"LA FINALE" di Leonardo Gori (Hobby & Work, 2003) |
"IL PASSAGGIO" di Leonardo Gori (Hobby & Work, 2002) |
FRAMMENTI
di LEONARDO GORI
www.leonardogori.com
Non ho inediti nel cassetto. Solo capitoli
non pubblicati dei miei quattro romanzi,
più uno in scrittura. Però a volte ho scartato
qualcosa per motivi diversi dalla scarsa
qualità: magari un dialogo era troppo lungo
e spezzava il ritmo, o un personaggio ha
cambiato faccia nel corso del racconto, e
alcune cose che aveva detto e fatto prima
non andavano più bene. Succede: è il caso
di Pietro Berti-Steiner, uno dei personaggi
de "Il passaggio", edizioni Hobby&Work,
2002. Di seguito, due brani inediti. Il secondo
è un flash del viaggio clandestino di una
spia fascista (o qualcosa di simile) attraverso
le linee, verso il Sud liberato. Un percorso
singolare, diverso da quelli quasi sempre
raccontati nei romanzi sulla Seconda Guerra
Mondiale. Ma cose del genere sono davvero
accadute.
1.
Il camion arrancava per la stretta strada
in salita, in direzione del valico. L'autista
sudava copiosamente, la camicia nera slacciata
sul petto fino alla cintola, il berretto
abbandonato sul sedile accanto. C'erano buche
dappertutto, doveva prestare grande attenzione
per non rovesciarsi, ad ogni curva. A portata
di mano c'erano anche i documenti: il lasciapassare
tedesco, ormai necessario per tutti, anche
per i fascisti in fuga verso il Nord; la
busta arancione con le istruzioni speciali.
La polvere entrava negli occhi, si impastava
col sudore, rendeva penoso anche il respiro.
Ma i militi sotto il tendone del camion stavano
ancora peggio. Seduti sulle dure panche di
legno, ai lati del mezzo, erano come imprigionati
in uno strumento di tortura medievale, soffocati
dal caldo feroce che trapassava il telo,
con i fumi dei gas di scarico e ancora la
terribile polvere, sollevata dalle ruote,
che filtrava all'interno. I giovani della
Milizia volontaria erano silenziosi, appoggiati
ai loro vecchi fucili, senza più coraggio
né la rassegnazione sufficiente a smorzare
la loro angoscia di fuggitivi.
Il carico era al centro del camion, bene
imballato con vecchie coperte e carta di
giornale. Una gabbia di legno lo proteggeva
adeguatamente, ed era difficile rendersi
conto cosa fosse in realtà. Forse pezzi di
ricambio per un'arma tedesca, oppure il patrimonio
di qualche gerarca fiorentino, pensarono
i più svegli. Nessuno pronunciò una sola
parola per chilometri e chilometri, sulla
statale verso Bologna, nel frastuono assordante
del motore. Non avevano incontrato nemmeno
una pattuglia tedesca, fino a quel momento,
ma del resto anche i loro superbi alleati
erano impegnati a fuggire verso il Nord,
oltre la Linea Gotica, mentre a Firenze i
paracadutisti del Colonnello Fuchs preparavano
la loro opera di distruzione.
Fu proprio sul passo, che videro il blindato
tedesco di traverso alla strada, vicino a
una curva. L'autista cominciò a frenare per
tempo, con un prolungato lamento metallico,
poi si fermò, lasciando però il motore acceso.
Accanto all'autoblindo con la grande croce
nera c'erano almeno cinque militari, in assetto
di guerra, con i pantaloni corti e i calzettoni
grigi, i berretti e le insegne delle SS.
Le due pattuglie rimasero distanti una decina
di metri, quasi studiandosi. Poi uno dei
tedeschi si mosse in avanti di qualche passo,
facendo cenno all'autista di scendere dal
mezzo. Il giovane fascista tirò il freno
a mano, prese il lasciapassare e aprì lo
sportello. I militi, sotto il tendone, cominciarono
a parlottare fra loro, intimoriti. Qualcuno
sbirciò fuori, e vide che le SS stavano disponendosi
ai due lati del camion, con i mitra in braccio.
I ragazzi strinsero più forte i loro fucili,
con le mani sudate. Cosa volevano, i tedeschi?
Pensavano forse che fossero partigiani travestiti?
Il militare tedesco prese i documenti che
gli porgeva l'autista, e li sfogliò lentamente.
Poi pronunciò un nome italiano e indicò il
tendone. L'autista fece un cenno di assenso,
mentre si abbottonava la camicia nera completamente
bagnata di sudore. Il tedesco girò molto
lentamente intorno al camion, come se fosse
nervoso anche lui. Scostò la tenda posteriore
e vide i dieci ragazzi pallidi e sporchi,
con le loro divise nere e le "M"
rosse sul bavero. Incontrò i loro sguardi
impauriti: non avevano più nulla della sicumera
dei fascisti di qualche anno prima. Pensò
che anche loro avevano solo voglia di tornare
a casa, come tutti.
Il sottufficiale tedesco tornò sui suoi passi,
guardando le SS schierate e facendo un impercettibile
cenno d'assenso. Quando fu di nuovo davanti
all'autista, gli porse il lasciapassare.
Questi farfugliò qualcosa e si voltò per
risalire sul camion. Non si rese conto di
niente, quando il colpo di rivoltella gli
trapassò la schiena e si conficcò nel cuore,
facendolo cadere di schianto all'indietro,
sulla strada bianca, con le carte che svolazzavano
fra le ruote del camion. I militi fascisti,
all'interno, si mossero in fretta e in disordine
come polli spaventati in una gabbia. Quando
i primi due scesero, videro solo il loro
autista riverso per terra, gli occhi aperti
verso il cielo bianco, in una pozza di sangue
nero che la polvere della strada aveva già
assorbito. Uno dei due corse verso il morto,
chiamandolo a gran voce, mentre l'altro si
voltava, sudando e tremando, da una parte
e dall'altra. L'autoblindo tedesca era sempre
ferma di traverso alla strada, ma i tedeschi
sembravano scomparsi. Un'imboscata di partigiani,
pensò, con terrore, guardando in alto, verso
i fianchi delle montagne. Ma non succedeva
niente. Gli altri militi scesero controvoglia
dal camion, due per volta, e si disposero
con le spalle all'automezzo. Fu in quel momento
che la grandinata di pallottole, che veniva
dal basso, da dietro i paracarri della strada,
li falciò tutti in pochi istanti. I due o
tre che riuscirono a reagire spararono alla
cieca, prima di cadere; uno tentò la fuga,
ma fu raggiunto immediatamente da un colpo
alla testa, e rimase bocconi sulla strada
con le braccia aperte, il fucile abbandonato
a pochi metri di distanza.
Le SS si rialzarono da dietro i paracarri,
e si diressero verso l'autoblindo. Il sottufficiale
tedesco controllò innanzitutto che il carico
del camion non avesse subito danni, poi si
accertò, girandoli con il piede, che i fascisti
fossero tutti morti. Estrasse la Luger, ancora
calda, e sparò alla testa di due ragazzi,
che emettevano un debole lamento. Poi ordinò
ai suoi uomini di sciogliere la cassa di
legno e di trasferirla nell'autobindo. L'operazione
fu espletata in brevissimo tempo e con notevole
efficienza. Il mezzo tedesco ripartì verso
il Nord, lasciando sulla strada le evidenti
vittime di un'imboscata partigiana.
2.
Berti-Steiner, i capelli neri lucidi incollati
sul cranio, vestito con un paio di pantaloni
grigi, una camicia bianca e una sorta di
sahariana color crema, sedeva all'interno
di un camion coperto da un tendone verde
scuro, che non placava di certo i raggi cocenti
del sole. Era decisamente esausto per il
lungo e pericoloso viaggio, ma non aveva
assolutamente il tempo per riposarsi. Si
passò una mano sul mento e sulle guance bagnate
di sudore: la sensazione della barba pungente
lo rassicurò, si sarebbe facilmente mimetizzato
fra la gente di città. Il camion rallentò
all'improvviso, procedendo a passo d'uomo,
pochi chilometri dopo aver lasciato la periferia
sud di Bologna, ai primi contrafforti dell'Appennino.
L'agente sapeva bene cosa doveva fare. Senza
una parola, scostò il tendone e scese con
un salto dal camion, che riprese immediatamente
la sua normale andatura. Non aveva alcun
bagaglio con sé, tranne la busta rigonfia
e ancora sigillata che aveva l'ordine di
conservare con la massima cura. Avrebbe dovuto
sbarazzarsene subito, invece, se fosse stato
catturato dai partigiani, dagli Alleati o
da qualsiasi corpo di polizia, a meno che
non fosse già in Firenze. Camminò lentamente
lungo il ciglio della strada bianca, con
l'orecchio attento a ogni rumore di aereo
(che avrebbe potuto mitragliare la strada)
e con lo sguardo vigile. La campagna, tutto
intorno a lui, era arida come se la guerra
avesse avuto anche il potere di prosciugare
l'acqua dei campi e la linfa degli alberi.
Avvistò il casale dopo una mezz'ora di cammino,
quando il sole era già scomparso da tempo
dietro le alture, e l'aria si faceva sottile
e fresca. Girò intorno alla costruzione,
scavalcò una recinzione già in parte divelta,
e si fermò in mezzo a un'aia da tempo deserta
di polli e di altri animali domestici, finiti
tutti nelle pentole di amici e di nemici.
Guardò verso le finestre del primo piano,
e intravide una testa d'uomo dietro ai vetri
rotti. Allora prese un pacchetto di sigarette
dalla tasca della giacca, e con un temperino
lo conficcò come un piccolo trofeo ad un
albero di mele, al suo fianco. La testa dietro
ai vetri scomparve, poi la porta posteriore
della cascina si aprì con uno scatto.
Berti-Steiner entrò nell'andito buio, quasi
rabbrividendo per il fresco improvviso. Il
suo ospite era in piedi davanti a una sedia
impagliata, al tavolo della grande cucina.
Stava tagliando del pane, alcune fette di
salame erano su un piatto azzurro, accanto
a due bottiglie, di acqua e di vino, e ad
alcuni bicchieri. Nessuno dei due disse una
parola più del necessario.
- I vestiti dove sono?
- Di là, nella camera. Volete mangiare, prima?
- Dopo, grazie. Posso lavarmi un po'?
L'uomo, un contadino di mezza età ma con
i capelli ancora nerissimi, gli indicò una
catinella e una brocca d'acqua. Berti prese
la busta e se la infilò nelle mutande, poi
si tolse la sahariana di buon taglio e la
camicia di sartoria, e si sciacquò con calma
il viso e il torso, asciugandosi poi con
un grande panno di lino, su cui c'erano delle
lettere ricamate, un G e una D: evidentemente
un corredo nuziale. Ma oltre al contadino
non c'era nessun altro, né in casa né nei
campi bruciati. C'era un pezzo di sapone,
e se lo strofinò energicamente sui capelli
bagnati, per portar via ogni traccia di brillantina.
Mentre se li asciugava, tornavano naturalmente
ondulati, quasi ricci, cambiandogli la fisionomia.
Si tolse anche i pantaloni, e li gettò nel
mucchio degli altri indumenti. Poi, in mutande,
andò nella camera. Un grande, altissimo letto
matrimoniale era quasi nel centro esatto
della stanza, che odorava di paglia e di
polvere. Un grande quadro era appoggiato
per terra, con il vetro verso la parete:
se ne vedeva ancora la traccia chiara nel
muro, a capo del letto. Una Madonna di Pompei,
pensò l'agente, mentre indossava i pantaloni
neri da lavoro e la camicia bianca di taglio
dozzinale. Entrambi i capi erano pulitissimi,
ma non stirati. C'erano anche delle scarpe
malandate, da una parte. Si tolse, con un
sospiro, i suoi mocassini comprati un mese
prima in un elegante negozio milanese e si
allacciò le scarpe da contadino. Poi tornò
in cucina, dove il suo taciturno ospite lo
aspettava, fumando un pezzo di sigaro. Berti
si accomodò al grande tavolo di quercia,
e mangiò lentamente ma con gusto il pane
e il salame, bevendo solo l'acqua di pozzo.
Poi si sistemò meglio in tasca la busta segreta
e si avviò verso la porta. Si voltò un attimo
indietro.
- Allora grazie. Addio.
- Addio.
Appena uscito, staccò il pacchetto di sigarette
dalla corteccia dell'albero, si rimise in
tasca il temperino e controllò le sigarette:
solo due erano state tranciate dal temperino.
Le divise a metà, con attenzione, e si mise
il pacchetto nella tasca dei pantaloni. Quando
fu già lontano un centinaio di metri, sulla
strada, si voltò di nuovo e vide distintamente
l'uomo che bruciava qualcosa, nel campo.
Un filo di fumo si levava alto nel cielo,
il fumo dei suoi abiti "civili".
La missione ora cominciava davvero. Doveva
fare ancora un paio di chilometri da solo,
senza dubbio i più pericolosi. Ebbe un tuffo
al cuore quando vide un uomo con un carretto
a mano, fermo al lato della strada, ma capì
quasi subito che si trattava del suo secondo
uomo, quello che lo avrebbe portato di là
dalle linee, oltre la famosa Gotica.
Quelli che seguono sono frammenti di un romanzo
che non ho mai completato. Il protagonista
è un colonnello Bruno Arcieri ormai anziano,
negli anni Sessanta. Molto presto, però,
tornerò a lavorarci.
Il Colonnello Bruno Arcieri, anziano ufficiale
dei carabinieri ormai prossimo alla pensione,
era comodamente seduto dietro la sua triste
scrivania fatta di tubi neri bruniti e col
piano di formica verde chiaro. Il suo vasto
ufficio gli ricordava una camera d'ospedale:
mobili in metallo e vetro, pareti bianche,
spoglie, sporche. Guardò con insistenza la
porta chiusa, aspettando che chi attendeva
bussasse. Si divertiva ancora a indovinare
da quel consueto rumore l'aspetto e il carattere
dei suoi poco allegri visitatori. Colpi leggeri,
ripetuti, ravvicinati, di chi provava rispetto
e timore: quelli erano i suoi sottoposti,
ufficiali e sottufficiali. Due colpi timidi,
e poi un silenzio di trepida attesa: in tal
caso erano i convocati, gli inquisiti, i
civili del mondo di fuori. Colpi decisi,
forti, tre o più ancora, e allora la fantasia
di Arcieri si sbizzarriva, nell'immaginare
chi avesse tanto ardire.
Poi amava sorprendere chi veniva a trovarlo
in ufficio, di sua volontà o meno. Arcieri
era gentilissimo con tutti, rifuggiva dai
brutali formalismi del suo mestiere. Non
era una cortesia falsa, da alternare alle
minacce, per cercare di mettere in difficoltà
il suo interlocutore. Arcieri sconvolgeva
chi veniva interrogato da lui proprio perché
non c'era ombra di secondi fini, quando si
scusava per lo squallore della stanza, o
si alzava per prendere una sedia più comoda,
o faceva portare qualcosa da bere per sé
e per il suo ospite. Per sua scelta personale,
aspramente contrastata negli anni dai suoi
superiori, aveva preteso di poter continuare
sporadicamente nel lavoro investigativo,
che competeva ad altri. La prossima pensione
avrebbe spazzato via anche quell'anomalia,
quell'ultimo residuo del vecchio mondo, lasciando
libero il campo ai magistrati zelanti e agli
ufficiali e sottufficiali ubbidienti e pronti
a eseguire gli ordini, ognuno nei limiti
delle proprie competenze. Arcieri si passò
una mano sui capelli grigi, che teneva ancora
lucidi, incollati al cranio con la brillantina.
Eppure non si sentiva vecchio, o piuttosto
non si rassegnava a esserlo, avvertiva dentro
di sé qualcosa di incompiuto, una carica
di energia che ancora doveva produrre un
effetto.
Fu riscosso dai colpi alla porta. Erano leggeri,
ma ripetuti e decisi: quattro. Arcieri rimase
lì per lì sconcertato: sapeva che era una
donna giovane, quella che sarebbe dovuta
arrivare, e il quadro mentale che si era
fatto non si adattava a quel modo di bussare.
Aspettò, senza una vera ragione, che entrasse
proprio la ragazza che si figurava: di bassa
statura, dal viso duro ma bello, vestita
di scuro, molto giovane. Invece, quando dietro
suo invito la porta si aprì, entrò una donna
alta, vestita con un tailleur rosa antico,
una borsa bianca, i capelli castano chiari
raccolti sul capo. Era bella, certamente,
ma non più giovanissima, forse sui trentacinque
anni, la figura leggermente appesantita.
Salutò il colonnello con un gesto impercettibile
e camminò lentamente verso la sedia. Arcieri
rimase immobile, seduto, lui sì sorpreso,
per una volta, da un visitatore, e toccato
da una nostalgia antica e dimenticata. Poi,
quando la donna si fu seduta, si decise ad
alzarsi, troppo tardi per riparare alla scortesia.
- La signora Maria Bruni, immagino.
La donna si limitò ad assentire in silenzio.
Chiunque altro, in quel luogo, le avrebbe
chiesto, brusco, di declinare le generalità
complete. Ma lei non sembrò stupirsi affatto
dell'insolita cortesia. Mise le mani sulla
borsa, che teneva in grembo, e guardò negli
occhi Arcieri con aria vagamente interrogativa.
- Dalla documentazione che mi hanno portato,
signora, risulta che lei ha chiamato più
volte i carabinieri perché insospettita dal
fatto che il suo conoscente, il Dottor Matteo
Garrese, non rispondeva da molte ore al telefono.
- È proprio così, signore. Matteo era anziano,
malato, non usciva mai. Temevo il peggio,
e avevo ragione.
Arcieri guardò ancora la donna: riconosceva
in lei, per la grande esperienza che aveva
di casi come questo, un dolore severo, controllato,
ma onesto. Teneva le gambe unite, e la gonna
le scopriva le ginocchia carnose, lucide
per le calze di seta sottili. Le mani bianche
che stringevano la borsetta non portavano
anelli o braccialetti, le unghie non erano
laccate. Al collo, più lungo del normale,
un filo sottile di perle. Lo sguardo rimaneva
fisso, ma non ostile, e Arcieri si sentì
prendere dal rilassamento che provava di
fronte a quelle donne sicure di sé ma non
aggressive, eppure nemmeno inclini alla seduzione.
- Lei ha già subito un interrogatorio formale,
signora, quale ultima persona che ha visto
il dottor Garrese in vita. Mi scuso per le
scortesie che certamente le saranno state
usate.
Stavolta Maria Bruni reagì a quelle parole
gentili e così fuori posto: inarcò appena
entrambe le sopracciglia, e cominciò a studiare
il volto vissuto ma ancora liscio di Arcieri.
Un uomo anziano, sopra la sessantina, ma
asciutto, elegante. Guardò i capelli lisci,
grigi, attaccati al capo come si usava vent'anni
prima, nell'Anteguerra. Non sapeva decidere
se quella cortesia era vera o finta, e pensò
di rimanere ancora sulla difensiva.
- Niente più di quello che mi aspettavo,
signore.
Gli occhi di Arcieri si sollevarono dalla
pratica e la guardarono ancora, con un sorriso.
- Costoro sono in buona fede, sa, non si
rendono conto di cosa significhi vivere veramente.
Tutto sta nel voler essere uomini o donne,
oppure funzionare come inconsapevoli ingranaggi
di una macchina. Ma purtroppo non abbiamo
tempo, signora, per conversare amabilmente,
e Dio sa quanto ne avrei bisogno.
Arcieri tornò a guardare le sue carte, le
sfogliò lentamente, una dopo l'altra, senza
leggerle.
- Lei ha visto per l'ultima volta il Dottor
Garrese tre giorni fa, nella sua villa. Era
in buona salute. Non manifestò paure particolari,
non disse di aver ricevuto minacce. Mi scusi,
signora.
Arcieri si alzò, girò intorno alla scrivania
e si diresse verso una porta laterale. L'aprì,
e Maria Bruni sentì distintamente il trambusto
di qualcuno che si alzava con malagrazia
da una scrivania e scattava sull'attenti.
Ma non distinse le parole che il vecchio
ufficiale mormorò all'altro carabiniere.
Poi il Maggiore tornò sui suoi passi, fece
al contrario l'identico percorso e si sedette
di nuovo, senza fare alcun rumore.
- Ho chiesto che ci portino qualcosa. Mi
perdoni, ma abbiamo solo del caffè. Spero
che lo gradisca.
La donna sorrise, finalmente, senza rispondere.
- Eppure, l'altroieri il dottor Garrese è
stato trovato morto, con una probabile frattura
alla spina dorsale, in prossimità della prima
vertebra cervicale. Il medico legale sospetta
anche un infarto, ma ancora non si è pronunciato,
sarà necessaria l'autopsia.
Arcieri fissò di nuovo la donna, il cui viso
si era rabbuiato.
- Non credo che abbia sofferto molto. Certamente
quando ha ricevuto il colpo, ma non in seguito.
Si è spento abbastanza serenamente.
Con un gesto ampio dell'avambraccio, Arcieri
scostò i fogli dal piano di plastica della
scrivania. Prese un cartoncino bianco e una
matita, e iniziò a scarabocchiare qualcosa.
- Il problema è che è stato trovato supino,
composto, le mani lungo i fianchi, esattamente
al centro di una grande sala circolare, su
un pavimento di marmo lucido e molto lontano
da qualsiasi oggetto contro il quale potrebbe
aver urtato, per procurarsi quella frattura.
È naturale domandarsi come possa essere avvenuto
l'incidente, se di incidente si è trattato.
Lei, signora, ha chiamato più volte per telefono
il dottor Garrese, senza ricevere risposta.
Maria Bruni trasalì leggermente quando, senza
fare rumore, un appuntato le servì dell'odoroso
e fumante caffè nero, in una tazzina bianca
dozzinale di porcellana, con un largo piattino,
e le chiese se voleva dello zucchero. Fece
un cenno di ringraziamento, rifiutò il cucchiaino
e sorseggiò lentamente la bevanda.
- Lo avevo lasciato con la promessa di farmi
viva almeno due volte al giorno. Ero già
preoccupata la prima mattina, quando non
ha risposto, ma non ho ritenuto necessario
andare a verificare. Mi sono allarmata la
sera, quando ancora il telefono ha squillato
inutilmente. Ho pensato subito al peggio.
- Capisco. Il Dottore non usciva mai di casa?
- Mai, mai davvero. Lei sa che… Insomma,
certamente avete fatto indagini su Matteo.
La donna accavallò nervosamente le gambe,
carnose ma eleganti, poi posò la tazzina,
ancora mezza piena. Arcieri teneva le mani
giunte, a sorreggere il viso, e continuò
a guardare gli occhi azzurro chiaro di Maria
Bruni.
- Non aveva persone di servizio, mi dicono.
- Matteo viveva felicemente solo. Due volte
l'anno, un'impresa specializzata puliva a
fondo la casa. Come sa, ci sono delle esigenze
particolari.
Arcieri assentì in silenzio.
- Riceveva i pasti pronti da un ristorante,
e questo da moltissimi anni. Per il resto
faceva da sé. Era un uomo ancora in grado
di badare a se stesso. Beh, lo aiutavo anche
un po', quando mi sembrava il caso. Mi sembrava
giusto farlo, ma Matteo non mi ha mai chiesto
nulla.
Inaspettatamente, Arcieri si alzò e porse
la mano alla donna, per congedarla.
- Ci dovremo vedere presto, signora, appena
saprò qualcosa di preciso dal medico legale.
La prego di lasciare il suo recapito al piantone
di guardia, uscendo, e il numero di telefono.
Le sarò grato se nei prossimi giorni mi vorrà
avvertire, se dovesse lasciare la città.
È stato un piacere conoscerla.
- Arcieri si inchinò leggermente, mentre
stringeva la mano a Maria Bruni, che uscì
dal comando dell'Arma con addosso una leggera
inquietudine.
Arcieri rimase solo. Guardò ancora la scheda
di Maria Bruni, con dolorosa insistenza,
come si guarda una foto raccapricciante.
Era proprio la sorella di Filippo Bruni,
come aveva sospettato fin dall'inizio. Aveva
sbagliato a immaginarsela più giovane: nel
1945 doveva avere certamente almeno sedici
anni, per cercare il cadavere del fratello,
farlo ripescare dal lago, seppellirlo scavando
lei stessa una fossa provvisoria. Che ci
faceva, da Matteo Garrese? Cercava qualcosa,
nell'archivio del vecchio, perso nella sua
straordinaria follia? Tentò con l'immaginazione
di figurarsi tutti i possibili motivi per
spiegare l'eventuale assassinio del vecchio,
ma non ne trovò uno credibile.
La morte dell'anziano dottor Matteo Garrese
mise in agitazione diverse persone, in città
e fuori. A Roma, un funzionario del Ministero
dell'Interno riaprì una pratica polverosa,
controllò un elenco di nomi e spedì un fattorino
in un archivio periferico, per recuperare
altri fascicoli. Poi fece alcune telefonate
da una linea riservata.
In alcune città del centro-Nord, specialmente
a Bologna, Reggio Emilia, Parma, ma anche
a Milano e a Torino, molte persone di mezza
età, padri di famiglia, professori rispettabili,
commercianti, uomini politici di tutte le
fazioni, passarono nervosamente alcune giornate
in attesa di qualcosa, che poi alla fine
non venne, e nel giro di un mese si dimenticarono
quasi tutti della faccenda. Due di loro telefonarono
più volte a vecchi amici che non sentivano
da anni, senza con questo riuscire a tranquillizzarsi.
Un vecchio maestro elementare di Torino fu
colto da una violenta crisi di panico, assolutamente
ingiustificata, e si uccise, gettandosi da
un ponte. Ma era in cura da un neurologo
da molto tempo, e nessuno dette peso alla
cosa: meritò solo due righe dietro un puntino
nelle brevi di nera, sulle pagine di cronaca
del quotidiano.
Invece, tredici persone presero la cosa molto
più seriamente. Aspettavano da tempo la notizia
della morte del vecchio Garrese, e avevano
pronto un piano particolareggiato da attuare
subito dopo. Anche questi tredici uomini,
alcuni di mezza età, altri più anziani, fecero
una telefonata, ma si limitarono a confermare
una località e un orario preciso, pronti
da molto tempo. Mogli, figlie, vecchie governanti,
amanti, si dettero pena per delle partenze
improvvise, senza ricevere alcun particolare,
e senza promesse di telefonate. Il capo dei
tredici, un anziano ex militare, arrivò per
primo al vasto albergo-ristorante, sul passo
appenninico. Un locale decisamente fuori
posto, esageratamente grande, quasi inutile,
ora che la costruzione dell'autostrada aveva
tagliato via dalla Statale tutto il traffico
automobilistico fra il Nord e il Sud. Il
locale era sempre semideserto, tristissimo,
come i proprietari che si aggiravano nel
salone panoramico ma buio, come anime del
Purgatorio, senza rassegnazione.
Il "Generale", come si faceva chiamare,
parcheggiò la Giulietta verde sullo spiazzo
sassoso vicino all'ingresso. Spinse la porta
a vetri e andò incontro al proprietario.
Un juke-box, in un angolo, strillava un motivo
alla moda, con un'insopportabile distorsione
metallica.
Tintarella di luna. Tintarella color latte.
- Buon giorno. La saletta riservata è sempre
uguale?
- Certo, Generale, cosa vuole che cambi.
Tutta notte sopra i tetti. Sopra i tetti
insieme ai gatti.
- Verrà gente? Cominciano le belle giornate,
ma noi vogliamo stare tranquilli, non ci
piacciono i gitanti intorno.
Il proprietario del locale sorrise tristemente,
mentre precedeva l'imponente e anziano ufficiale
nella saletta dell'ammezzato, con finestre
che davano sugli aspri pendii verdi dell'Appennino,
verso Sud.
E se c'è la luna piena, tu-u diventi candida.
- Pochissimi, qualche famigliola, ma staranno
tutti nel salone, semmai. Vi farò portare
da mangiare. Abbiamo il fagiano, il cinghiale,
la lepre, vi possiamo fare delle pappardelle
straordinarie. Cosa preferisce, Generale?
Il vecchio scosse le spalle e borbottò qualcosa,
poi entrò nella stanza, questa assai luminosa,
ed ebbe un moto di soddisfazione, di cui
si accorse il suo malinconico anfitrione.
Il rumore del juke-box si attenuò, smorzato
dalla vastità dell'atrio.
- Bella, eh? Che peccato, quella maledetta
autostrada del sole. Mi faranno finire in
miseria.
- Bene. Torniamo giù, e aspettiamo gli altri.
Avete lasciato a casa la famiglia, come vi
ho detto?
- Certo, Generale, come lei ha ordinato.
Sono solo, ma non c'è pericolo che abbia
troppo da fare.
Al mondo nessu-una è candida come te.
Tintarella di luna. Tintarella color latte.
- Fatemi un caffè, intanto. E spengete quell'aggeggio
infernale.
Il vecchio Generale si mise a un tavolino,
in posizione strategica, in modo da controllare
bene lo spiazzo e l'ingresso principale.
Gli ospiti attesi arrivarono uno dopo l'altro,
quasi contemporaneamente, da Sud e da Nord.
Il gestore del locale ogni volta usciva trafelato
e faceva spostare le macchine sul retro,
in una strada sterrata quasi a strapiombo
sulla gola. Era quasi buio quando tutti e
tredici si misero intorno al tavolo nella
saletta riservata, e iniziarono a mangiare
di gusto il pranzo che era stato preparato
per loro dal gestore e vecchio amico comune.
Il Generale rimase in silenzio per quasi
tutto il tempo. A parlare fu un occhialuto
giornalista cinquantenne, magro e odioso,
dai modi bruschi. Non aspettò nemmeno che
fosse servito il caffè, per cominciare il
discorso che aveva pronto da tempo.
- Ci siamo tutti, quelli ancora vivi, intendo.
I convenuti si guardarono l'un l'altro, senza
un sorriso, sospirando.
- Il vecchio Garrese è finalmente morto.
Quindi da lui, almeno, non ci dobbiamo attendere
più rotture di coglioni.
Uno dei convitati interloquì, dopo aver guardato
insistentemente gli altri. Parlava con un
vago accento straniero.
- Perché dici "almeno lui"? Non
viveva da solo dalla fine della guerra?
- Anche da prima, se è per questo. Dal '42,
vero, Generale?
Il vecchio ex ufficiale soffriva di digestione
difficile. Stava semisdraiato sulla sedia,
in preda a cascaggini di sonno, e si limitò
ad annuire.
- Però aveva preso, tre anni fa, una donna.
- Il vecchio Garrese aveva un'amante? Non
è possibile!
- Io non lo so se se la scopava o meno, non
me ne frega nulla. Aveva assunto questa,
una certa Maria Bruni. Non so che cazzo facesse
di preciso, forse aveva a che fare con quella
assurda biblioteca.
- Perché, c'è la possibilità che questa donna
abbia scoperto qualcosa?
- I documenti? Certo, è senz'altro possibile.
In tre anni, hai voglia. Comunque questa
complicazione mettiamola da parte, per il
momento. Noi dobbiamo fare quello che sappiamo,
che abbiamo stabilito tanto tempo fa. I documenti
di Garrese devono sparire, questo è chiaro.
Lui è morto, ma la sua folle biblioteca costituisce
un pericolo. O selezioniamo i documenti,
e questo è quasi impossibile, visto com'è
messa quella casa del diavolo, oppure distruggiamo
tutto.
Il generale finì di svegliarsi dalla sonnolenza
che lo schiacciava contro la sedia e prese
in pugno la situazione.
- Prima di parlare di distruggere, andiamoci
piano. Le carte vanno sistemate in modo sicuro
e tranquillo. Nessuno di noi deve aver noie,
naturalmente.
L'uomo dall'accento straniero ebbe un vago
sorriso.
- Su questo sono d'accordo anche i miei amici.
Il giornalista aggressivo ebbe uno scatto
d'ira.
- Ma come? Lasciamo stare quelle carte? Senza
più quel matto di Garrese a tenerle nascoste?
- Garrese aveva perso la testa. La villa,
lo sai, non era più sicura da molto tempo.
È un miracolo che non sia sparita roba, negli
ultimi dieci anni. Solo perché siamo stati
protetti, non è uscito nulla.
- E chi ci ha protetti, Generale?
Quello che segue è forse l'unico capitolo
tagliato dal romanzo in libreria il prossimo
15 ottobre, "La finale", sempre
col capitano Bruno Arcieri e sempre edito
dalla Hobby & Work.
Solo per miracolo, nell'attimo in cui il
grande specchio esplose con fragore assordante,
Ginevra Casati non fu investita dalla pioggia
di schegge di vetro, che piovvero sul letto
e sul pavimento. Rimase immobile, per una
manciata di secondi, a fissare sbigottita
la grande cornice, con la sua immagine moltiplicata,
riflessa da cento lame d'argento appuntite.
Un attimo dopo, il legno della testata del
letto mandò un rumore secco, come se fosse
stata colpita da un martello. Arcieri, che
si era già allontanato dalla finestra, si
gettò con tutto il suo peso addosso alla
donna, facendola cadere per terra. Ginevra
Casati, che non aveva ancora capito nulla
di quello che stava accadendo, lanciò un
urlo acutissimo, ma il capitano la guardò
con occhi infuocati:
- Stia giù a terra! Non si muova!
Poi si rialzò e si trascinò in ginocchio
fin sotto la finestra, rialzandosi con estrema
cautela, per sbirciare nel vicolo. C'erano
due piccole finestre, nel palazzo di fronte,
che prima non aveva notato, e che probabilmente
davano aria a dei gabinetti. Arcieri non
vide o udì nulla, neppure il muoversi furtivo
di un'ombra. Raggiunse di nuovo Ginevra Casati,
che era sdraiata bocconi sul pavimento sporco,
finalmente consapevole di quello che era
successo e tutta tremante. Istintivamente,
la ragazza afferrò la mano del capitano e
la strinse. Arcieri era irrigidito, attento
a ogni rumore.
- Stia sempre immobile!
Un altro rumore, preceduto da un breve sibilo,
indicò che una terza pallottola si era infilata
nell'intonaco della parete. Arcieri si voltò
in quella direzione e vide una nuvoletta
di polvere.
- Venga dietro di me, dobbiamo uscire di
qui.
I due strisciarono fino alla porta, ritrovandosi
sul pianerottolo. C'era uno straordinario
silenzio: il capitano guardò preoccupato
le finestre, che davano luce alle scale.
- Resti qui, al riparo, non si muova per
nessun motivo. Io vado di sotto a chiamare
la polizia.
- Ci uccideranno!
- No, ne hanno avuto l'occasione, ma l'hanno
sprecata. Mi aspetti.
Arcieri scese di corsa le scale, aspettandosi
ancora dei colpi di rivoltella, evidentemente
sparati con un moderno silenziatore, ma i
vetri delle finestre, resi opachi dalla sporcizia,
rimasero intatti. L'atrio della pensione
era deserto: spalancò entrambe le porte che
vi si affacciavano, chiamando a gran voce:
- La polizia! Chiamate la polizia!
Nell'atrio c'erano pochi ospiti, ma iniziarono
tutti ad agitarsi e a strillare contemporaneamente.
Il receptionist, scioccato, arrivò al banco
in maniche di camicia.
? Che succede?
- La polizia!
- Perchè?
- Presto! Chiamate la polizia, ho detto!
L'uomo rimaneva immobile, e accennava a un
leggero tremito. Allora Arcieri andò al bancone
dell'ingresso, dove troneggiava un vecchio
telefono. Aprì i cassetti, rovesciando il
contenuto per terra, finché non vide un elenco
telefonico. Sfogliò le prime pagine, e finalmente
trovò il numero che cercava. Si attaccò al
telefono e lo compose, attendendo impaziente.
Gli rispose una voce impersonale, e come
al solito stentò a capire quello che diceva.
- Presto ! Un attentato alla pensione…
Il concierge, che si era subito calmato,
si fece accanto ad Arcieri e gli tolse il
telefono di mano. Riattaccò e compose un
altro numero.
- Pension ***, Rue ***, quatorze. Un tentative
de assassinat. Vite, si vous plait.
Pochi minuti dopo udirono una sirena che
si avvicinava, e lo sbattere di portiere
e ordini concitati. Arcieri si precipitò
di nuovo al piano di sopra, dove Ginevra
Casati attendeva, immobile, seduta contro
la porta della stanza adiacente a quella
dove era morto suo marito. Non tremava più,
e sembrava tranquilla. Arcieri rifletté alla
svelta, e poi la sollevò quasi di peso, prendendola
per un braccio.
? Forse è meglio non farci trovare dalla
polizia. Credo di aver commesso un errore.
Andiamo via!
La coppia discese le scale di corsa, lasciando
il concierge esterrefatto dietro al suo bancone.
? Mais, monsieur, madame…
Davanti alla porta della pensione c'era già
una piccola folla, attratta da tutto quel
can can.
Infine, una semplice idea: quelle che si
appuntano su un foglietto e si dimenticano
in tasca.
Il vecchio scrittore l'aveva anche detto
ai giornali, e alle televisioni. Non avrebbe
voluto vivere oltre il limite della decenza,
l'età avanzata lo riempiva di sgomento. Avrebbe
assoldato un sicario, perché scegliesse lui
il momento giusto per sparargli, preciso
e inaspettato, il colpo finale, magari mentre
passeggiava per i giardini. Tutti l'avevano
presa per una battuta, o come si dice adesso
una provocazione, ma invece era tutto vero.
Il sicario incontrò il vecchio scrittore
nel luogo più ovvio, nel suo studio privato,
a casa, a un quarto piano di un grande palazzo
di gente ricca. C'erano un sacco di cimeli
del tempo leggendario, in quella casa, e
il vecchio gli promise subito che qualcosa
gli avrebbe fatto avere, se lo voleva. Per
prima cosa si accordarono sul prezzo, che
date le circostanze non era molto alto, e
comunque il cliente non aveva difficoltà
di questo tipo: gli bastava evitare prelievi
sospetti alla banca, perché non se ne accorgesse
la famiglia, e aveva messo da parte, negli
ultimi mesi, liquidi sufficienti. Poi la
cosa più importante, la sicurezza del prossimo.
Lo scrittore non voleva che la cosa avvenisse
in un luogo affollato, perché non era certo
giusto che, per un malaugurato errore, ci
dovesse rimettere qualcuno. Lo scrittore
non voleva nemmeno che ci fossero bambini
intorno, al momento buono, perché non intendeva
mettere paura agli indifesi. Ma, soprattutto,
non voleva sapere quando e come. Il sicario
voleva parlare dell'arma, ma il vecchio scrittore
fece cenno di no, con un brivido di ribrezzo.
Li conosceva, i fucili, per antica familiarità
di guerre lontane, e sapeva quali effetti
sgradevoli comportavano sui corpi delle vittime.
Che ci pensasse lui, un professionista, fra
i migliori che una persona onesta potesse
trovare sulla piazza della grande metropoli.
Leonardo Gori (Firenze, 1957) Pubblica nel 2000 il suo
romanzo d'esordio nel campo del "Giallo
storico": "Nero di Maggio",
ambientato a Firenze nel 1938 all'epoca della
visita di Hitler e Mussolini alla città (edizioni
Hobby & Work, collana "Giallo &
Nero bestesellers"). Nel gennaio 2002
esce, sempre per la Hobby & Work, "I
Delitti del Mondo Nuovo", un thriller
storico ambientato in Toscana, ma con collegamenti
internazionali, all'alba dell'era delle rivoluzioni,
e nel settembre 2002 "Il passaggio",
un altro giallo storico ambientato a Firenze
durante i giorni cruciali dell'agosto 1944.
Con "Il passaggio" è stato finalista
al Premio Scerbanenco. Il suo quarto romanzo,
"La finale", terza inchiesta del
Capitano Bruno Arcieri, è in uscita per ottobre
2003, e sta ultimando un thriller scritto
a quattro mani con Franco Cardini.
Leonardo Gori si è occupato per quasi trent'anni
di Narrativa Grafica e forme espressive correlate
(Illustrazione, Cinema, Disegno Animato).
Ha collaborato con le maggiori riviste di
storia e critica del medium, come "Comic
Art", "Fumo di China", "Fumetti
d'Italia". Per un breve periodo ha collaborato
anche alle pagine culturali dei quotidiani
"La Nazione" - "Il Resto del
Carlino". Ha partecipato alla scrittura
di alcuni testi di storia e critica del Fumetto,
far cui: "Romano Scarpa" (Alessandro
Distribuzioni, 1989), "I Disney Italiani"
(Granata Press, 1990), "Dick Fulmine
- l'avventura e le avventure di un eroe italiano"
(doppio premio ANAFI 1998, per la migliore
iniziativa editoriale e per critica) e "Tex
- un eroe per amico" (entrambi Federico
Motta Editore, 1997 e 1998), questi ultimi
con Gianni Bono. E' Direttore Editoriale
della rivista di critica "IF, Immagini
& Fumetti" (Epierre). E' entusiasta
collaboratore dell'Anonima Fumetti e del
suo splendido sito Web.
Visita il sito di Leonardo Gori:
www.leonardogori.com
"NERO DI MAGGIO" di Leonardo Gori (Hobby & Work 2000) |
"I DELITTI DEL MONDO NUOVO" di Leonardo Gori (Hobby & Work, 2002) |
"CRONACHE DI DELITTI LONTANI" contiene un racconto di Leonardo Gori (Hobby & Work, 2002) |