fischiando fra le porte aperte, fra le statue di putti trombettieri, grattando gli stucchi fino a farli cadere, sfumando l'allegria degli affreschi barocchi. Le cantine del palazzo erano diventate grotte sottomarine (immense, arcuate, silenziose di notte liquida). La pressione dell'acqua aveva sfondato i coperchi dei tombini e da quei pozzi del nulla erano risaliti strane forme allungate, con dei tentacoli luminescenti, dondolanti davanti a bocche larghe e ferocemente armate di denti. Nuotavano fra slarghi, cunicoli, grottosità di immense caldaie, anfratti, tavernette, carbonaie, nicchie e fessure. Spesso si avventavano l'uno contro l'altro in grovigli feroci. Allora rimaneva sospesa nell'acqua una vaga luminosità perlacea. Ma su, all'ultimo piano, tutto continuava come prima.


CAPITOLO SEDICESIMO

La stanza dove giaceva Candida Erèndira era molto, molto grande. Una specie di piazza d'armi illuminata da grandi finestroni che si alzavano vertiginosi verso un soffitto distante come il cielo. Qualcuno diceva che lassù volassero uccelli e si muovessero fiocchi di nuvole, ma certamente erano bugie di qualche marinaio argentino. Ed al centro c'era quel mastodontico letto in ferro, marmo, legno e lana. L'avevano costruito direttamente in quella stanza su indicazioni di Erèndira. Ci lavorarono in una dozzina fra falegnami, fabbri, intarsiatori, cardatori, materassai, scalpellini, tessitori e musici (perché ad Erèndira non piaceva il silenzio), per due settimane. Alla fine tutti insieme abbracciarono la loro opera dove sopra troneggiava come un castello la Candida Erèndira (vestita con morbidi teli di seta bianca). Bevvero e mangiarono, festeggiarono tutti insieme per due giorni e tre notti. Ed Erèndira offrì le sue nipoti. Su quel letto la Candida Erèndira si ergeva immensa come una balena bianca tirata all'asciutto. La sua grassosità era pari solamente alla sua grandezza. Dalle sue visceralità saliva un vocione orchesco che passava a malapena da una boccuccia sempre dipinta di rosso. Da quel letto non era mai più scesa dal giorno della sua costruzione lo usava come triclinio, come letto, come torre di osservazione, come ponte di comando. C'era uno strano odore nell'aria, era quello del latte d'asina che Erèndira si faceva picchiettare in continuazione sulla pelle, con un batuffolo di ovatta, da una magrissima negrettina. Lo faceva per mantenere il colore perlaceo della sua pelle. La neretta serviva ad accentuare, per contrasto, quel suo candore. Era l'ultima civetteria che le era rimasta. Popper le si fece d'innanzi. <<Candida Erèndira, avrei bisogno… avrei bisogno di Giuditta>>. La statua carnascialesca di donna si appoggiò su un'ansa di gomito per essere più vicino a quel giunco d'uomo: <<A sì? Popper questa è la tua richiesta, ora prova a convincermi. Con le buone, naturalmente, sono una signora…>> Popper sorrise, annuì con la testa così velocemente che mischiò, all'occhio, il colore dei capelli, fino a portarli ad un verde-coleottero-metallizzato. Poi allungò un braccio sospingendo verso lei una valigia di cartone. Erèndira alzò un sopracciglio vasto come uno zerbino: <<Mi offri così tanti soldi? Mh, deve essere un affare ben importante…>> <<Non sono soldi, c'è di meglio là dentro>>. <<Oppio?>> Chiese la gigantessa prendendo la valigia nella sua mano. <<Di meglio, mia cara, di meglio>>. Erèndira cinguettò per la curiosità, indagò con gli occhi, poi, non reggendo ulteriormente, con un colpetto del mignolo la scoperchiò. E lanciò un urlo di gioia che fece tremare i vetri, i pavimenti e le trombe dei putti trombettieri: <<Formaggio con i vermi!! FORMAGGIO CON I VERMI!!!>> Introvabile formaggio con i vermi, rarissimo più del tartufo, più sconvolgente di un vino muffito, impensabile fossile alimentare del palato medievale, succulenza destinata ai pastori più fauneschi o ai gourmet più raffinati: un brulichio di larve nutrite a cacio, avvoltolate nel cacio fatto maturare dalle loro digestioni, ossidato dal loro scavare. Erèndira trasse a sé la prima larva con l'unghia del mignolo e se la portò sulle labbra. E la aspirò suggendola. E su quell'atomo di sapore schioccò la lingua pregustando una gioia senza possibilità di ripetizione. <<E Giuditta? >> Chiese Popper. L'occhio tondo da balena di Erèndira vagava per i cieli del piacere, parve risvegliarsi e guardò giù, verso terra. Rivide quell'omuncolo dai capelli colorati… allora sorrise ancora trasognata e sfarfallò una mano verso l'ultima porta: <<E' là, prendila pure>>.


CAPITOLO DICIASSETESIMO

Il Mercedes giallo-banana era fermo. Fermo e con i fari accesi nella notte. Di Sparapolli si vedeva solo la brace accesa del sigaro. I fari illuminavano il muro di cemento della pineta. Uno pseudo-palcoscenico. L'illuminazione la metteva lui, Sparapolli, cioè. Gli attori erano pazienti, sfilavano uno alla volta. Erano tutti piccoli, non più di tredici anni. Non dovevano fare molto, solo entrare nel cerchio della luce, alzare le braccia, aprire la bocca muovendo la lingua, girarsi e poi uscire dall'altra parte. Per lasciare il posto al successivo. Bimbi e bimbe, indifferentemente. Politically correct. La brace del sigaro si accese due volte di seguito. Al centro dei fari c'era una bambina esangue, minuta, i capelli biondi e lisci, tagliati a caschetto. Pareva caduta dal letto in quel momento: la faccia spaventata (quasi stupita), una grande canotta a farle da camicia da notte, un orsacchiotto appeso alla mano, i piedi nudi. La costumista (sua madre) era evidentemente esperta di psicologia maschile. Sparapolli dette un piccolo colpo con gli abbaglianti. Soffice mormorio di delusione. Gli altri attori sparirono nel buio. Rimase solo lei, al centro della luce. La faccina spaventata.


CAPITOLO DICIOTTESIMO

Il cielo era compatto di nuvole scure. Incombenti. Ma la pioggia non cadeva. Poi iniziarono ad abbassarsi, sempre più. Schiacciarono il mondo con il loro tumulto basso, claustrofobico. Ma la pioggia non cadeva. Le nuvole coprivano l'orizzonte, i tetti dei campanili, le antenne televisive. Ad un tratto iniziò come un lento movimento circolare delle nubi, si formò un vortice con l'ombelico nero. Quel gorgo si avvolgeva sempre sullo stesso punto (silenzioso, quasi inesorabile). Sopra il parco de La Sella del Diavolo (nera torre arsa, franata, sostenuta nei secoli da una innaturale caparbietà antigravitazionale). Sparapolli guardò quel vortice. Non aveva mai visto nulla di simile. Pareva vicino. Sterzò. Nessuno camminava fra quell'erba riarsa, fra quegli sterpi ostili, fra quegli alberi tormentati dai funghi. Nessuno c'era, tranne una bambina ferma quasi al centro del parco, come se fosse sotto al vortice (che lì pareva avvitarsi). Era vestita completamente di bianco, uno strano abito di trine. Guardò l'uomo e tese le braccine verso di lui. Sparapolli fermò il Mecedes giallo banana. Le nuvole parevano toccare la punta degli alberi. Un raggio di sole s'incolonnò sulla bimba. E risplendeva (bianca la pelle di bianco vestita). Agitò ancora le braccine. Sparapolli scese e lentamente iniziò a camminare verso di lei. Si avvicinò. La piccola vestiva un abitino da Prima Comunione. Le mani erano nascoste da guanti di trina bianca. Avrà avuto dodici anni, piccola, di una magrezza tutta adolescenziale, pelle bianchissima (diafana, marmorea, setosa)(sfumate lentiggini rendevano impertinente tanto biancore). I capelli erano corti e neri, l'ovale del volto esaltava le lunga sopracciglia, i grandi occhi scuri con un leggero strabismo. Aveva una vaga aria distratta. Più che distratta pareva che faticasse un po' a capire. Un leggero ritardo, come uno scarto di tempo nel comprendere. <<I guanti!>> Gridò la bambina tendendogli le manine inguainate. Sparapolli li guardò e balbettò:<<Sì… belli, belli davvero.>>. Lei tese ancora le manine <<I guanti!!>>. Lui la guardò ancora: <<Sì, li ho visti. Belli, complimenti, carina>>. La piccola batté un piedino per terra, stizzita: <<Mi scappa la pipì! Non posso farla, ho i guanti>>. E gli agitò le manine trinate. <<Beh?….>> Sparapolli non era riuscito a proferire nulla di meglio. <<Allora aiutami a fare la pipì!>> Il tono era perentorio (e batté ancora il piedino, spazientita). Sparapolli (sorpreso) si alzò un attimo in tutta la propria bassezza, si guardò intorno e poi posò lo sguardo nuovamente sulla bambina: <<… e come?>> domandò. La piccola abbassò le mani a pugno verso terra e protese il faccino verso di lui, strillando: <<Ma allora sei scemo! Mi prendi come nell'altalena e mi alzi la gonna, sennò la sporco>>. <<… ad altalena?…>> <<Sì, così>>. Disse la piccola e si girò di schiena verso l'uomo, poi si accucciò un poco. L'uomo la guardò perplesso. <<Cosa aspetti?>> Chiese la piccola. <<Che devo fare?>> <<Sollevami la gonna no?!>> Sparapolli si guardò intorno, a disagio. Erano nel centro di quel parco morente (spennato e spelacchiato), lì era al centro dell'attenzione di tutti. Ma nessuno c'era. Così Sparapolli si abbassò sulla bimba e le sollevò la gonna candida e trinata (delicatamente, lentamente). Aveva gambe magre, molto magre. Ed un culetto impertinente (sodo, a mandolino, coperto con vaste mutande da ragazzo). Sparapolli si sentì gonfiare la patta (d'un balzo feroce, doloroso). <<Ora metti le mani a seggiolina del cardinale>> Sparapolli non conosceva, però intuì, unì le mani (tenendo la gonna alzata con le braccia ad "o") sotto le coscine di lei. <<Ma che scemo sei, prima devi abbassarmi le mutandine, sennò me la faccio addosso!>> <<Già, già>> balbettò l'uomo (sentiva l'odore della bambina sotto le sue nari) (un po' dolce, un po' selvatico) (un po' leggero, un po' sfacciato). Tenendo sollevata la gonna (aiutandosi con avambracci e gomiti) ("ma quanta trina…!") infilò le dita nei lati della mutandina. Quella scese dopo una leggera resistenza sul culetto rotondo. (Doloroso, doloroso gonfiore). Scoprì la fichetta nuda (candida, glabra, incredibilmente gonfia per la sua età) passò gli avambracci sotto le coscette e la sollevò da terra. Rimase come accucciata a mezz'aria <<Bravo>> disse <<hai capito>>. Diventò rossa nelle guance per lo sforzo e uno zampillo dorato si arcuò verso terra (dorato, netto). Sparapolli sentì lo scroscio, guardò la gittata (sentì l'odore dolce di bambina ma già pepato di ormoni) (sessuali, sessuali) (dolorosa, l'erezione) (devastante), fino a vederla scemare e sgocciolare. <<Che aspetti?>> <<…eh?>> <<Che fai, dormi?>> <<Perché?>> <<Non m'asciughi?>> <<… cosa?>> <<Ma la topina! Chissà cosa, sennò?>> <<…e… come?>> <<Col fazzoletto, colla camicia, eccheneso io? 'sciuga!>> Sparapolli era rosso, piegato, ma non per la fatica. La tenne sollevata usando solamente un braccio e con l'altro (usando più che altro la mano) si cavò di tasca il fazzoletto. Con un colpo di polso lo stese, lo piegò a batuffolo e lo passò sulla sua passerina. La bimba si morse leggermente il labbro inferiore (bianchi dentini d'avorio…) (piccola bocca carnosa) (sensuale, sensuale) e guardò l'uomo. Il suo sguardo era strano, come divertito (come eccitato) (come esperto). Sparapolli crollò sulle ginocchia piegato dall'erezione. La piccola fece un saltello per toccare terra, si tirò su le mutandine e <<Ciao!>> Disse. E se ne andò correndo via. Sollevando leggermente la gonna bianca a trine (le gambine magre sotto la gonna del vestito da Comunione).
E sparì.
Sparapolli rimase inginocchiato.
Solo nel parco.
Ed iniziò a piovere.


CAPITOLO DICIANNOVESIMO

Quella sera il Mercedes giallo banana non andò al muretto.


CAPITOLO VENTESIMO

E neanche la sera dopo, né quella dopo ancora.


CAPITOLO VENTUNESIMO

Il Mercedes giallo-banana ormai girava tutto il pomeriggio, piano piano, intorno al parco de La Sedia del Diavolo. Sparapolli ci andava anche a piedi. Andava sempre nello stesso punto, si chinava, toccava la terra con le dita, ne raccoglieva come un pizzico e l'annusava. E lì, spesso, rimaneva fino a notte.

Qualcuno disse di averlo sentito piangere. Solo, nel buio, nel parco.


CAPITOLO VENTIDUESIMO

Nessuno vide mai gli occhi di Sparapolli bagnati di lacrime. Nessuno li vide nemmeno il giorno (tantissimo tempo prima) in cui scoprì di non avere più la casa. Aveva compiuto dodici anni da pochi giorni. Erano stati letteralmente buttati fuori da una specie di ufficiale giudiziario armato. Quell'uomo aveva gettato il materasso dalla finestra (giù nei rigagnoli d'acqua nera) e si era tenuto i mobili chiudendosi la porta alle spalle. Non avevano più i soldi da quando suo padre era sparito. Fuggito con una spogliarellista rumena, secondo alcuni. Sciolto nell'acido, secondo altri. La situazione si era aggravata quando era sparito anche suo fratello ("Forse fuggito anche lui con una ballerina rumena", disse qualcuno ghignando). Sua madre era una donna forte, tutti quei rovesci, però, l'avevano come ingobbita. Ma anche lei era una che non piangeva mai. "Non ti preoccupare, mamma, ci penso io", le disse. Era arrivato il momento di pensare alla famiglia, il suo momento. La sera andò sui viali est di Marianopoli (chiamati "L'anoteca"), dove battevano travestiti e mignotte. Affrontò Nano Crudele. Lui era armato di rasoio, Sparapolli (all'epoca conosciuto come Tigrillo) aveva in mano un mattone. Gli bastò. Si prese le donne di Nano Crudele ed il suo territorio (aveva vecchie bagasce, ma buone per iniziare un'attività). Due giorni dopo si riprese anche la sua vecchia casa. E ci rimise dentro la mamma.
Quella notte, quando sua madre andò a chiudere le tapparelle, vide bagliori di fulmini verso il mare.

Sei mesi dopo qualcuno trovò quella specie di ufficiale giudiziario infisso in una discarica, con la testa spappolata a colpi di mattone.


CAPITOLO VENTITRESIMO

Quando nipoti, zii e cugini si resero conto dell'afflizione che tormentava il vecchio Sparapolli, se ne dolsero e fortemente preoccuparono. Più volte, per più giorni, si aggregarono in piccoli o grandi gruppi per ragionare sul da farsi. Ben poco venne fuori perché nulla, sulla propria doglianza, espresse mai Sparapolli. E così, nonostante quel fitto parlare, nessuna soluzione venne a conforto del loro arrovellamento.

Tentarono, così, di andare sul sicuro facendo arrivare bambini e bambine da tutta Marianopoli.
Il numero lo avrebbe distratto dal suo illanguidimento.
Il numero non lo distrasse dal suo illanguidimento.

A braccia gli portarono una vergine di otto anni.
A braccia la riportarono giù per le scale, intatta.

Gli montarono una giostra nel giardino, che girava con la musica di un organetto meccanico, e nudi bambini e nude bambine ridevano cercando di rimanere in equilibrio su dondolanti cavallini di legno. Era tutto un mulinellare di boccoli biondi, di chiappine, di legni pitturati, di specchietti, di fichine e pisellini. Sparapolli guardò, spiccò, dalla pianta, un fiore di gardenia, lo annusò e richiuse le imposte. Sorridendo tristemente.


CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

La stanza di Mr era sempre piena di farfalle. Vivono lì, al calduccio tutto l'anno, libere di svolazzare in quello spazio, di posarsi sulle tende, di fermarsi sul soffitto (ma anche sulle pareti, sul pavimento), di nascondersi nella pianta di Beniamino (al centro della stanza), di succhiare acqua e zucchero da buchetti messi in pitture di fiori. Ma c'erano anche fette di arance e cracker bagnati, posate su una mensola, perché alcune farfalle succhiavano quelle cose lì. Era tutto uno svolazzìo, un tremolìo di alucce arancioni, bianche, gialline, color cenere, un muoversi leggero inavvertibile, fitto nell'aria. Naturalmente si posavano anche sul lettuccio di Mr (che era piccolo come la cuccia di un gatto) (e per la verità tale era) e, la mattina presto, anche su Mr stesso. A lui (a Mr, cioé) piaceva così; amava aprire gli occhi, guardare in alto e vedere quello sfarfallio brulicante, quella summa di vita naturale, quella provocazione aerea all'invasione marina. "Quando questo cazzo di città affonderà del tutto, io aprirò la finestra e mi divertirò a guardarle volare via, fuggire libere nell'aria. Mi divertirò ad abbellire il mondo con i loro colori". Intanto, in attesa di quel giorno, le teneva in camera, le nutriva con cura, le coccolava e si beava di loro. La stanza di Mr era l'ultima in fondo alla casa. La più protetta. Prima c'era quella di Popper. Sembrava un'officina. Ruote di bicicletta appese al soffitto, cestelli di lavastoviglie usati come sedie, colapasta a mo' di plafoniere, scaffalature metalliche per i libri, macchine fotografiche appese ad un attaccapanni industriale, parrucche colorate appese a bielle lucidate e, soprattutto, in fondo alla stanza Il Grande Coniglio. Il suo vecchio costume da lavoro. Il suo primo lavoro. L'aveva assunto una strana società di recupero crediti. L'aveva fondata un ex hippy che credeva che la fantasia potesse battere la violenza. Così Popper, quando qualcuno non pagava, doveva vestire quel costume da Grande Coniglio color rosa acceso (sì, con tanto di orecchie belle alte e fiere, nasone nero, dentoni di stoffa e puf sul culo) e aspettare l'insolvente sotto casa. Poi, come questo usciva, gli si metteva accanto con in mano un cartello ("Ha fatto assegni scoperti") e lì accanto gli rimaneva tutta la giornata e quella successiva ancora, e quella dopo ancora e ancora e poi ancora fino a quando quello non pagava. Specie i primi tempi funzionava. C'era chi faceva finta di nulla, chi rideva (all'inizio) e chi si incazzava subito. Il costume attutiva molto i colpi, era ben imbottito. In genere smettevano subito, perché picchiare per strada un coniglio rosa che si dimena ed urla, non è certo un'azione che lasciasse larghi margine di consenso. Poi la città iniziò ad affondare e tutti cambiarono. In peggio, naturalmente. Si incarognirono dentro, un pus dell'anima. E ci fu chi iniziò a sparare. Era arrivato il momento di cambiare mestiere. Popper lo pensò mentre era all'ospedale. In fondo si era fatto una bella esperienza dell'animo umano, del modo di cercare le persone senza dare troppo nell'occhio (prima di conigliare qualcuno doveva ovviamente individuarlo, faceva parte del lavoro). Poi incontrò Mr e fondarono la loro società. Il braccio e la mente. La potenza e l'astuzia, la mente speculativa e l'ombra che fruga la città… più o meno questo scrisse nel depliant illustrativo. Solo che poi non ebbero i soldi per farlo stampare. Si adattarono ai primi lavori. E la gavetta è sempre dura e povera di soddisfazioni. Ancora non c'era l'alba e Popper felice si rigirò nel letto. Fuori la città era in uno stato sospeso, in un fascio di attimi che aveva diviso il popolo della notte da quello del giorno. Tutti e due facevano del male, ma in orari diversi. In quel momento, però, non c'era nessuno. E la città deserta, per un attimo sorrise al mondo.


CAPITOLO VENTICINQUESIMO

Esterno notte. Un fiorino si ferma davanti al cancello della villa. Non c'è nessuna targa nel campanello, ma a Marianopoli tutti sanno che ci abitano gli Amanita. Un'ombra scende e rapida apre le porte posteriori del furgoncino. Tira fuori come un tubo, l'uomo lo allunga. Si mostra, per un attimo, nella luce del lampione: è un bazooka. L'ombra solleva il sistema di puntamento, inquadra il cancello della villa (o la villa oltre il cancello). Una fiammata e il razzo saetta verso la villa (o il cancello). E qualcosa esplode in una palla di luce. In un boato di schegge.


CAPITOLO VENTISEIESIMO

<<Che dobbiamo fare zio? Che dobbiamo fare?>> La voce era rotta dalla foga, l'aria puzzava di paura. Sparapolli li guardò e sorrise. Distante nei pensieri, distante nel tempo.


CAPITOLO VENTISETTESIMO

Dall'alto parve quasi bella. L'esplosione bianca svanì nel giallo e poi nel rosso. E poi in altri bianchi e gialli e rossi delle auto che esplodevano in successione. Le fiamme salivano mescolandosi alla notte, fondendola in riflessi di luce sulle facciate dei palazzi, sui detriti scagliati. Ardevano le auto dei Pigafetta (contorte, piegate, atterrate) illuminando le loro case, i portoni sfondati, le orbite nere delle finestre, le terrazze sbrecciate. La vendetta degli Amanita non si era fatta attendere.


CAPITOLO VENTOTTESIMO

<<Abbiamo fatto bene zio eh? Abbiamo fatto bene?>> <<Gli abbiamo aperto il culo, zio>> Le parole erano scheggiate dalla coca (esasperate, eccitate, svincolate dai pensieri). Ma la porta rimase chiusa, indifferente.


CAPITOLO VENTINOVESIMO

<< No, cazzo, no! Non è così! No, non è lei quella!!>> Disse "quella" indicando il foglio disegnato appuntato sul cavalletto. La voce di Sparapolli era appuntita dall'ira. Gli occhi strabuzzati, rossi per le notti bianche. Pittore dondolava, sull'orlo di uno svenimento da paura. Tentò di balbettare: <<…ma io sono stato allievo di Annigoni…>> <<E chi cazzo se ne frega di 'sto stracazzo Dannigoni!>> <<…il ritrattista delle regine…>> <<Ma ficcatele in culo, le regine, stronzo!>> Gli piantò due dita sulla carotide, (dure come scalpelli). Pittore era più alto (molto più alto) di Sparapolli, ma cercò di piegarsi, di contorcersi, di arcuarsi fino a risultare più basso di lui (molto più basso). <<Pittore di 'sta cippa di cazzo, prendi le tue matitine e rimettiti a disegnare. Voglio lei>>. La voce era listata a lutto. Pittore iniziò a rialzarsi, ad ergersi in tutta la propria altezza, impugnò il carboncino e si rimise a sedere davanti al cavalletto. Piangeva quasi, ma provò a sorridere. In una smorfia esangue, scoprendo denti asciutti (lingua secca, lingua secca) riuscì a dire: <<Bene, vediamo un po' di farla più somigliante…>> <<Ti conviene, rottinculo>>, disse tirando fuori la sua Smith & Wesson e puntandogliela alla tempia. Era troppo. Pittore crollò dalla paura, si afflosciò a terra tremando e piangendo. Ed era troppo anche per Sparapolli che iniziò a tirargli calci nella schiena, nello stomaco e dove capitava urlando <<Alzati, figlio di una bocchinara! Alzati!!>> Le esortazioni verbali sennonché quelle fisiche prima fecero urlare e strepitare Pittore, poi gli fecero capire che meno doloroso sarebbe stato, per lui, accontentare il cliente. <<Che succede là dentro?>> Urlò qualcuno da dietro la porta, bussando con vigore. Sparapolli sparò una rivolverata sull'uscio e << Fatti i cazzi tuoi!>> ringhiò. Di là si fece subito silenzio (forse fuggito, forse centrato). Pittore si alzò, si pulì un po' dal sangue e sorridendo (disfatto), disse: <<Dove eravamo rimasti?>> Dovette cambiare il foglio, piccoli spruzzi di sangue l'avevan macchiato. Sparapolli dirigeva indicando le cose con la canna della pistola <<No, la faccia… la forma… no, non è quella. La sua è più da bimba, te l'ho detto>>. <<…è più affilato?>> <<Ma ne so 'na sega, più magro… ecco ora va meglio… sì, iniziamo ad esserci, sì… i capelli sono scuri… più corti… scuri… ah, quello lo fai dopo?…Vabbé…sono mossi, scaruffati… sì, spettinati… come se fosse stata al vento…sì, al vento… fino a un attimo prima…no, gli occhi sono più grandi… scuri, sì scuri… le ciglia sono più lunghe…più lunghe ho detto, stronzo… ma no, gli occhi non vanno bene… ah, quegli occhi… ma no, figuriamoci! In quel modo no!! Non è solo che sono grandi… sì, le ciglia vanno bene… poi non sono così dritti… uno è un po' storto… poco poco… destro o sinistro non lo so… strabismo di Venere? Ma ne so 'na sega io… no, di poco più storto… ma non è quello…no, tu fallo intanto… ma lo sguardo è diverso… è strano… tutto suo… mh, non so…è come… è come… come se, alle volte, non capisse… come se ci mettesse un po' di più… un po' rallentata… come se rimanesse un po' smarrita… no, smarrita no…come se si perdesse…o come se fosse lontana, in quel momento… lontana in un mondo tutto suo… lontana dal suo corpo… lontano da quello che le può accadere…sì, però poi, così all'improvviso le si accende di una vampa… lo sguardo si fa birbo, come sapesse cosa vuole davvero un uomo…come… come farlo davvero felice… come farlo davvero godere… come se lo sapesse benissimo… e quel musino di bambina… quella pelle di seta… bianca…come il marmo… ma no, cazzo, non è lo sguardo di una cretina… malizia? Che il film?…ah! Boh, uno sguardo birbo… di chi sa benissimo cosa si vuole da lei… ecco, c'incomincia a assomigliare…e c'ha un po' di lentiggini… appena appena… il collo? Lungo, mi pare, ma non troppo… le tette so' piccole… no, più piccole… dai, si vedono appena… poco di più che una bimba… i capelli scuri non li fai?… eh, avevi detto "dopo"… si così, non troppo scuri… basta così, va bene…ritocca gli occhi… abbastanza, ci somiglia abbastanza… quell'aria distante, un po' persa, quella non c'è del tutto… e quella espressione strana fra l'assente e il divertito, quello non c'è ancora… manca quell'espressione di chi sa cosa vorrei e che sa come farmi… no lascia così, così va bene, bravo… ora levati dai coglioni, via levati… lascialo lì… lascia stare tutto…. Fuori, dalle palle!>>. Pittore uscì rinculando (il sangue gli si era seccato sulla faccia, agli angoli della bocca, un ematoma iniziava a chiudergli un occhio, zoppicava, ma era ancora vivo). Un ultimo inchino e sparì dietro la porta.
Sparapolli rimase davanti al cavalletto, davanti al ritratto. Immobile.

Pittore sentì, dietro la porta, là nella stanza, un lungo basso lamento. Straziante, disperato.
E allora scappò via.


CAPITOLO TRENTESIMO

Il sole non aveva nessuna voglia di uscire, rimandava l'alba impigrendosi nelle ultime pieghe della notte in una luminescenza che stagnava all'orizzonte. Non c'era vento, non c'era chiarore, non c'era movimento. Tutto sospeso, in attesa che qualcosa accadesse. I palazzoni erano grigi, cinerei, irregimentati fra sbalzi, contorsioni di svincoli e cumuli di detriti. Lampioni vandalizzati scortavano strade tignose. Nessuno ancora aveva visto Manlio Amanita, scaricato accanto ad un water sfondato e viola. Le mani legate dietro la schiena con fil di ferro. Il cranio esploso a colpi di 44 Magnum.


CAPITOLO TRENTUNESIMO

Sparapolli non sapeva dove aveva lasciato la sua Mercedes giallo banana.
Sparapolli non andò più al muretto.
Sparapolli usciva spesso di notte, da solo (e c'è chi lo vide vagare, nel buio, nel parco della Sedia del Diavolo).
Sparapolli iniziò a scrivere poesie.
Sparapolli faceva schifo come poeta.
Sparapolli piangeva quando non vagava o non scriveva poesie.


CAPITOLO TRENTADUESIMO

Moano Amanita perse la testa.
Fu ritrovata nei pisciatoi dell'ex mattatoio di Marianopoli.


CAPITOLO TRENTATRESIMO

<<Zio, zio ma che ci fai qui? Solo, a quest'ora, in mezzo a questo parco? Ci sono i Pigafetta che battono tutta la zona. Gattopiatto coprici da quel montarozzo! Dai zio vieni via, ci siamo noi>>. <<Io non ho paura di quelle mezze seghe, basta questa pistola per tenerli… ma dove l'ho messa, cazzo dove l'ho… vuoi vedere che, l'ho lasciata a casa?>> <<Dove hai la macchina?>> <<Sai che non lo so?>> <<C'è qualcuno laggiù!>> <<Abbassiamoci, Gattopiatto chi sono? Non riesci a vederli? Dai zio, andiamo via, presto…Cinese, coprici dalla radura, spara se qualcosa si muove>> <<Io non ho paura…>> <<Sì, sì lo sappiamo tutti ma andiamo via ora, ci torneremo domani qui, ci torneremo domani…dai zio non piangere, domani torniamo, ti accompagno io, va bene? Sì, te lo prometto, ma ora andiamo…>>


CAPITOLO TRENTAQUATTRESIMO

<<Ma come, zio, mandare i ragazzi, con la fotocopia di questo disegno, a cercare questa qui? Ma dobbiamo risolvere con i Pigafetta…>> <<Non me ne frega un cazzo, andate a cercarla!>> <<Zio, non possiamo!>> <<E non voglio discutere! Muovetevi! Trovatela! Trovatela! La voglio!!>>


CAPITOLO TRENTACINQUESIMO

Mirto Amanita pareva un quadro astratto. Eppure era stato un bell'uomo, da vivo.


CAPITOLO TRENTASEIESIMO

Gattopiatto controllava sempre dallo spioncino, prima di aprire la porta. Era un'abitudine, per lui. E proprio intorno allo spioncino misero l'esplosivo al plastico che gli polverizzò la testa.


CAPITOLO TRENTASETTESIMO

<<Zio! Zio!! Hanno ammazzato Gattopiatto! Gli hanno fatto scoppiare la testa!! Zio, hanno ammazzato Gattopiatto!!!>> <<Eh? Gattopiatto? Cazzo, proprio lui…>> <<Che dobbiamo fare zio? Che dobbiamo fare?>> <<Beh fai delle altre fotocopie del disegno e manda il Cinese in giro a cercarla>>.


CAPITOLO TRENTOTTESIMO

Popper cavalcava con maestria il ramo di un pino (un tipo caparbio che si era incaponito a rimanere verde nella pineta nonostante i roghi, i funghi, le tossine scaricate nella terra). <<O giovanotto, icché vu ci fate costassù?>> Popper guardò dabbasso. C'era una vecchietta minuta con un cappellino nero e trinato, un cappottino di lana anch'esso nero (che tempi ben migliori doveva aver veduto), un guinzaglio con, all'altra estremità, un collare contornato da un cane basso, imbolsito , incanutito, spelacchiato e con lo sguardo triste e rassegnato (come se pisciare, in quel momento, gli costasse uno sforzo al di sopra delle sue possibilità). Insomma una vecchietta che era passata immutabile, invisibile al tempo ed ai mutamenti storici, un acciaioso carattere prima di ben educata figlia, poi di zitella convinta e poi di pantera d'argento. In pratica un tipo segaligno ben più duro del pino stesso. Di certo non si sarebbe schiodata di lì se non avesse avuto una risposta adeguata a tutte le sue domande (che sarebbero state con certezza tante…). Popper capì che rischiava di mandare alla malora il suo appostamento. <<Buongiorno, signora. Si sta bene quassù. Si vedono meglio gli uccelli, così si studiano bene. A proposito, la sa la storia della passera sul ramo?>> <<Per la verità la ignoro>>. <<Beh, allora gliela racconto io. Un giorno si scatenò un fortissimo temporale. Tuoni, fulmini, vento e, soprattutto, tanta, ma tanta pioggia. Una passera che volava vide un grand'albero fronzuto ed un suo bel ramo riparato dalla pioggia. Lì andò a posarsi. Dopo poco arrivò un corvo. Vide anch'egli il ramo e là si posò. Con una beccata allontanò la passera e si mise all'asciutto. Poco dopo arrivò un falco, piombò sul ramo, allontanò con una beccata il corvo che spinse ancor di più nella pioggia la passera. Dopo poco sul ramo atterrò un'imponente aquila che allontanò il falco che allontanò il corvo che allontanò la passera, ormai completamente sotto la pioggia.
Morale: più l'uccello è grosso e più la passera si bagna>>.
Con un sorriso Popper guardò la vecchietta che aprì la bocca sorpresa, arrossì e dando uno strattone al guinzaglio riprese il proprio cammino. Il cane si lasciò dimessamente trascinare guardando Popper con un'ultima occhiata lacrimosa ("no, non ce la faccio proprio a pisciare, non ce la faccio…"). Popper si rimise a scrutare la piazza con il binocolo. Laggiù, oltre il muro d'inutile cemento c'era il solito movimento inconsistente. Poi lo vide. Sparapolli arrivò a piedi. La tuta da ginnastica era di due colori diversi (il sopra era di un'altra tuta, o il sotto, a seconda del modo di considerare la cosa), stazzonata (come se ci avesse dormito dentro diverse notti) e macchiata qua e là. La barba incolta e l'occhio arrossato. Dalla solita pizzeria uscì il solito vigile urbano con la solita teglia di pizza non pagata. Sparapolli la guardò. Allungò la mano per prenderne un pezzo. E il vigile alzò la teglia. E Sparapolli rimase allungato e basso, a un palmo dalla pizza. Il vigile rise, risero i suoi colleghi dalla macchina ferma lì dietro e risero dal bar di fronte, tutti quanti. Risero. Risero. Risero. Sparapolli rimase immobile, allungato (si fa per dire) verso il niente, stupito. Sembrava l'ottavo nano di gesso in un giardinetto. Poi tutti scapparono, si buttarono a terra o dietro i tavolini. Davanti a Sparapolli c'era una moto da enduro ferma, sgassante, un uomo con il casco integrale la stava tenendo su di giri, quello dietro gli stava puntando addosso al nanerottolo due pistole, alzò la visiera del suo casco e gridò:<<Sparapolli…>> attese un istante, i loro sguardi si incrociarono <<…sei uno stronzo!!!!>> urlò con tutta la voce. E rinfoderò le pistole e dette un colpo sulla spalla a quello davanti. E la moto schizzò via, sparendo.
E la piazza rise.


CAPITOLO TRENTANOVESIMO

Non so se ci siano notti buone per morire o meno, Sparapolli scelse semplicemente la più vicina.
Si impiccò al ramo più alto di un ippocastano canceroso, poco lontano al punto dove aveva incontrato la bambina.
Rimase a dibattersi, ruotando, per più di un'ora. E fu anche una brutta morte.


CAPITOLO QUARANTESIMO

Era stata una lunga giornata. Il cielo aveva sparecchiato la luce in tutta fretta, quasi con impazienza. E poi aveva steso un telo nero sopra tutto. Il freddo era arrivato come di conseguenza. Non c'era molto da vedere, così Popper si sedette su quei gradini che portavano chissà dove. Era stata una giornata stancante e Mr gli si era addormentato sulla spalla. Popper lo coprì tirando su la manica della camicia, poi lasciò che lo sguardo affondasse nel niente che aveva davanti.


(PARZIALMENTE INEDITO)



Claudio Pellegrini Nato a Grosseto. E' autore dei romanzi "Forno caldo per cani" (Datanews) e "La donna dal cuore giallo" (Il Minotauro). Suoi racconti sono apparsi nelle seguenti raccolte: "Atlas hotel cafe" in "Neo Noir, 16 storie e un sogno" (Il Minotauro), "Tutti la notte dormono e io non dormo mai" in "Neo Noir" (Stampa Alternativa), "Shangri-là" in "Italian Tabloid" (L'Altritalia). Il saggio "Il silenzio degli incoscienti, Il fenomeno dell'omicidio seriale in Italia" è apparso in "Vivere per uccidere, anatomia del serial killer" (Calusca Edizioni). Ha collaborato con "L'Indipendente", "Delitti & Misteri" e "Liberazione" sul fenomeno del serial killer e, sullo stesso tema, anche con l'emittente "RADIO CITTA' FUTURA" con la trasmissione "Nuovi Magazzini Criminali".
Il racconto che pubblichiamo è parte di un suo romanzo ancora inedito "Le fontane dell'abisso" ed è stato pubblicato con il titolo "Sollevami la gonna no?!" su "Bambini Assassini" (Stampa Alternativa) mancante di 5 capitoli. Qui appare per la prima volta in versione integrale. E' tra i fondatori del movimento neo-noir




"BAMBINI ASSASSINI"
contiene il racconto "Sollevami la Gonna No?!"
(Stampa Alternativa)
"VIVERE PER UCCIDERE - anatomia del serial killer"
contiene il saggio "Il Silenzio degli Incoscienti"
(Calusca Edizioni)

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