"NUOVI MISTERI ITALIANI" di Carlo Lucarelli (Einaudi, 2004) |
"ALMOST BLUE" di Carlo Lucarelli (Einaudi, 1997) |
"IL LATO SINISTRO DEL CUORE" di Carlo Lucarelli (Einaudi, 2003) |
visitate il sito http://www.carlolucarelli.net
un racconto sull'inquietudine che ho scritto
un po' di tempo fa ma che mi piace molto
e che non ha mai avuto una sua vera vita.
Mi fece selezionare alla Biennale Giovani
dell'88 ed è stata la mia prima cosa letteraria
considerata da qualcuno e poi è morta lì.
L'ho rivisto, ho cambiato alcune cose ma
continua a piacermi ed ad essere indice di
una ricerca sull'inquietudine che continuo
a perseguire, più o meno su quello stile.
Il fatto che non sia un noir me lo fa apprezzare
di più...
Carlo Lucarelli
L'UOMO CHE AMAVA SPAVENTARE I GATTI
di CARLO LUCARELLI
Una mattina di marzo, tornando da una marcia, Vittorio ebbe un'erezione guardando un caporale.
"Eppure non mi piacciono gli uomini" si disse quattro mesi dopo, steso su una rete della camerata ad osservare il soffitto imbiancato migliaia di anni prima, chissà da chi, disgraziati come lui che PLIC PLAC col pennello, schizzandosi il naso e il cappellino di macchie chiare, secche e grinzose. Disgraziati come lui che tutte le mattine Battaglione, att-tì! alzabandiera! e via, l'Inno d'Italia, tutte le mattine, per sette giorni alla settimana, per quattro settimane al mese, per dodici mesi all'anno. Esclusi venti giorni di licenza, comprensivi del viaggio.
Vittorio si voltò di lato, sulle mani aperte che gli sostenevano la testa, appoggiate al materasso piegato in due e da sotto alla suola di un amfibio spuntò in prospettiva una bottiglia di acqua minerale, nuda e senza tappo, tutta sgassata, sola su un tavolo di legno. Fuori erano ormai le sei. C'era una luce grigia che entrava nella stanza e tagliava uno spicchio sottile di buio nella camera vicina, come la lama di un coltello, entrava dalla porta socchiusa e illuminava gli occhi e la fronte bianca del tenente. Anche lui guardava il soffitto, come Vittorio, con le mani allacciate dietro alla nuca, le gambe in alto, appoggiate alla sponda del letto e il sedere segato e segnato dalla rete nuda, attraverso i pantaloni.
"Che paranoia" pensò Vittorio e ne sentì il sapore sui denti, spesso e ruvido come la coca cola a digiuno, quando fa stridere i molari sopra le otturazioni. Fermo gli diceva il dentista, se ti muovi adesso rovini tutto il lavoro. Fermo, abbiamo quasi finito, fermo che manca pochissimo... ecco, siamo a metà e il terrore di muoversi faceva più male del trapano, peggio del gonfiore umido della garza sotto alle guancie, peggio del dolore dei muscoli del collo tesi.
Il tenente aveva la fronte larga e gli occhi fissi. Tempo prima, forse un mese, Vittorio era stato ad ascoltarlo, appesantito dal sonno delle due e mezzo, mentre lui li indottrinava su una guardia, ciociaro con le stellette e il fazzoletto rosso e il baschetto nero che girava attorno alla punta di un dito. Chi è che monta in riservetta? nun è che mme fate scherzi, vero? come quello matto della settimana scorsa che ha spaccato il fucile? Quello era uno sbracato, un napoletano... quando so' annato a fa’ l'ispezione ho tirato fuori la pistola perchè mica lo sai che fa uno così... lui c'ha il fucile e metti che carica e spara... prima je sparo io, no? Io je sparo sì..."
Vittorio ascoltava sonnecchiando, curvo su una panchina di legno, sotto il peso insopportabile delle spalle. Cazzo che sonno, cazzo che noia pensò allora come adesso. Si addormentò nella camerata per cinque minuti, sulla rete nuda che gli scavò una stella nella pelle bianca di una spalla.
Quella notte fece un sogno erotico così malato che lo svegliò il turbamento più che lo stimolo sessuale. L'angoscia lo raggiunse sopra lo stomaco, appena sotto al cuore, come un dito caldo piegato ad uncino e solo dopo, in ritardo, la pressione del sangue gli schiacciò il pisello contro l' elastico delle mutande. Aveva sognato una ragazza, calda e abbronzata, bella, con la maglietta nera lenta sul seno, che gli sorrideva in modo indecente e in quel momento lui seppe per certo, chiaro e lampante come una dimostrazione geometrica, che fra uomo e donna non era possibile alcun rapporto costruttivo. Dio mio, e perchè? Mah? Non se lo ricordava più, era svanito col sogno che evaporava inconsistente come la nebbia dei fossi.
Si svegliò senza accorgersene e si sarebbe infilato volentieri una mano nei calzoni per spegnere sul lenzuolo, in mezzo alla camerata, tra fanti e caporali, quel dolore che lo irrigidiva e dimenticarsene con un sospiro, con un soffio profondo di piacere e un'onda concentrica che si allontana, come i cerchi di un sasso gettato nell'acqua. Ma non fece nulla. Si girò su un fianco, rannicchiato come un feto, con una mano sotto alla guancia e l'altra fra le ginocchia , fermo con gli occhi aperti - magari fosse stato in eterno, coperto di glassa come una torta e rigido, immobile, come una conchiglia fossile. In quel momento decise che non avrebbe mai guardato una donna, mai più, mai più, mai più. E perchè? Boh? Gli veniva quasi da vomitare.
"Oh, sveglia. E' l'una, su...".
Vittorio si alzò di malavoglia. Si allacciò il cinturone, con l'elmetto, la baionetta e la maschera antigas e si infilò il basco, appoggiandolo prima sulla nuca, con i lacci al centro e calcandolo sulla fronte a due dita, non di più, non di meno, dalla radice del naso, per poi tirarlo da una parte, su un orecchio. Rimase in dubbio se mettersi la giacca ma il caporale che doveva uscire con lui non l' aveva e dato che era di uno scaglione più anziano Vittorio decise di fidarsi della sua esperienza. Andò a pisciare, invece, ma non ci riuscì col pisello che lo guardava fuori dai pantaloni, irrimediabilmente dritto, tanto che avrebbe dovuto mettersi a testa in giù per combinare qualcosa. Ma gli sembrò un'idea idiota, indegna di uno che aveva capito tutto - senza ricordarsi come - del rapporto uomo-donna.
Uscì nella notte con il caporale. Il cielo era pieno di stelle, alcune isolate. Rimasero tutti e due sullo scalino della terza compagnia a guardare il piazzale, col basco piegato sulla fronte e il fucile su una spalla, a canna in giù, sbadigliando, poi il caporale disse andiamo, va' e si mossero assieme, un passo dopo l'altro, rassegnati. Vittorio si svegliò completamente e cercò di mettersi le mani in tasca, infilandole sotto al cinturone e incurvando una spalla per non farsi cadere il fucile. Masticò gli ultimi pezzi di sonno che gli impastavano la lingua e pensò a qualcosa da dire perchè il caporale, un bravo ragazzo di Milano con un naso che sembrava finto, gli era simpatico. Però, che notte, fresca e limpida, deserta e illuminata, con un vento da poesia. In una notte così si può incontrare il Diavolo, in piedi su un muretto, con le braccia conserte e l'impermeabile nero svolazzante, che ti fissa mentre ti avvicini, senza sorridere, alto e magro... oppure una ragazza bellissima, seduta per terra e appoggiata all'indietro, sui gomiti, che alza la testa nel vento per lasciarsi accarezzare i capelli, biondi e lunghi. Baciarla sulle labbra socchiuse e sulle spalle tese, senza che si muova, senza quello sguardo che fa male al cuore e al pisello, sempre dritto, premuto sulla cucitura - dura - delle mutande.
"Ahi" disse Vittorio mettendosi una mano sullo stomaco, dove l'angoscia lo turbava come un nocciolo radioattivo.
"Cosa c'è?"
"Niente".
"Andiamo a prendere un caffè alle macchinette. Ci vuole un caffè, adesso. Vediamo se ho le monete...". Il caporale scavò con le dita dietro alla custodia della maschera antigas e trasse di tasca un portafoglio marrone, tutto venato. Infilò le dita nello scomparto degli spiccioli mentre Vittorio contava le monete nella tasca, sotto al fazzoletto. Un gettone, cento lire, cinquanta lire, porca troia...
"Hai mica cento lire?" chiese e il caporale annuì, un po' serio. Non si capiva se gli scocciava o meno. Si avvicinarono in silenzio alla macchinetta del caffè, nell'androne illuminato della quarta compagnia. Nel silenzio della notte la macchina ronzava e ogni tanto il termostato che regolava la temperatura del caffè scattava, con un rumore vibrante e prolungato. Sembrava viva, luminosa e sorridente, rabbrividiva succhiando avida le monetine e si scuoteva in un orgasmo quando un dito provocante le toccava i capezzoli larghi e neri, consumati dall'uso. Da dietro alla porta di una camerata si affacciò pallido e allucinato il piantone, con gli occhi spalancati da due ore di sonno represso dietro alle palpebre, compresso nel cervello come il gas di una bottiglia di frizzina. Il caffè diede un po' di vita a Vittorio che uscì nel vento meno turbato e con la forza di evitare il ricordo di quella ragazza dallo sguardo indecente che andava oltre al sogno annidato dietro alla nuca, oltre al sesso nascosto sotto allo stomaco. Come quando una notte, in treno, di ritorno da una licenza, tre ragazze jugoslave non lo lasciarono dormire dormendo tranquille accanto a lui, turbato dal loro sonno innocente ignaro del suo turbamento, che lo tenne sveglio per tutto il viaggio a spiare da dietro alle dita aperte le loro labbra socchiuse, le loro caviglie snelle, le loro palpebre abbassate, a sentirne i sospiri morbidi e il calore dei corpi allungati nella penombra, sui sedili. Avrebbe voluto coprirle come un velo per proteggerle dalla corrente fredda del finestrino abbassato o stendere su di loro - ma senza toccarle! - il suo membro eretto come una spada sguainata a difenderle dal controllore, infame, e dalla sua luce improvvisa, biglietti prego. Invece rimase fermo, schiacciato contro al finestrino, allucinato dal desiderio di sesso e di sonno, fino al momento in cui la sua fermata lo costrinse a svegliarle e a rannicchiarsi odiandolo, calde e gementi, per lasciarlo uscire.
Il caporale taceva, ma sembrava che non avesse bisogno di sentire parole. Rigirava la palettina di plastica trasparente dentro al bicchierino bianco, raschiando il fondo per sciogliere lo zucchero. A differenza di Vittorio, che si era scottato la lingua, lui beveva molto lentamente, lasciando raffreddare il surrogato marrone, forse caffè per davvero, che ipnotizzava il suo sguardo assente, ai lati del grande naso. Vittorio sbadigliò profondamente, spalancando così tanto le mascelle che per un attimo pensò di rimanere bloccato con la bocca aperta, magari per tutta la vita. Una volta c'era andato vicino, sentendo uno scricchiolio sinistro all'attaccatura della mandibola e un dolore acuto. Già si vedeva come uno di quei personaggi grotteschi dei racconti che sua nonna inventava per farlo mangiare, quando la mascella gli si richiuse di colpo con uno schiocco, come le fauci di uno squalo. Quella era una cosa che lo atterriva, come anche la paura incontrollabile di essere ferito all'ombelico, da quando un tipo - maledetto - all'asilo gli raccontò di un tale, un suo amico, che giocando si era sciolto il nodo dell'ombelico ed era morto, dissolto. Era una cosa che gli aveva procurato non pochi problemi nella sua modesta - ma onesta - vita sessuale.
"Ma stai fermo! Perchè ti tiri indietro così?"
"Ehm, nulla... il solletico".
"Il solletico? ma sei matto? lascia fare a me, guarda..."
"Dio mio" pensava sempre Vittorio "adesso muoio...".
Entrarono nell'androne di un'armeria e il caporale lasciò su un foglio appeso alla parete la sua firma di controllo mentre Vittorio guardava senza vedere assorto, distratto, e perplesso, pensando al pensiero di prima. Si chiese se anche il caporale avesse gli stessi problemi. Be', con quel naso qualcuno lo aveva per forza. Ma forse, chissà, anche un carburatorista muscoloso e abbronzato come un africano si sentiva schiacciato ed oppresso da una sensualità malata e quindi normale. L'ideale, pensò, sarebbe avere la pelle di plastica e il cuore di gomma e il ventre piatto e liscio come quello di un Big Jim, con un buco in mezzo e il pisello in tasca, sempre rigido e sempre pronto, con un perno filettato per avvitarcelo dentro in caso di bisogno. Ecco, così... magari. Niente più turgidità dolorose. Niente brividi e fucilate nella pancia per un bel paio di gambe accavallate ad aspettare il treno, lunghe e abbronzate dalle ginocchia scoperte fino alle caviglie snelle, una segnata appena da una catenella sottile e l'altra dondolante in aria, con un sandalo sfilato appeso alle dita piccole dalle unghie rotonde di un piede quasi nudo. O per la curva arrogante di un sedere rotondo, tesa sotto ad una gonna di stoffa nera, lucida come un disegno fatto con la china e sopra la pelle bianca e nuda delle spalle e quella bianca e nuda del seno che scompare sotto il vestito e lo gonfia appena, elegante e sensuale. Oppure l'ombra scura che appanna il triangolo chiaro di un paio di mutandine bianche tese su un ventre piatto e guizzante come i muscoli lunghi e forti che segnano l'interno delle cosce, strette attorno ai fianchi in un abbraccio pulsante - così, sì, così, ancora, dai, di più... Dio mio.
Vittorio scosse la testa, con gli occhi chiusi e il pisello ormai spiaccicato contro i bottoni della mimetica. Non si deve pensare a certe cose. Rinunci al peccato? Rinuncio. Rinunci al Diavolo? Rinuncio. E come si fa? E chi lo sa?
Se fosse come quando eravamo bambini, quando restavamo ore su un fianco, a letto la notte, immobili per l'ombra di un ghigno dipinta sul muro da un incubo, quando con il lenzuolo tirato sopra l'orecchio sudavamo ghiacciati in attesa di un sospiro nel buio - non sento, non sento - con gli occhi serrati - non vedo, non vedo - finchè l'alba non schiariva le finestre con un sonno esausto, un attimo prima che arrivasse la mamma, il latte e la scuola. E se fosse successo, invece? Se un colpo d'artiglio avesse strappato il lenzuolo per risucchiarlo nel buio o una mano pesante ci avesse schiacciato nel letto, uccisi dai mostri del sonno, adesso non saremmo qui, qui, qui, a dormire in pigiama, ad alzarci la notte per bere, a sognare e svegliarci bagnati il mattino, senza neanche sapere il perchè. Perchè?
Vittorio si accorse all'improvviso di essere tornato davanti alla terza compagnia. Il turno di pattuglia era finito, il secondo turno, il migliore. Entrò nella camerata in silenzio, facendo attenzione a che non gli cadesse in terra l'elmetto, sfilandosi il cinturone. Appena vide la branda con il materasso nudo, infossato dalla pattuglia appena uscita, caldo e accogliente come un nido, gli venne subito sonno.
Si addormentò di colpo e così ebbe fine il suo primo servizio di pattuglia, in cui seppe con certezza, per averlo sognato, che tra uomo e donna non era possibile alcun rapporto costruttivo.
Carlo Lucarelli (http://www.carlolucarelli.net) è nato il 26 ottobre 1960 a Parma, vive tra Mordano (Bo) e San Marino. Affermato scrittore di letteratura gialla e noir, sa mescolare sapientemente i generi tra loro ottenendo risultati sorprendenti.Vi invitiamo a visitare il suo sito per avere ulteriori notizie. lo curiamo sempre noi...