"LA FINALE"
di Leonardo Gori
(Hobby & Work, 2003)
"IL PASSAGGIO"
di Leonardo Gori
(Hobby & Work, 2002)

FRAMMENTI
di LEONARDO GORI
www.leonardogori.com



Non ho inediti nel cassetto. Solo capitoli non pubblicati dei miei quattro romanzi, più uno in scrittura. Però a volte ho scartato qualcosa per motivi diversi dalla scarsa qualità: magari un dialogo era troppo lungo e spezzava il ritmo, o un personaggio ha cambiato faccia nel corso del racconto, e alcune cose che aveva detto e fatto prima non andavano più bene. Succede: è il caso di Pietro Berti-Steiner, uno dei personaggi de "Il passaggio", edizioni Hobby&Work, 2002. Di seguito, due brani inediti. Il secondo è un flash del viaggio clandestino di una spia fascista (o qualcosa di simile) attraverso le linee, verso il Sud liberato. Un percorso singolare, diverso da quelli quasi sempre raccontati nei romanzi sulla Seconda Guerra Mondiale. Ma cose del genere sono davvero accadute.


1.

Il camion arrancava per la stretta strada in salita, in direzione del valico. L'autista sudava copiosamente, la camicia nera slacciata sul petto fino alla cintola, il berretto abbandonato sul sedile accanto. C'erano buche dappertutto, doveva prestare grande attenzione per non rovesciarsi, ad ogni curva. A portata di mano c'erano anche i documenti: il lasciapassare tedesco, ormai necessario per tutti, anche per i fascisti in fuga verso il Nord; la busta arancione con le istruzioni speciali. La polvere entrava negli occhi, si impastava col sudore, rendeva penoso anche il respiro.
Ma i militi sotto il tendone del camion stavano ancora peggio. Seduti sulle dure panche di legno, ai lati del mezzo, erano come imprigionati in uno strumento di tortura medievale, soffocati dal caldo feroce che trapassava il telo, con i fumi dei gas di scarico e ancora la terribile polvere, sollevata dalle ruote, che filtrava all'interno. I giovani della Milizia volontaria erano silenziosi, appoggiati ai loro vecchi fucili, senza più coraggio né la rassegnazione sufficiente a smorzare la loro angoscia di fuggitivi.
Il carico era al centro del camion, bene imballato con vecchie coperte e carta di giornale. Una gabbia di legno lo proteggeva adeguatamente, ed era difficile rendersi conto cosa fosse in realtà. Forse pezzi di ricambio per un'arma tedesca, oppure il patrimonio di qualche gerarca fiorentino, pensarono i più svegli. Nessuno pronunciò una sola parola per chilometri e chilometri, sulla statale verso Bologna, nel frastuono assordante del motore. Non avevano incontrato nemmeno una pattuglia tedesca, fino a quel momento, ma del resto anche i loro superbi alleati erano impegnati a fuggire verso il Nord, oltre la Linea Gotica, mentre a Firenze i paracadutisti del Colonnello Fuchs preparavano la loro opera di distruzione.
Fu proprio sul passo, che videro il blindato tedesco di traverso alla strada, vicino a una curva. L'autista cominciò a frenare per tempo, con un prolungato lamento metallico, poi si fermò, lasciando però il motore acceso. Accanto all'autoblindo con la grande croce nera c'erano almeno cinque militari, in assetto di guerra, con i pantaloni corti e i calzettoni grigi, i berretti e le insegne delle SS. Le due pattuglie rimasero distanti una decina di metri, quasi studiandosi. Poi uno dei tedeschi si mosse in avanti di qualche passo, facendo cenno all'autista di scendere dal mezzo. Il giovane fascista tirò il freno a mano, prese il lasciapassare e aprì lo sportello. I militi, sotto il tendone, cominciarono a parlottare fra loro, intimoriti. Qualcuno sbirciò fuori, e vide che le SS stavano disponendosi ai due lati del camion, con i mitra in braccio. I ragazzi strinsero più forte i loro fucili, con le mani sudate. Cosa volevano, i tedeschi? Pensavano forse che fossero partigiani travestiti? Il militare tedesco prese i documenti che gli porgeva l'autista, e li sfogliò lentamente. Poi pronunciò un nome italiano e indicò il tendone. L'autista fece un cenno di assenso, mentre si abbottonava la camicia nera completamente bagnata di sudore. Il tedesco girò molto lentamente intorno al camion, come se fosse nervoso anche lui. Scostò la tenda posteriore e vide i dieci ragazzi pallidi e sporchi, con le loro divise nere e le "M" rosse sul bavero. Incontrò i loro sguardi impauriti: non avevano più nulla della sicumera dei fascisti di qualche anno prima. Pensò che anche loro avevano solo voglia di tornare a casa, come tutti.
Il sottufficiale tedesco tornò sui suoi passi, guardando le SS schierate e facendo un impercettibile cenno d'assenso. Quando fu di nuovo davanti all'autista, gli porse il lasciapassare. Questi farfugliò qualcosa e si voltò per risalire sul camion. Non si rese conto di niente, quando il colpo di rivoltella gli trapassò la schiena e si conficcò nel cuore, facendolo cadere di schianto all'indietro, sulla strada bianca, con le carte che svolazzavano fra le ruote del camion. I militi fascisti, all'interno, si mossero in fretta e in disordine come polli spaventati in una gabbia. Quando i primi due scesero, videro solo il loro autista riverso per terra, gli occhi aperti verso il cielo bianco, in una pozza di sangue nero che la polvere della strada aveva già assorbito. Uno dei due corse verso il morto, chiamandolo a gran voce, mentre l'altro si voltava, sudando e tremando, da una parte e dall'altra. L'autoblindo tedesca era sempre ferma di traverso alla strada, ma i tedeschi sembravano scomparsi. Un'imboscata di partigiani, pensò, con terrore, guardando in alto, verso i fianchi delle montagne. Ma non succedeva niente. Gli altri militi scesero controvoglia dal camion, due per volta, e si disposero con le spalle all'automezzo. Fu in quel momento che la grandinata di pallottole, che veniva dal basso, da dietro i paracarri della strada, li falciò tutti in pochi istanti. I due o tre che riuscirono a reagire spararono alla cieca, prima di cadere; uno tentò la fuga, ma fu raggiunto immediatamente da un colpo alla testa, e rimase bocconi sulla strada con le braccia aperte, il fucile abbandonato a pochi metri di distanza.
Le SS si rialzarono da dietro i paracarri, e si diressero verso l'autoblindo. Il sottufficiale tedesco controllò innanzitutto che il carico del camion non avesse subito danni, poi si accertò, girandoli con il piede, che i fascisti fossero tutti morti. Estrasse la Luger, ancora calda, e sparò alla testa di due ragazzi, che emettevano un debole lamento. Poi ordinò ai suoi uomini di sciogliere la cassa di legno e di trasferirla nell'autobindo. L'operazione fu espletata in brevissimo tempo e con notevole efficienza. Il mezzo tedesco ripartì verso il Nord, lasciando sulla strada le evidenti vittime di un'imboscata partigiana.

2.
Berti-Steiner, i capelli neri lucidi incollati sul cranio, vestito con un paio di pantaloni grigi, una camicia bianca e una sorta di sahariana color crema, sedeva all'interno di un camion coperto da un tendone verde scuro, che non placava di certo i raggi cocenti del sole. Era decisamente esausto per il lungo e pericoloso viaggio, ma non aveva assolutamente il tempo per riposarsi. Si passò una mano sul mento e sulle guance bagnate di sudore: la sensazione della barba pungente lo rassicurò, si sarebbe facilmente mimetizzato fra la gente di città. Il camion rallentò all'improvviso, procedendo a passo d'uomo, pochi chilometri dopo aver lasciato la periferia sud di Bologna, ai primi contrafforti dell'Appennino. L'agente sapeva bene cosa doveva fare. Senza una parola, scostò il tendone e scese con un salto dal camion, che riprese immediatamente la sua normale andatura. Non aveva alcun bagaglio con sé, tranne la busta rigonfia e ancora sigillata che aveva l'ordine di conservare con la massima cura. Avrebbe dovuto sbarazzarsene subito, invece, se fosse stato catturato dai partigiani, dagli Alleati o da qualsiasi corpo di polizia, a meno che non fosse già in Firenze. Camminò lentamente lungo il ciglio della strada bianca, con l'orecchio attento a ogni rumore di aereo (che avrebbe potuto mitragliare la strada) e con lo sguardo vigile. La campagna, tutto intorno a lui, era arida come se la guerra avesse avuto anche il potere di prosciugare l'acqua dei campi e la linfa degli alberi.
Avvistò il casale dopo una mezz'ora di cammino, quando il sole era già scomparso da tempo dietro le alture, e l'aria si faceva sottile e fresca. Girò intorno alla costruzione, scavalcò una recinzione già in parte divelta, e si fermò in mezzo a un'aia da tempo deserta di polli e di altri animali domestici, finiti tutti nelle pentole di amici e di nemici. Guardò verso le finestre del primo piano, e intravide una testa d'uomo dietro ai vetri rotti. Allora prese un pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca, e con un temperino lo conficcò come un piccolo trofeo ad un albero di mele, al suo fianco. La testa dietro ai vetri scomparve, poi la porta posteriore della cascina si aprì con uno scatto.
Berti-Steiner entrò nell'andito buio, quasi rabbrividendo per il fresco improvviso. Il suo ospite era in piedi davanti a una sedia impagliata, al tavolo della grande cucina. Stava tagliando del pane, alcune fette di salame erano su un piatto azzurro, accanto a due bottiglie, di acqua e di vino, e ad alcuni bicchieri. Nessuno dei due disse una parola più del necessario.
- I vestiti dove sono?
- Di là, nella camera. Volete mangiare, prima?
- Dopo, grazie. Posso lavarmi un po'?
L'uomo, un contadino di mezza età ma con i capelli ancora nerissimi, gli indicò una catinella e una brocca d'acqua. Berti prese la busta e se la infilò nelle mutande, poi si tolse la sahariana di buon taglio e la camicia di sartoria, e si sciacquò con calma il viso e il torso, asciugandosi poi con un grande panno di lino, su cui c'erano delle lettere ricamate, un G e una D: evidentemente un corredo nuziale. Ma oltre al contadino non c'era nessun altro, né in casa né nei campi bruciati. C'era un pezzo di sapone, e se lo strofinò energicamente sui capelli bagnati, per portar via ogni traccia di brillantina. Mentre se li asciugava, tornavano naturalmente ondulati, quasi ricci, cambiandogli la fisionomia. Si tolse anche i pantaloni, e li gettò nel mucchio degli altri indumenti. Poi, in mutande, andò nella camera. Un grande, altissimo letto matrimoniale era quasi nel centro esatto della stanza, che odorava di paglia e di polvere. Un grande quadro era appoggiato per terra, con il vetro verso la parete: se ne vedeva ancora la traccia chiara nel muro, a capo del letto. Una Madonna di Pompei, pensò l'agente, mentre indossava i pantaloni neri da lavoro e la camicia bianca di taglio dozzinale. Entrambi i capi erano pulitissimi, ma non stirati. C'erano anche delle scarpe malandate, da una parte. Si tolse, con un sospiro, i suoi mocassini comprati un mese prima in un elegante negozio milanese e si allacciò le scarpe da contadino. Poi tornò in cucina, dove il suo taciturno ospite lo aspettava, fumando un pezzo di sigaro. Berti si accomodò al grande tavolo di quercia, e mangiò lentamente ma con gusto il pane e il salame, bevendo solo l'acqua di pozzo. Poi si sistemò meglio in tasca la busta segreta e si avviò verso la porta. Si voltò un attimo indietro.
- Allora grazie. Addio.
- Addio.
Appena uscito, staccò il pacchetto di sigarette dalla corteccia dell'albero, si rimise in tasca il temperino e controllò le sigarette: solo due erano state tranciate dal temperino. Le divise a metà, con attenzione, e si mise il pacchetto nella tasca dei pantaloni. Quando fu già lontano un centinaio di metri, sulla strada, si voltò di nuovo e vide distintamente l'uomo che bruciava qualcosa, nel campo. Un filo di fumo si levava alto nel cielo, il fumo dei suoi abiti "civili". La missione ora cominciava davvero. Doveva fare ancora un paio di chilometri da solo, senza dubbio i più pericolosi. Ebbe un tuffo al cuore quando vide un uomo con un carretto a mano, fermo al lato della strada, ma capì quasi subito che si trattava del suo secondo uomo, quello che lo avrebbe portato di là dalle linee, oltre la famosa Gotica.

Quelli che seguono sono frammenti di un romanzo che non ho mai completato. Il protagonista è un colonnello Bruno Arcieri ormai anziano, negli anni Sessanta. Molto presto, però, tornerò a lavorarci.

Il Colonnello Bruno Arcieri, anziano ufficiale dei carabinieri ormai prossimo alla pensione, era comodamente seduto dietro la sua triste scrivania fatta di tubi neri bruniti e col piano di formica verde chiaro. Il suo vasto ufficio gli ricordava una camera d'ospedale: mobili in metallo e vetro, pareti bianche, spoglie, sporche. Guardò con insistenza la porta chiusa, aspettando che chi attendeva bussasse. Si divertiva ancora a indovinare da quel consueto rumore l'aspetto e il carattere dei suoi poco allegri visitatori. Colpi leggeri, ripetuti, ravvicinati, di chi provava rispetto e timore: quelli erano i suoi sottoposti, ufficiali e sottufficiali. Due colpi timidi, e poi un silenzio di trepida attesa: in tal caso erano i convocati, gli inquisiti, i civili del mondo di fuori. Colpi decisi, forti, tre o più ancora, e allora la fantasia di Arcieri si sbizzarriva, nell'immaginare chi avesse tanto ardire.
Poi amava sorprendere chi veniva a trovarlo in ufficio, di sua volontà o meno. Arcieri era gentilissimo con tutti, rifuggiva dai brutali formalismi del suo mestiere. Non era una cortesia falsa, da alternare alle minacce, per cercare di mettere in difficoltà il suo interlocutore. Arcieri sconvolgeva chi veniva interrogato da lui proprio perché non c'era ombra di secondi fini, quando si scusava per lo squallore della stanza, o si alzava per prendere una sedia più comoda, o faceva portare qualcosa da bere per sé e per il suo ospite. Per sua scelta personale, aspramente contrastata negli anni dai suoi superiori, aveva preteso di poter continuare sporadicamente nel lavoro investigativo, che competeva ad altri. La prossima pensione avrebbe spazzato via anche quell'anomalia, quell'ultimo residuo del vecchio mondo, lasciando libero il campo ai magistrati zelanti e agli ufficiali e sottufficiali ubbidienti e pronti a eseguire gli ordini, ognuno nei limiti delle proprie competenze. Arcieri si passò una mano sui capelli grigi, che teneva ancora lucidi, incollati al cranio con la brillantina. Eppure non si sentiva vecchio, o piuttosto non si rassegnava a esserlo, avvertiva dentro di sé qualcosa di incompiuto, una carica di energia che ancora doveva produrre un effetto.
Fu riscosso dai colpi alla porta. Erano leggeri, ma ripetuti e decisi: quattro. Arcieri rimase lì per lì sconcertato: sapeva che era una donna giovane, quella che sarebbe dovuta arrivare, e il quadro mentale che si era fatto non si adattava a quel modo di bussare. Aspettò, senza una vera ragione, che entrasse proprio la ragazza che si figurava: di bassa statura, dal viso duro ma bello, vestita di scuro, molto giovane. Invece, quando dietro suo invito la porta si aprì, entrò una donna alta, vestita con un tailleur rosa antico, una borsa bianca, i capelli castano chiari raccolti sul capo. Era bella, certamente, ma non più giovanissima, forse sui trentacinque anni, la figura leggermente appesantita. Salutò il colonnello con un gesto impercettibile e camminò lentamente verso la sedia. Arcieri rimase immobile, seduto, lui sì sorpreso, per una volta, da un visitatore, e toccato da una nostalgia antica e dimenticata. Poi, quando la donna si fu seduta, si decise ad alzarsi, troppo tardi per riparare alla scortesia.
- La signora Maria Bruni, immagino.
La donna si limitò ad assentire in silenzio. Chiunque altro, in quel luogo, le avrebbe chiesto, brusco, di declinare le generalità complete. Ma lei non sembrò stupirsi affatto dell'insolita cortesia. Mise le mani sulla borsa, che teneva in grembo, e guardò negli occhi Arcieri con aria vagamente interrogativa.
- Dalla documentazione che mi hanno portato, signora, risulta che lei ha chiamato più volte i carabinieri perché insospettita dal fatto che il suo conoscente, il Dottor Matteo Garrese, non rispondeva da molte ore al telefono.
- È proprio così, signore. Matteo era anziano, malato, non usciva mai. Temevo il peggio, e avevo ragione.
Arcieri guardò ancora la donna: riconosceva in lei, per la grande esperienza che aveva di casi come questo, un dolore severo, controllato, ma onesto. Teneva le gambe unite, e la gonna le scopriva le ginocchia carnose, lucide per le calze di seta sottili. Le mani bianche che stringevano la borsetta non portavano anelli o braccialetti, le unghie non erano laccate. Al collo, più lungo del normale, un filo sottile di perle. Lo sguardo rimaneva fisso, ma non ostile, e Arcieri si sentì prendere dal rilassamento che provava di fronte a quelle donne sicure di sé ma non aggressive, eppure nemmeno inclini alla seduzione.
- Lei ha già subito un interrogatorio formale, signora, quale ultima persona che ha visto il dottor Garrese in vita. Mi scuso per le scortesie che certamente le saranno state usate.
Stavolta Maria Bruni reagì a quelle parole gentili e così fuori posto: inarcò appena entrambe le sopracciglia, e cominciò a studiare il volto vissuto ma ancora liscio di Arcieri. Un uomo anziano, sopra la sessantina, ma asciutto, elegante. Guardò i capelli lisci, grigi, attaccati al capo come si usava vent'anni prima, nell'Anteguerra. Non sapeva decidere se quella cortesia era vera o finta, e pensò di rimanere ancora sulla difensiva.
- Niente più di quello che mi aspettavo, signore.
Gli occhi di Arcieri si sollevarono dalla pratica e la guardarono ancora, con un sorriso.
- Costoro sono in buona fede, sa, non si rendono conto di cosa significhi vivere veramente. Tutto sta nel voler essere uomini o donne, oppure funzionare come inconsapevoli ingranaggi di una macchina. Ma purtroppo non abbiamo tempo, signora, per conversare amabilmente, e Dio sa quanto ne avrei bisogno.
Arcieri tornò a guardare le sue carte, le sfogliò lentamente, una dopo l'altra, senza leggerle.
- Lei ha visto per l'ultima volta il Dottor Garrese tre giorni fa, nella sua villa. Era in buona salute. Non manifestò paure particolari, non disse di aver ricevuto minacce. Mi scusi, signora.
Arcieri si alzò, girò intorno alla scrivania e si diresse verso una porta laterale. L'aprì, e Maria Bruni sentì distintamente il trambusto di qualcuno che si alzava con malagrazia da una scrivania e scattava sull'attenti. Ma non distinse le parole che il vecchio ufficiale mormorò all'altro carabiniere. Poi il Maggiore tornò sui suoi passi, fece al contrario l'identico percorso e si sedette di nuovo, senza fare alcun rumore.
- Ho chiesto che ci portino qualcosa. Mi perdoni, ma abbiamo solo del caffè. Spero che lo gradisca.
La donna sorrise, finalmente, senza rispondere.
- Eppure, l'altroieri il dottor Garrese è stato trovato morto, con una probabile frattura alla spina dorsale, in prossimità della prima vertebra cervicale. Il medico legale sospetta anche un infarto, ma ancora non si è pronunciato, sarà necessaria l'autopsia.
Arcieri fissò di nuovo la donna, il cui viso si era rabbuiato.
- Non credo che abbia sofferto molto. Certamente quando ha ricevuto il colpo, ma non in seguito. Si è spento abbastanza serenamente.
Con un gesto ampio dell'avambraccio, Arcieri scostò i fogli dal piano di plastica della scrivania. Prese un cartoncino bianco e una matita, e iniziò a scarabocchiare qualcosa.
- Il problema è che è stato trovato supino, composto, le mani lungo i fianchi, esattamente al centro di una grande sala circolare, su un pavimento di marmo lucido e molto lontano da qualsiasi oggetto contro il quale potrebbe aver urtato, per procurarsi quella frattura. È naturale domandarsi come possa essere avvenuto l'incidente, se di incidente si è trattato. Lei, signora, ha chiamato più volte per telefono il dottor Garrese, senza ricevere risposta.
Maria Bruni trasalì leggermente quando, senza fare rumore, un appuntato le servì dell'odoroso e fumante caffè nero, in una tazzina bianca dozzinale di porcellana, con un largo piattino, e le chiese se voleva dello zucchero. Fece un cenno di ringraziamento, rifiutò il cucchiaino e sorseggiò lentamente la bevanda.
- Lo avevo lasciato con la promessa di farmi viva almeno due volte al giorno. Ero già preoccupata la prima mattina, quando non ha risposto, ma non ho ritenuto necessario andare a verificare. Mi sono allarmata la sera, quando ancora il telefono ha squillato inutilmente. Ho pensato subito al peggio.
- Capisco. Il Dottore non usciva mai di casa?
- Mai, mai davvero. Lei sa che… Insomma, certamente avete fatto indagini su Matteo.
La donna accavallò nervosamente le gambe, carnose ma eleganti, poi posò la tazzina, ancora mezza piena. Arcieri teneva le mani giunte, a sorreggere il viso, e continuò a guardare gli occhi azzurro chiaro di Maria Bruni.
- Non aveva persone di servizio, mi dicono.
- Matteo viveva felicemente solo. Due volte l'anno, un'impresa specializzata puliva a fondo la casa. Come sa, ci sono delle esigenze particolari.
Arcieri assentì in silenzio.
- Riceveva i pasti pronti da un ristorante, e questo da moltissimi anni. Per il resto faceva da sé. Era un uomo ancora in grado di badare a se stesso. Beh, lo aiutavo anche un po', quando mi sembrava il caso. Mi sembrava giusto farlo, ma Matteo non mi ha mai chiesto nulla.
Inaspettatamente, Arcieri si alzò e porse la mano alla donna, per congedarla.
- Ci dovremo vedere presto, signora, appena saprò qualcosa di preciso dal medico legale. La prego di lasciare il suo recapito al piantone di guardia, uscendo, e il numero di telefono. Le sarò grato se nei prossimi giorni mi vorrà avvertire, se dovesse lasciare la città. È stato un piacere conoscerla.
- Arcieri si inchinò leggermente, mentre stringeva la mano a Maria Bruni, che uscì dal comando dell'Arma con addosso una leggera inquietudine.
Arcieri rimase solo. Guardò ancora la scheda di Maria Bruni, con dolorosa insistenza, come si guarda una foto raccapricciante. Era proprio la sorella di Filippo Bruni, come aveva sospettato fin dall'inizio. Aveva sbagliato a immaginarsela più giovane: nel 1945 doveva avere certamente almeno sedici anni, per cercare il cadavere del fratello, farlo ripescare dal lago, seppellirlo scavando lei stessa una fossa provvisoria. Che ci faceva, da Matteo Garrese? Cercava qualcosa, nell'archivio del vecchio, perso nella sua straordinaria follia? Tentò con l'immaginazione di figurarsi tutti i possibili motivi per spiegare l'eventuale assassinio del vecchio, ma non ne trovò uno credibile.


La morte dell'anziano dottor Matteo Garrese mise in agitazione diverse persone, in città e fuori. A Roma, un funzionario del Ministero dell'Interno riaprì una pratica polverosa, controllò un elenco di nomi e spedì un fattorino in un archivio periferico, per recuperare altri fascicoli. Poi fece alcune telefonate da una linea riservata.
In alcune città del centro-Nord, specialmente a Bologna, Reggio Emilia, Parma, ma anche a Milano e a Torino, molte persone di mezza età, padri di famiglia, professori rispettabili, commercianti, uomini politici di tutte le fazioni, passarono nervosamente alcune giornate in attesa di qualcosa, che poi alla fine non venne, e nel giro di un mese si dimenticarono quasi tutti della faccenda. Due di loro telefonarono più volte a vecchi amici che non sentivano da anni, senza con questo riuscire a tranquillizzarsi. Un vecchio maestro elementare di Torino fu colto da una violenta crisi di panico, assolutamente ingiustificata, e si uccise, gettandosi da un ponte. Ma era in cura da un neurologo da molto tempo, e nessuno dette peso alla cosa: meritò solo due righe dietro un puntino nelle brevi di nera, sulle pagine di cronaca del quotidiano.
Invece, tredici persone presero la cosa molto più seriamente. Aspettavano da tempo la notizia della morte del vecchio Garrese, e avevano pronto un piano particolareggiato da attuare subito dopo. Anche questi tredici uomini, alcuni di mezza età, altri più anziani, fecero una telefonata, ma si limitarono a confermare una località e un orario preciso, pronti da molto tempo. Mogli, figlie, vecchie governanti, amanti, si dettero pena per delle partenze improvvise, senza ricevere alcun particolare, e senza promesse di telefonate. Il capo dei tredici, un anziano ex militare, arrivò per primo al vasto albergo-ristorante, sul passo appenninico. Un locale decisamente fuori posto, esageratamente grande, quasi inutile, ora che la costruzione dell'autostrada aveva tagliato via dalla Statale tutto il traffico automobilistico fra il Nord e il Sud. Il locale era sempre semideserto, tristissimo, come i proprietari che si aggiravano nel salone panoramico ma buio, come anime del Purgatorio, senza rassegnazione.
Il "Generale", come si faceva chiamare, parcheggiò la Giulietta verde sullo spiazzo sassoso vicino all'ingresso. Spinse la porta a vetri e andò incontro al proprietario. Un juke-box, in un angolo, strillava un motivo alla moda, con un'insopportabile distorsione metallica.
Tintarella di luna. Tintarella color latte.
- Buon giorno. La saletta riservata è sempre uguale?
- Certo, Generale, cosa vuole che cambi.
Tutta notte sopra i tetti. Sopra i tetti insieme ai gatti.
- Verrà gente? Cominciano le belle giornate, ma noi vogliamo stare tranquilli, non ci piacciono i gitanti intorno.
Il proprietario del locale sorrise tristemente, mentre precedeva l'imponente e anziano ufficiale nella saletta dell'ammezzato, con finestre che davano sugli aspri pendii verdi dell'Appennino, verso Sud.
E se c'è la luna piena, tu-u diventi candida.
- Pochissimi, qualche famigliola, ma staranno tutti nel salone, semmai. Vi farò portare da mangiare. Abbiamo il fagiano, il cinghiale, la lepre, vi possiamo fare delle pappardelle straordinarie. Cosa preferisce, Generale?
Il vecchio scosse le spalle e borbottò qualcosa, poi entrò nella stanza, questa assai luminosa, ed ebbe un moto di soddisfazione, di cui si accorse il suo malinconico anfitrione.
Il rumore del juke-box si attenuò, smorzato dalla vastità dell'atrio.
- Bella, eh? Che peccato, quella maledetta autostrada del sole. Mi faranno finire in miseria.
- Bene. Torniamo giù, e aspettiamo gli altri. Avete lasciato a casa la famiglia, come vi ho detto?
- Certo, Generale, come lei ha ordinato. Sono solo, ma non c'è pericolo che abbia troppo da fare.
Al mondo nessu-una è candida come te.
Tintarella di luna. Tintarella color latte.
- Fatemi un caffè, intanto. E spengete quell'aggeggio infernale.
Il vecchio Generale si mise a un tavolino, in posizione strategica, in modo da controllare bene lo spiazzo e l'ingresso principale. Gli ospiti attesi arrivarono uno dopo l'altro, quasi contemporaneamente, da Sud e da Nord. Il gestore del locale ogni volta usciva trafelato e faceva spostare le macchine sul retro, in una strada sterrata quasi a strapiombo sulla gola. Era quasi buio quando tutti e tredici si misero intorno al tavolo nella saletta riservata, e iniziarono a mangiare di gusto il pranzo che era stato preparato per loro dal gestore e vecchio amico comune. Il Generale rimase in silenzio per quasi tutto il tempo. A parlare fu un occhialuto giornalista cinquantenne, magro e odioso, dai modi bruschi. Non aspettò nemmeno che fosse servito il caffè, per cominciare il discorso che aveva pronto da tempo.
- Ci siamo tutti, quelli ancora vivi, intendo.
I convenuti si guardarono l'un l'altro, senza un sorriso, sospirando.
- Il vecchio Garrese è finalmente morto. Quindi da lui, almeno, non ci dobbiamo attendere più rotture di coglioni.
Uno dei convitati interloquì, dopo aver guardato insistentemente gli altri. Parlava con un vago accento straniero.
- Perché dici "almeno lui"? Non viveva da solo dalla fine della guerra?
- Anche da prima, se è per questo. Dal '42, vero, Generale?
Il vecchio ex ufficiale soffriva di digestione difficile. Stava semisdraiato sulla sedia, in preda a cascaggini di sonno, e si limitò ad annuire.
- Però aveva preso, tre anni fa, una donna.
- Il vecchio Garrese aveva un'amante? Non è possibile!
- Io non lo so se se la scopava o meno, non me ne frega nulla. Aveva assunto questa, una certa Maria Bruni. Non so che cazzo facesse di preciso, forse aveva a che fare con quella assurda biblioteca.
- Perché, c'è la possibilità che questa donna abbia scoperto qualcosa?
- I documenti? Certo, è senz'altro possibile. In tre anni, hai voglia. Comunque questa complicazione mettiamola da parte, per il momento. Noi dobbiamo fare quello che sappiamo, che abbiamo stabilito tanto tempo fa. I documenti di Garrese devono sparire, questo è chiaro. Lui è morto, ma la sua folle biblioteca costituisce un pericolo. O selezioniamo i documenti, e questo è quasi impossibile, visto com'è messa quella casa del diavolo, oppure distruggiamo tutto.
Il generale finì di svegliarsi dalla sonnolenza che lo schiacciava contro la sedia e prese in pugno la situazione.
- Prima di parlare di distruggere, andiamoci piano. Le carte vanno sistemate in modo sicuro e tranquillo. Nessuno di noi deve aver noie, naturalmente.
L'uomo dall'accento straniero ebbe un vago sorriso.
- Su questo sono d'accordo anche i miei amici.
Il giornalista aggressivo ebbe uno scatto d'ira.
- Ma come? Lasciamo stare quelle carte? Senza più quel matto di Garrese a tenerle nascoste?
- Garrese aveva perso la testa. La villa, lo sai, non era più sicura da molto tempo. È un miracolo che non sia sparita roba, negli ultimi dieci anni. Solo perché siamo stati protetti, non è uscito nulla.
- E chi ci ha protetti, Generale?

Quello che segue è forse l'unico capitolo tagliato dal romanzo in libreria il prossimo 15 ottobre, "La finale", sempre col capitano Bruno Arcieri e sempre edito dalla Hobby & Work.

Solo per miracolo, nell'attimo in cui il grande specchio esplose con fragore assordante, Ginevra Casati non fu investita dalla pioggia di schegge di vetro, che piovvero sul letto e sul pavimento. Rimase immobile, per una manciata di secondi, a fissare sbigottita la grande cornice, con la sua immagine moltiplicata, riflessa da cento lame d'argento appuntite. Un attimo dopo, il legno della testata del letto mandò un rumore secco, come se fosse stata colpita da un martello. Arcieri, che si era già allontanato dalla finestra, si gettò con tutto il suo peso addosso alla donna, facendola cadere per terra. Ginevra Casati, che non aveva ancora capito nulla di quello che stava accadendo, lanciò un urlo acutissimo, ma il capitano la guardò con occhi infuocati:
- Stia giù a terra! Non si muova!
Poi si rialzò e si trascinò in ginocchio fin sotto la finestra, rialzandosi con estrema cautela, per sbirciare nel vicolo. C'erano due piccole finestre, nel palazzo di fronte, che prima non aveva notato, e che probabilmente davano aria a dei gabinetti. Arcieri non vide o udì nulla, neppure il muoversi furtivo di un'ombra. Raggiunse di nuovo Ginevra Casati, che era sdraiata bocconi sul pavimento sporco, finalmente consapevole di quello che era successo e tutta tremante. Istintivamente, la ragazza afferrò la mano del capitano e la strinse. Arcieri era irrigidito, attento a ogni rumore.
- Stia sempre immobile!
Un altro rumore, preceduto da un breve sibilo, indicò che una terza pallottola si era infilata nell'intonaco della parete. Arcieri si voltò in quella direzione e vide una nuvoletta di polvere.
- Venga dietro di me, dobbiamo uscire di qui.
I due strisciarono fino alla porta, ritrovandosi sul pianerottolo. C'era uno straordinario silenzio: il capitano guardò preoccupato le finestre, che davano luce alle scale.
- Resti qui, al riparo, non si muova per nessun motivo. Io vado di sotto a chiamare la polizia.
- Ci uccideranno!
- No, ne hanno avuto l'occasione, ma l'hanno sprecata. Mi aspetti.
Arcieri scese di corsa le scale, aspettandosi ancora dei colpi di rivoltella, evidentemente sparati con un moderno silenziatore, ma i vetri delle finestre, resi opachi dalla sporcizia, rimasero intatti. L'atrio della pensione era deserto: spalancò entrambe le porte che vi si affacciavano, chiamando a gran voce:
- La polizia! Chiamate la polizia!
Nell'atrio c'erano pochi ospiti, ma iniziarono tutti ad agitarsi e a strillare contemporaneamente. Il receptionist, scioccato, arrivò al banco in maniche di camicia.
? Che succede?
- La polizia!
- Perchè?
- Presto! Chiamate la polizia, ho detto!
L'uomo rimaneva immobile, e accennava a un leggero tremito. Allora Arcieri andò al bancone dell'ingresso, dove troneggiava un vecchio telefono. Aprì i cassetti, rovesciando il contenuto per terra, finché non vide un elenco telefonico. Sfogliò le prime pagine, e finalmente trovò il numero che cercava. Si attaccò al telefono e lo compose, attendendo impaziente. Gli rispose una voce impersonale, e come al solito stentò a capire quello che diceva.
- Presto ! Un attentato alla pensione…
Il concierge, che si era subito calmato, si fece accanto ad Arcieri e gli tolse il telefono di mano. Riattaccò e compose un altro numero.
- Pension ***, Rue ***, quatorze. Un tentative de assassinat. Vite, si vous plait.
Pochi minuti dopo udirono una sirena che si avvicinava, e lo sbattere di portiere e ordini concitati. Arcieri si precipitò di nuovo al piano di sopra, dove Ginevra Casati attendeva, immobile, seduta contro la porta della stanza adiacente a quella dove era morto suo marito. Non tremava più, e sembrava tranquilla. Arcieri rifletté alla svelta, e poi la sollevò quasi di peso, prendendola per un braccio.
? Forse è meglio non farci trovare dalla polizia. Credo di aver commesso un errore. Andiamo via!
La coppia discese le scale di corsa, lasciando il concierge esterrefatto dietro al suo bancone.
? Mais, monsieur, madame…
Davanti alla porta della pensione c'era già una piccola folla, attratta da tutto quel can can.

Infine, una semplice idea: quelle che si appuntano su un foglietto e si dimenticano in tasca.

Il vecchio scrittore l'aveva anche detto ai giornali, e alle televisioni. Non avrebbe voluto vivere oltre il limite della decenza, l'età avanzata lo riempiva di sgomento. Avrebbe assoldato un sicario, perché scegliesse lui il momento giusto per sparargli, preciso e inaspettato, il colpo finale, magari mentre passeggiava per i giardini. Tutti l'avevano presa per una battuta, o come si dice adesso una provocazione, ma invece era tutto vero.
Il sicario incontrò il vecchio scrittore nel luogo più ovvio, nel suo studio privato, a casa, a un quarto piano di un grande palazzo di gente ricca. C'erano un sacco di cimeli del tempo leggendario, in quella casa, e il vecchio gli promise subito che qualcosa gli avrebbe fatto avere, se lo voleva. Per prima cosa si accordarono sul prezzo, che date le circostanze non era molto alto, e comunque il cliente non aveva difficoltà di questo tipo: gli bastava evitare prelievi sospetti alla banca, perché non se ne accorgesse la famiglia, e aveva messo da parte, negli ultimi mesi, liquidi sufficienti. Poi la cosa più importante, la sicurezza del prossimo. Lo scrittore non voleva che la cosa avvenisse in un luogo affollato, perché non era certo giusto che, per un malaugurato errore, ci dovesse rimettere qualcuno. Lo scrittore non voleva nemmeno che ci fossero bambini intorno, al momento buono, perché non intendeva mettere paura agli indifesi. Ma, soprattutto, non voleva sapere quando e come. Il sicario voleva parlare dell'arma, ma il vecchio scrittore fece cenno di no, con un brivido di ribrezzo. Li conosceva, i fucili, per antica familiarità di guerre lontane, e sapeva quali effetti sgradevoli comportavano sui corpi delle vittime. Che ci pensasse lui, un professionista, fra i migliori che una persona onesta potesse trovare sulla piazza della grande metropoli.




Leonardo Gori (Firenze, 1957) Pubblica nel 2000 il suo romanzo d'esordio nel campo del "Giallo storico": "Nero di Maggio", ambientato a Firenze nel 1938 all'epoca della visita di Hitler e Mussolini alla città (edizioni Hobby & Work, collana "Giallo & Nero bestesellers"). Nel gennaio 2002 esce, sempre per la Hobby & Work, "I Delitti del Mondo Nuovo", un thriller storico ambientato in Toscana, ma con collegamenti internazionali, all'alba dell'era delle rivoluzioni, e nel settembre 2002 "Il passaggio", un altro giallo storico ambientato a Firenze durante i giorni cruciali dell'agosto 1944. Con "Il passaggio" è stato finalista al Premio Scerbanenco. Il suo quarto romanzo, "La finale", terza inchiesta del Capitano Bruno Arcieri, è in uscita per ottobre 2003, e sta ultimando un thriller scritto a quattro mani con Franco Cardini.
Leonardo Gori si è occupato per quasi trent'anni di Narrativa Grafica e forme espressive correlate (Illustrazione, Cinema, Disegno Animato). Ha collaborato con le maggiori riviste di storia e critica del medium, come "Comic Art", "Fumo di China", "Fumetti d'Italia". Per un breve periodo ha collaborato anche alle pagine culturali dei quotidiani "La Nazione" - "Il Resto del Carlino". Ha partecipato alla scrittura di alcuni testi di storia e critica del Fumetto, far cui: "Romano Scarpa" (Alessandro Distribuzioni, 1989), "I Disney Italiani" (Granata Press, 1990), "Dick Fulmine - l'avventura e le avventure di un eroe italiano" (doppio premio ANAFI 1998, per la migliore iniziativa editoriale e per critica) e "Tex - un eroe per amico" (entrambi Federico Motta Editore, 1997 e 1998), questi ultimi con Gianni Bono. E' Direttore Editoriale della rivista di critica "IF, Immagini & Fumetti" (Epierre). E' entusiasta collaboratore dell'Anonima Fumetti e del suo splendido sito Web.

Visita il sito di Leonardo Gori: www.leonardogori.com

"NERO DI MAGGIO"
di Leonardo Gori
(Hobby & Work 2000)
"I DELITTI DEL MONDO NUOVO"
di Leonardo Gori
(Hobby & Work, 2002)
"CRONACHE DI DELITTI LONTANI"
contiene un racconto
di Leonardo Gori
(Hobby & Work, 2002)
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