IL CROCIFISSO DELLA CUCCAGNA
Pietro Pancamo

I

Buon Gesù, ascolta il mio inchiostro e la mia voce: in un mondo governato dalla Chiesa (che ormai si era costituita organismo statal-militare) gli adolescenti intenzionati a intraprendere la carriera religiosa, presentavano tutti domanda d'ammissione ai seminari più in voga (che adesso si chiamavano "Accademie Sacerdotali").
Ricordo esplicitamente che il programma scolastico di queste sacre caserme, in cui venivano formati e forgiati i parroci del domani, stabiliva (sulla base di recise direttive pontificie) che gli allievi più avanti negli studi trascorressero un periodo di apprendistato alle dipendenze di una qualche Diocesi.
La mia, quella di Baia Dera e Lido Latrìa, era assai apprezzata negli ambienti vaticani e così, spesso, si vedeva assegnare giovani allievi di belle speranze, provenienti dalle Accademie di maggior prestigio e grido (la "Simon Mago" di Roma, la "San Dokàn" di New Delhi, se non addirittura la "Don Milingo" di Seul in Corea).
In genere il vescovo delle mie parti Don Giovanni Naiòlo, felice di accogliere i rampanti novizi che gli arrivavano, li dislocava subito a prestar servizio nei ranghi della sua polizia diocesana.
"Affinché possano" - spiegava - "addestrarsi come si deve nell'applicazione d'un sacramento fra i più importanti e basilari: la santa confessione".


Proprio a me capitò, purtroppo, di diventare "carne da esercitazione", dato che all'epoca soffrivo (dannatamente!) per colpa di cocenti magagne familiari, dovute alla mia adorata mogliettina giapponese (la bella Dolchumi!) che, piantandomi e respingendomi in tronco, m'aveva inferto, da poco e ruvidamente, un dolore infame.
Per consolarmi, e porre un freno alle lacrime convulse che mi sprizzavano dagli occhi, mi riempivo di piacere, zucchero e appunto "dolchumi" nell'unica, ottima pasticceria del mio paese. E fu mentre uscivo da quel sublime negozio di cannoli alla crema, che un giorno mi sentii intimare l'alt da un severo quanto imberbe e minorenne agente diocesano. Sulla tonaca d'ordinanza gli brillava, orgoglioso, il distintivo della polizia vescovile: un triangolo d'argento che recava, inscritta in sé, una piccola colomba finemente cesellata, ovviamente completa di ramoscello d'ulivo stretto nel becco.
"Fermati fratello", mi apostrofò il solenne fantolino, sollevando un crocifisso bicolore che, rosso da un lato e verde dall'altro, somigliava (nelle tinte) alle palette dei vecchi vigili d'un tempo.
Naturalmente il preticello, per bloccarmi meglio, mi stava mostrando il rosso, in quel momento.
"Passavo di ronda dinanzi alla vetrina del pasticcere" - scandì pomposo, in tono di rimprovero - "e t'ho scorto trangugiare bignole a raffica, con impeto satanico e incontinente".
Ciò detto, mi contestò un peccato di gola, elevandomi regolare penitenza.
"Sei Ave, otto Pater e un Gloria", annunciò soddisfatto, scarabocchiando in fretta su uno dei tanti tagliandini che componevano il suo libretto, o breviario delle contravvenzioni.
"In più" - aggiunse, terminando di compilare la cedolina per poi staccarla con cura e allungarmela pieno d'efficienza e sussiego - "in più durante la prossima Messa, sarai tenuto a versare al tuo parroco cento euro di questua".


"Simili angherie" - rimuginavo, mentre il pivello, esibendo la metà verde del suo crocifisso, m'invitava a circolare - "hanno stancato sul serio la gente".
In effetti i miei compaesani, stufi di subire continue sanzioni e di non poter nemmeno più bestemmiare, per strada (o toccare di sfuggita, nei bar affollati, le parti anatomiche di pregio di questa o quella fanciulla), avevano cominciato a detestare sinceramente la religione e per ripicca boicottavano la Messa allegramente.
E anche quando, come me, ricevevano l'ordine di pagare e corrispondere questue salate, piuttosto che andare a Messa preferivano lasciare l'intero importo della multa in canonica, cacciandolo stizzosamente nella buca delle lettere.


La polizia diocesana, caro Gesù, era un vizio di tutti i vescovi, non solo di Don Naiòlo: ecco perché la situazione si stava facendo intollerabile ovunque, in Italia e nel mondo.
Risultato ineluttabile e deprecabile: le chiese eran sempre più vuote... e "cave".


"Le vostre Messe sono fiacche. Non hanno audience!" - tuonavano i vescovoni indignati, constatando il progressivo e incalzante disinteresse delle moltitudini per la tua Parola - "Rimediate, mammalucchi. O è scomunica per voi!". E i parroci, atterriti, per salvarsi l'anima e il posto obbedivano prontamente, sforzandosi di escogitare trovate geniali che rilanciassero il cristianesimo e i suoi ascolti.
Ad esempio Don Aldùck, il curato eschimese di Sant'Arello (ovvero il paese in cui abitavo e abito), cercò per l'Eucaristia soluzioni più emozionanti ed "agonistiche": fu così che riuscì a creare un rituale inedito, spiccatamente blasfemo.
"Il crocifisso della cuccagna" lo chiamava ed era un'autentica competizione a squadre che si svolgeva di domenica. A renderla possibile, contribuì in maniera cospicua e spaventosa l'enciclica papale "Bàstam che vegnunt".
Si trattava, caro Gesù, di un documento ufficiale, e direi scandaloso, che autorizzava i parroci d'ogni nazione a inventare e ordire persino liturgie peccaminose, pur di attirare a Messa almeno i classici quattro gatti.


II

San Bifolco Primigenio era il tuo antico tempio, nonché luogo di culto, in cui noi contadini di Sant'Arello ci riunivamo per celebrare il mistero della morte e resurrezione.
Seduti sulle panche, prestavamo orecchio e attenzione alle omelie dell'eschimese. Il quale, per mesi abbondanti, ne ebbe pochi pochi di spettatori. Però "il crocifisso della cuccagna", con il suo avvento, eliminò totalmente il problema, infittendo drasticamente il pubblico domenicale. Adesso eravamo in tanti a bazzicare la chiesa e Don Aldùck gongolava. Senza ritegno e per esteso.
"Diletti figlioli" - annunciava a un tratto dall'altare - "rendiamo grazie a Dio e un bell'applauso all'ostia consacrata". E mentre noi fedeli battevamo le mani a scroscio, il prete sollevava con gesto intenso la pisside rilucente. Dopodiché, atteggiando il volto a mistico raccoglimento, la riabbassava lentamente estraendone infine un'impeccabile ostia tonda e immacolata, che porgeva ieratico ai bravi chierichetti. Essi, profondendosi in movenze solenni ed aggraziate, s'impadronivano con reverenza del pio dischetto, contenente il tuo corpo. Quindi lo adagiavano delicatamente in un vezzoso sacchetto di seta profumata che, tramite una cordicella esile ed un sistema di carrucole, issavano rapidamente in cima ad un crocifisso poderoso e svettante. Proprio quello che Don Aldùck aveva fatto erigere al centro del transetto, ordinando espressamente che arrivasse a sfiorare le capriate della chiesa.
Ebbene quando il sacchetto, al culmine della sua "ascensione", s'arrestava a coprire in parte il cartiglio siglato dalla scritta "INRI", noi Sant'Arellini smettevamo all'istante di acclamare l'ostia, e subito iniziavamo a spostarci verso il portale di San Bifolco. No, non per uscire. Ma per suddividerci coreograficamente in due gruppi: uno per ciascun rione del nostro paese.
Io ero fra gli uomini della Zappa, che si sistemavano sempre a destra dell'ingresso; i rappresentanti della Forca si mettevano invece a sinistra.
A questo punto Don Aldùck, arringandoci dal pulpito, esclamava in toni profetici da imbonitore: "Halleluia, fratelli e sorelle! Voi conoscete le regole, o meglio i comandamenti, del "Crocifisso della cuccagna". Primo: ad un mio cenno, il campione della Zappa e il portacolori della Forca, partendo dal limitare della navata mediana, si lanceranno di corsa e a precipizio in direzione del crocifisso; secondo: si arrampicheranno veloci, a forza di muscoli; terzo: colui che, scalato il crocifisso spilungone, avrà saldamente abbrancato il venerabile sacchetto in cui i miei valletti hanno testé sigillato l'ostia simbolica, vincerà senza dubbio alcuno un soggiorno gratutito a Evangelic World (il nuovo parco di divertimenti cattolico, di recente inaugurato dal Papa in Vaticano). Ma soprattutto acquisirà per sé e il suo rione il diritto ad usufruire, per questa domenica, del sacro e inviolabile servizio pubblico della divina Comunione.
Al contrario il perdente verrà escluso dall'Eucaristia e così gli appartenenti alla sua contrada. Che dovranno dunque sperare in una miglior fortuna, domenica prossima".
Sbrigato il cerimoniale delle istruzioni, Don Aldùck, che essendo di origini toscane parlava l'italiano a meraviglia, si frugava brevemente e con affanno: ispezionati inutilmente i paramenti, investigava trafelato nelle tasche della tonaca, tirandone fuori (con sollievo) una tua immaginetta spiegazzata. Col tipico gesto dell'arbitro che ostenta il cartellino, la mostrava per un attimo all'assemblea dei contendenti (dischiusi in due come nell'Esodo il Mar Rosso) e subito avvicinatala al viso, la sfiorava con le labbra, simulando e rievocando ad un tempo il famoso bacio di Giuda.
Era il segnale. Era il via! La battaglia si scatenava incontrollabile.


Devi sapere infatti, caro Gesù, che durante il discorso di Don Aldùck sulle modalità e i premi della gara, i membri dei due rioni ne approfittavano per consultarsi e confabulare concitatamente. E al termine di una discussione tanto rapida quanto isterica e burrascosa, decidevano chi incaricare della prova. Così, quando il sacerdote arrivava a pronunciare le ultime frasi della sua introduzione, i prescelti (che di norma erano due baldi ventenni, d'età acerba ma di muscoli maturi) eran già pronti all'imbocco della navata centrale. E appena l'eschimese, in un silenzio religioso (o forse eretico ed osceno, dato quello che stava per accadere), scoccava melenso il bacio di Giuda, altro non dovevano fare, i giovanottoni, che scaraventarsi furiosi alla ricerca della vittoria.
Si producevano allora in uno scatto furibondo e frenetico. Intanto, mentre sfrecciavano atletici e spalla a spalla lungo la stretta corsia che, passando fra i banchi della chiesa, conduceva al crocifisso, non trascuravano di picchiarsi ardentemente, nel virile e vicendevole tentativo di eliminarsi brutalmente. Ciascuno dei due, insomma, desiderava rimaner solo e involarsi beatamente, senza più intralci, a ghermire il sacchetto della discordia. Anzi della cuccagna.


La scazzottata deambulante e assassina imperversava fino ai tre preziosi gradini di travertino che, in San Bifolco, separavano la navata centrale dal transetto. Il quale era occupato per intero da una piattaforma marmorea lievemente sopraelevata, su cui sorgevano l'altare e, poco più indietro, il crocifisso.
In genere, superata d'un balzo la piccola rampa, i due demoni incolleriti ed eccitati, cessando di combattersi, schizzavano l'uno a sinistra, l'altro a destra dell'altare, raggiungendo poi (con impeto "missilistico") la base del crocifisso.
Qui i due razzi antropomorfi, ribollenti di energia e volontà d'imporsi, cominciavano immediatamente ad inerpicarsi verso l'alto, con colpi di reni impressionanti.
Chi stava davanti, scalciava imbizzarrito con l'obiettivo di calpestare in faccia l'inseguitore e buttarlo a terra con violenza; chi stava dietro, si difendeva dribblando con repentini scarti del collo i piedi irrequieti e focosi del rivale e si studiava, inoltre, di afferrargli una caviglia od un polpaccio, da scuotere e tirare crudelmente.
Se lo strattone era rude a sufficienza, il nemico crollava di botto sulla piattaforma, spesso fratturandosi qualche osso indispensabile e determinante.
Quando il concorrente che cadeva, si sfracellava scompostamente perdendo la vita o comunque ogni possibilità di continuare la lotta, subito dalla torma dei suoi compagni rintanati in fondo alla chiesa, prorompeva al galoppo un sostituto che urlando: "All'attaccooo!!", si proiettava (smanioso d'energia rombante e marinettiana) alla conquista del sacchetto.
Poi, transitando a passi forsennati sul corpo frantumato del predecessore, si scagliava su per il crocifisso protendendo la testa, la bocca e i denti a mordere (insaziabilmente!) le gambe e gli stinchi del contradaiolo avverso. Costui, non ancora in cima, si sentiva dunque azzannare all'improvviso, con forza. E con una tale, atroce perizia che, per quanto abbarbicato al legno della croce, poteva anche abbandonare la presa, per un istante fatale, scivolando irrefrenabile all'ingiù, a coinvolgere l'aggressore in una rovinosa catastrofe a due che aveva come destino inevitabile un tonfo marchiano al suolo.
Gli echi delle ossa, che piombando dall'enorme altezza del crocifisso, si spezzavano nell'impatto, venivano subito coperti dagli schiamazzi luculliani di due nuovi sostituti che, sprintando nevrotici e dementi per la navata centrale, si tormentavano di pugni alla volta del crocifisso.


C'erano domeniche in cui i morti aumentavano a dismisura: si affastellavano sulla piattaforma, accatastandosi in uno strato consistente e funereo, che Don Aldùck e i chierichetti provvedevano a sfoltire ogni dieci o quindici minuti, trasportando in sagrestia i cadaveri più ingombranti e grossi.
In questo modo i guerrieri dell'ostia avevano a disposizione uno spazio maggiore e, in prossimità del crocifisso, non erano costretti a rallentare o fermarsi, per scavalcare con attenzione il cumulo dei defunti.
Che a me, non lo nascondo, fu molto utile, quando anch'io dovetti sobbarcarmi la fatica di strisciare in verticale verso il traguardo, ossia il sacchetto eucaristico, tanto ambito e disputato.
Ero entrato in gara come sostituto, starnazzando grida "belliche" e, con foga delirante, avevo disarcionato dalla croce il mio antagonista.
Insistendo poi con ferocia alpinistica ad issarmi e salire, stavo già per superare il tratto più difficile della scalata: quello in cui bisognava affrontare e valicare il tuo corpo ligneo e immobile, inchiodato per sempre nell'atto di sorbirsi eroicamente la sofferenza del Golgota.
Per aiutarmi e filare via più spedito, pensai d'aggrapparmi al tuo braccio sinistro. E qui il disastro: il bifido arto (di mogano friabile e "arrendevole", dovuto ai denari scarsi e indigenti avanzati a Don Aldùck dopo le spese per il crocifisso) non resse minimamente il peso, troncandosi anzi (oserei dire con prontezza di riflessi) in corrispondenza del polso e dell'ascella. Mi rimase così in mano, mentre (sollecitamente) precipitavo a schiantarmi.
Per fortuna il mucchio soffice delle salme e dei feriti mi accolse gentilmente, attutendo la mia discesa a capofitto, che si concluse, allora, senza danni o contusioni, e con un semplice svenimento.
Però il terrore che provai mi spinse a ragionare. Mi chiarì le idee, cominciando a farmi nutrire dubbi nerboruti sulla santità e opportunità di quel subdolo giochino, denominato "Crocifisso della cuccagna".


Un giochino regolarmente accompagnato e ornato dal tifo indiavolato dei rioni. Perché se i più ginnici e robusti andavano gagliardamente al macello nel tentativo di accaparrarsi l'ostia, coloro che restavano in fondo a San Bifolco, in attesa di diventare eventualmente sostituti, si esibivano in cori sguaiati d'incitamento e supplica.
Come dimenticarli?
"Signore alè, Signore ohò" - berciava la Zappa ad una sola voce - "la vittoria dacce 'm bò!".
"Alè-lu-ià, Alè-lu-ià" - replicavano i Forcaioli con cadenze da stadio - "siam truci come ultrà e la vittoria abbiamo già!".
"Dio vi odia e vi distruggerà" - ribatteva la Zappa, declamando all'unisono un insulto in rima - "Vi seppellirà
schifosi indegni
nella cappella
degli Scrovegni!".
Le preghiere si riducevano, insomma, a squallide e inviperite gazzarre verbali da incontro di calcio e nel frattempo Don Aldùck sorrideva estasiato, dal pulpito: "Oh fratelli, è miracoloso!" - tripudiava giulivo - "Non avevate mai partecipato alla Messa con un simile fervore! Sì! Sì, pecorelle incontaminate del Buon Pastore: implorate l'Onnipotente, fomentatelo ad esaudirvi! Ed Egli... vi obbedirà! Alè-lu-ià!".


III

Le iniziative di Don Aldùck ebbero risonanza e successo: la religione vantava ora indici di gradimento sbalorditivi e i Sant'Arellini la amavano a tal punto, che in molti si recavano dall'eschimese a fargli complimenti ed anche richieste un poco originali.
Io, che in chiesa non andavo più in quanto scoraggiato dal cascatone pauroso in cui ero incappato, venni lo stesso a sapere dagli amici che, capeggiata sagacemente dalla giunta comunale, una delegazione di miei compaesani aveva reso visita e omaggio al parroco, per proporgli un progetto di fede, e di culto, che il sindaco aveva a lungo ponderato e meditato, con i suoi assessori.
"Padre" - aveva esordito, in canonica, il primo cittadino, allisciandosi Don Aldùck e stregando i presenti con uno sfoggio oratorio di virtuosismi fascinosi e dialettici - "Padre, le Messe organizzate da voi sono una chicca! Un'estrema chicca! Bravo! Che talento! Siete riuscito, in un baleno, ad ispirarci un desiderio folle, una voglia infinita sterminata, quasi epilettica!, di Messe e liturgie.
Ma siccome la Messa altro non è, in realtà, che un prendere contatto col superno e superbo Creatore, noi siamo qui a impetrare umilmente un favore. Perché, reverendo, non benedite le nostre mogli? Oh, se voi acconsentiste, esse si empirebbero di grazia divina e noi mariti devoti, possedendole alla sera, entreremmo a contatto con Dio ogni giorno, e non più soltanto di domenica.
In una parola, egregio e stimatissimo ambasciator dei cieli, ciascuno avrebbe in casa una Messa vivente e privata, a domicilio. E il cattolicesimo trionferebbe, allora, senza limiti!".
Don Aldùck, persuaso a pieno lì per lì dalla concione illuminata tenutagli dal sindaco, accettò di passare tre o quattro settimane di lavoro assiduo, durante le quali benedisse alacremente, senza concedersi riposo.
Il prete girava instancabile per alloggi e condomini, aspergendo d'acqua santa la fronte di femmine e consorti, e pronunciando indefesso litanie di rito e circostanza.
Quando finalmente s'accorse del grave errore che stava commettendo, era troppo tardi.
Che successe?
Beh i maschi, adesso che la Messa l'avevano comodamente fra le lenzuola, non reputarono più vitale e necessario frequentare San Bifolco Primigenio (o San Buzzurro Cavernicolo, l'altra chiesa di Sant'Arello).
E dal canto loro, pure le donne disertarono in massa le funzioni di Don Aldùck. Infatti, essendo tutte benedette e quindi traboccanti (o almeno così credevano) di grazia divina, si montarono la testa, cadendo in preda ad una strana presunzione spirituale e spiritata, sull'onda della quale si convinsero d'essere diventate colui che viene normalmente indicato come il tuo babbo: cioè il Signore in persona!
"E allora se siamo Dio" - pensarono invasate - "per entrare a contatto con noi stesse, basta che ci masturbiamo di mattina o nel pomeriggio, quando i nostri mariti son fuori nei campi".


Sì, hai capito bene: la Messa aveva perso d'attrattiva. Perché il sesso, chiaramente, è meglio di qualunque strage, anche di quella più ludica e divertente.
Insomma Don Aldùck rimase irreversibilmente senza pubblico e, orbato dei fedeli, si sentiva orfano e triste.
A peggiorare le cose ci si mise il vescovo, che un giorno convocò l'eschimese, per rimproverarlo aspramente: "Le tue Messe" - sibilò - "sono fallimentari e in crisi efferata di presenze. Questo significa, simpaticone mio, che dovrai subire una punizione esemplare!".
E il gerarca ecclesiastico strappò barbaramente i gradi di sacerdote dalla tonaca di Don Aldùck. Per sovrattassa il poveretto fu poi declassato, senza pietà, a frate semplice e deportato, seduta stante, nell'eremo penale di Montecatto, ov'erano rinchiusi quei preti sciagurati che, nelle parrocchie di loro competenza, non erano riusciti a rendere la Messa popolare e richiesta.
Nel mondo concentrazionario che ormai lo ospitava, Don Aldùck (obbligato come tutti i suoi colleghi di prigionia ai lavori forzati) conobbe lo strazio e la disperazione.
Ogni detenuto viveva in una cella monastica piccola e gelida, munita di altoparlante. Da quest'aggeggio infernale esplodeva amplificata, al mattino presto (le due, nientemeno!), una voce rauca e ringhiosa, che sbavando bile e perfidia, sbraitava arcigna: "In piedi, marmaglia!".
Era così che il cardinale, direttore del carcere, usava dare la sveglia ai galeotti. I quali, barcollanti e pesti di sonno, venivano presi in custodia dai secondini: una schiera di perpetue vecchie, brutte e acide che, identiche alle erinni mitologiche, impugnavano lunghi e massicci pastorali, con cui vibravano bastonate formidabili sulle schiene martoriate degli ex-parroci, gementi e tremebondi.
Strapazzati a sangue e scortati, fra improperi e minacce, nei boschi tetri che circondavano il convento di massima sicurezza, Don Aldùck e gli altri condannati venivano costretti ad abbattere e spaccare piante ed alberi. Dopodiché, trascinati a suon di mazzate nelle officine dell'eremo, intagliavano con attrezzi pesanti, che sfiancavano le braccia, i rami e i ciocchi raccolti all'esterno. Infine, guardati a vista dalle perpetue iraconde, selvagge e mostruose, trascorrevano le ore interminabili e dolorose del pomeriggio, fabbricando ininterrottamente rosari e crocifissi.


IV

I vertici vaticani lo hanno proclamato irrecuperabile alla fede, il mio paese, e lo hanno messo in quarantena, isolandolo dal resto del pianeta Terra. E adesso noi Sant'Arellini viviamo a parte.
Intorno alle mura medioevali che da secoli racchiudono il nostro abitato, i posti di blocco della polizia diocesana sono impenetrabili: nessuno e niente esce, nessuno e niente entra.
Io, caro Gesù, ho cercato di evadere, una volta. Ma mi hanno scoperto e riportato indietro, nella mia botteguccia.
Oh, è una stanzetta minuscola, dove mi improvviso falegname. Già, proprio come quell'infelice di Don Aldùck (a proposito, è morto da due anni... ). L'unica differenza è che io mi limito a produrre assicelle.


Certo, all'inizio della quarantena, il desiderio di uccidermi è stato assillante ed ostinato: perché quando nei nostri negozi e supermercati le derrate alimentari ancora in magazzino si saranno attenuate e assottigliate del tutto, per noi (che da fuori non riceviamo più nulla) sarà la tomba.
"E allora mi ammazzo subito!" - ho farneticato lì per lì - "Se non altro mi risparmio l'angoscia dell'attesa... l'attesa della comare secca!".
Insomma, che dire... la disperazione per un momento mi ha sovrastato: voleva giustiziarmi, la megera, e impiccarmi senza rimedio. O meglio: a impiccarmi o quasi, sono stato io.


Nella chiesa definitivamente silenziosa e deserta di San Bifolco Primigenio, fissavo con occhi allucinati e amari il crocifisso della cuccagna. E, tormentato anche dal ricordo urticante e mai spento della mia Dolchumi, esaminavo e valutavo il sistema di carrucole che, per così tante domeniche, era servito ad "inastare" il sacchetto con l'ostia.
"Se sostituisco la cordicella fragile che ancora c'è" - mi suggerivo - "con una fune decorosa, il suicidio è fatto!".
Se poi avessi trovato un contrappeso adatto, applicandolo al sistema di carrucole avrei donato a quest'ultimo la forza necessaria a catapultarmi in alto e appendermi di netto al sommo della croce.
Con entusiasmo già mi immaginavo nell'atto di dare il via alla mia morte, infilando la testa in un capo della fune, opportunamente sagomato a cappio.
Con sollievo già mi vedevo decollare inarrestabile e salire a turbine attraverso il sistema di carrucole.
Con giubilo già mi sentivo penzolare nel vuoto, il cuore paralizzato e freddo. E nell'agonia, sfruttando gli istanti finali del mio cervello, avrei pensato esultante: "Oh gloria! Oh vittoria! Il mio strangolamento da nodo scorsoio non ha incontrato ostacoli di sorta e ha conosciuto, anzi, un pieno successo!".
Sì, una morte riuscita. Questo vaneggiavo. Una morte rapida e priva d'ansia, diversa da quella graduale e penosa per fame.
Ma quando tornai a San Bifolco, dopo i tre giorni che impiegai a racimolare l'occorrente (fune e contrappeso), mi accorsi prontamente (osservando il transetto) che uno dei larghi e spessi bracci della croce era stato densamente colonizzato da cinque vispi bambinelli, che giocavano a festa intorno ad una casetta di legno, approssimativa e sbilenca.
Evidentemente l'avevano montata loro in quei tre giorni, lasciandosi portare in cima, proprio come avevo pianificato e sognato io, dal sistema di carrucole. Al quale avevano puntualmente cambiato la corda e agganciato persino un contrappeso.
Guardandoli, capii che non era il caso di ammorbare le loro risate, i loro scherzi e giochi con il fetore di un morto ciondoloni, e subito mi dileguai dalla chiesa, deciso anzi a cooperare alla gioia pura e candida, cui avevo assistito.
Per questo ora, nella mia bottega, inganno l'angoscia della fine e l'amore rabbioso per Dolchumi, confezionando e preparando listelli di legno leggero e ben levigato. Il mio scopo è regalarli affettuosamente ai bambini di San Bifolco, in modo che possano raddrizzare e consolidare la loro casetta. E magari costruirne un'altra. Tanto, Gesù caro, di spazio edificabile ce n'è abbastanza anche sul braccio destro della tua croce. Che così verrà diligentemente lottizzata, grazie al mio legno.


Tra un po', ahimè, non sarò più in grado d'inciderlo e piallarlo: è una cosa scontata e ineluttabile, purtroppo. Che ci posso fare... mi mancheranno le energie, per l'appetito grande e inappagato che mi colpirà incurabilmente, riducendomi debole, magro, scheletrito. E incapace di sorreggere gli arnesi.
Allora li adagerò con calma in un angolo del mio laboratorio e a passi lenti e macilenti m'incamminerò verso San Bifolco, per consegnarti (posandola ai piedi del crocifisso) questa lettera che ti sto scrivendo. E che voglio terminare con serena e pacata malinconia, lodandoti apertamente e asserendo con arguzia e verità: "Buon Gesù, tu sei stato il solo vero uomo mai esistito. Ecco perché, in Palestina, ti presero tutti per un Dio.
Ergo e in conclusione: il cristianesimo altro non è, ne converrai, che un increscioso equivoco".



PIETRO PANCAMO Sono nato nel 1972. Sono laureando in lettere all’Università "La Sapienza" di Roma, presso il Dipartimento di Italianistica e Spettacolo. Ho lavorato per tre anni in una casa editrice (la Thyrus di Terni), acquisendo a fine contratto la qualifica professionale di redattore. Ho poi collaborato, come articolista, con varie riviste fra cui "Cinema Studio", periodico on-line di critica cinematografica, curato e gestito da alcuni docenti dell’Università "La Sapienza". Sono giornalista dal 2001. Attualmente scrivo articoli di cultura e sport per il "Corriere dell’Umbria", quotidiano di Terni e Perugia. Con le mie poesie e i miei racconti, ho ottenuto diversi riconoscimenti fra cui il 1° posto assoluto al "Premio città di Torino", il 2° posto al "Trofeo Medusa Aurea" (indetto dall’Accademia Internazionale d’Arte Moderna di Roma) e il 3° posto al concorso "Omaggio a Luigi Pirandello" (Roma). A gennaio del 2003, una mia poesia comparirà, tradotta in inglese, sulla rivista canadese "Filling Station".

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