"Nel Paese di Berlusconia"
di Fabio Giovannini
(Malatempora 2002)
TRE OSSERVAZIONI
SUI FATTI DI GENOVA
di Fabio Giovannini
Abito a Genova, con le finestre che si affacciavano
sulla zona rossa e su quella gialla circostante,
e pur avendo partecipato alle manifestazioni
anti-G8 con le componenti nonviolente ho
vissuto da osservatore "esterno"
tutto quanto è avvenuto in città, dato che
da tempo non mi riconosco più nelle realtà
organizzative della politica e dei movimenti.
Ma vengo dalle esperienze politiche della
sinistra italiana, soprattutto dalla storia
del Pci nelle sue anime meno ortodosse, e
ovviamente sentivo una forte vicinanza ai
temi delle manifestazioni anti-globalizzazione.
Tuttavia questo sguardo esterno forse mi
ha concesso un approccio privilegiato. A
partire da questo punto di vista, vorrei
esporre tre primi elementi di riflessione
su quanto avvenuto in occasione del vertice
G8.
1. L'operazione mediatica
Di fronte al crescere di un movimento di
massa anti-globalizzazione, le scelte dei
centri operativi dell'establishment "mondiale"
(chiamiamoli così, senza dietrologie, ma
senza fingersi sprovveduti) sono state articolate
in due tappe. Prima tappa: fomentare sui
media l'allarme "terrorismo internazionale"
con una campagna propagandistica iniziata
almeno un mese prima del vertice G8. In questo
modo si gettava un'ombra sui contestatori,
assimilandoli ai terroristi di Bin Laden
o ai centri più o meno occulti dell'eversione
internazionale. Era anche il pretesto per
procedere a una militarizzazione senza precedenti
del territorio genovese. Tombini piombati
per evitare presunti attacchi dalle fogne,
telecamere in tutti gli angoli, afflusso
di forze dell'ordine in proporzioni gigantesche,
barriere metalliche (e poi enormi container)
che trasformavano la cosiddetta zona rossa
in una fortezza e i quartieri limitrofi in
prigioni, di conseguenza sospensione di molti
diritti civili per i cittadini. Questa militarizzazione
ha provocato un vero e proprio esodo dalla
città, la chiusura di quasi tutti i negozi
(sollecitata esplicitamente dalla Digos)
e la trasformazione di Genova in una città
fantasma. Se la città fosse stata viva, abitata,
libera, nei giorni del G8 le devastazioni
teppistiche si sarebbero ridotte almeno della
metà, perché una presenza degli abitanti
avrebbe fatto da cuscinetto e da demotivazione
agli atti più esasperati. Invece le "tute
nere" hanno avuto a disposizione una
città abbandonata e indifesa (dato che lo
schieramento militare della polizia proteggeva
solo la fortezza dei principi e aveva lasciato
a se stessa il resto della città).
Ecco che tutto era pronto per lo scattare
della seconda tappa della grande operazione
mediatica. Dislocata la forza pubblica solo
intorno alla zona rossa, si è deliberatamente
dato via libera all'antica attitudine antidemocratica
e violenta che cova nelle forze dell'ordine
italiane, e che si sono sentite tutelate
e incoraggiate da un governo in cui ha posizioni
di rilievo il partito di Gianfranco Fini.
Non si è scelto di usare tutti i mezzi possibili
per contenere il conflitto (inevitabile)
con una parte dei manifestanti, ma viceversa
si è dato l'ordine di mantenere un atteggiamento
da "muro contro muro", legittimando
l'uso delle armi, coprendo comportamenti
ultraviolenti (una volta ci si indignava
quando i candelotti lacrimogeni venivano
lanciati ad altezza d'uomo, a Genova questo
pericolosissimo modo di aggredire i manifestanti
è stato la regola e non l'eccezione), infine
attaccando con brutalità anche gli spezzoni
pacifici delle manifestazioni e concludendo
il tutto con retate e spedizioni punitive
degne di un regime dittatoriale. Il compito
delle forze dell'ordine dovrebbe essere,
appunto, quello di mantenere l'ordine: a
Genova è stato l'esatto opposto, non si è
evitato che la città precipitasse nel caos,
perché in realtà il solo scopo era di tenere
i contestatori lontani dal centro cittadino
e utilizzare ogni chance per criminalizzare
la protesta.
La seconda tappa dell'operazione mediatica,
infatti, aveva un obiettivo preciso: utilizzare
le prevedibilissime violenze per screditare
il movimento nel suo complesso, associando
in questo caso i manifestanti anti-global
alla componente minoritaria del black blok.
2. Le responsabilità
Va detto che l'operazione mediatica è in
gran parte riuscita. Tuttavia non ha "stravinto",
perché comunque si è avuto l'effetto boomerang
di accentuare il discredito complessivo del
vertice G8 ed enfatizzare la portata della
contestazione ad esso (nella nostra società
una vetrina infranta fa più notizia di qualsiasi
oceanica manifestazione pacifica). Però nemmeno
il movimento anti-global ha vinto (ammesso
che valga questo criterio bellico-sportivo
del "vincitori e vinti"). Le violenze,
ritengo, erano inevitabili, come hanno dimostrato
tutti i vertici mondiali recenti, ma a Genova
c'è stato un surplus di "apocalisse"
che poteva essere evitato. Date per scontate
le scelte ciniche e quindi le responsabilità
del governo Berlusconi (e degli apparati
mondiali che lo hanno sostenuto in questa
occasione), la responsabilità maggiore per
la deriva presa dagli eventi, a mio parere,
pesa sulla sinistra italiana (quella riformista,
moderata o socialdemocratica che ovunque
in Europa mantiene una sua solidità per quanto
ambigua e omologata). Mai come in questo
momento l'Italia è l'unico paese europeo
senza una forza coesa della sinistra, se
si pensa che il partito dei Ds è allo sbando
e che la demolizione della storia e della
forza della sinistra stessa è al suo massimo
storico. La destra ha fatto il suo mestiere,
in occasione del G8, la sinistra no, per
il semplice fatto che sembra non esistere.
Mancava al movimento anti-global un interlocutore
democratico, magari anche critico e dissenziente
dai contenuti del movimento, ma rispettoso
delle proteste e impegnato a tutelare libertà
e diritti fondamentali.
Le responsabilità vanno però individuate
anche nello schieramento anti-global, che
pure aveva di fronte compiti difficilissimi.
Vittorio Agnoletto si è dimostrato un ottimo
uomo-immagine per il movimento, abile nella
parola, prestigioso, senza il "look
da centro sociale" che irrita le anime
belle e con un retroterra cattolico che ha
facilitato l'incontro con aree religiose
importanti. Ma di cosa Agnoletto è stato
l'immagine? Di quale leadership reale e di
quale realtà organizzativa e operativa? Purtroppo,
di un coacervo di forze che hanno preso la
guida del movimento e che sono in gran parte
caratterizzate da antichi superstiti della
politica passata: ex-settantasettini, dirigenti
di Rifondazione, capi del sindacalismo autonomo
e professionisti della politica filodiessini.
Il movimento nuovo e variegato dei giovani
che hanno partecipato al Genoa Social Forum
non si è ancora dotato di una coerenza e
di un proprio riferimento. Il "popolo
di Seattle", dunque, almeno in Italia,
non è riuscito a darsi un'identità e quindi
una leadership. In questo caso, poi, parlare
di leadership non significa scimmiottare
la forma-partito o auspicare dei "capi",
dato che il movimento ha una forte aspirazione
anti-autoritaria. Il movimento ha dimostrato
di avere un'anima (le elaborazioni del Gsf
sono di alto livello e non si limitano alla
generica opposizione al G8, nonostante la
colpevole ignoranza in proposito anche di
molti osservatori acuti che continuano a
definire il movimento come solo protestatario),
un corpo (le centinaia di migliaia di persone
venute a Genova), ma non una testa all'altezza
della situazione.
Ma proprio questa assenza di "testa",
o la presenza di una "testa" inadeguata
e vecchia, sta alla base degli aspetti negativi
e dei limiti delle proteste di Genova. Di
più: chi ha funzionato come "testa"
del movimento ha pesanti responsabilità verso
i cinquecento feriti e i troppi danneggiati
che le battaglie di Genova hanno lasciato
sul campo.
Non si possono organizzare cortei in una
città militarizzata senza preparare un servizio
d'ordine, non si può scegliere di fare una
sfilata di duecentomila persone quando il
clima è incandescente e tutte le condizioni
sono sfavorevoli: perché, ad esempio, sabato
21 luglio si è voluto a tutti i costi un
corteo e non un più prudente sit-in, invadendo
di folla oceanica una piazza (molto più controllabile
e difendibile) invece di affrontare chilometri
e chilometri di percorso ad alto rischio?
In sostanza, migliaia e migliaia di giovani,
oggettivamente inesperti e senza la memoria
di cosa significa la "piazza" quando
la situazione è talmente tesa, sono stati
mandati come carne da macello a farsi massacrare
dalla polizia, strumentalizzare dai teppisti
e sconvolgere da un'esperienza brutale che
non dimenticheranno facilmente. Mi preoccupa
pensare quanti di quei giovani si terranno
alla larga da manifestazioni nei prossimi
tempi, o forse per sempre. E quanti, viceversa,
messi a confronto con una violenza della
polizia (e del "potere") che forse
non immaginavano nemmeno possibile si faranno
sedurre dall'ipotesi dello scontro frontale.
Ho fiducia, però, che le convinzioni - per
quanto confuse - che hanno spinto a Genova
centinaia di migliaia di persone siano talmente
salde da superare anche lo shock di questa
vicenda, e anzi da sentir rafforzati i propri
convincimenti "anti-globalizzazione".
3. I capri espiatori
Il mondo dei media e il "senso comune"
hanno trovato un nuovo capro espiatorio:
le tute nere, i black blok, gli "anarchici".
Grottesco, in questo senso, l'allestimento
scenografico della Questura di Genova, che
per la conferenza stampa seguita al pestaggio
notturno nelle scuole genovesi ha posto in
evidenza, sopra mazze e bastoni (e accanto
a fazzoletti di carta e coltellini tagliaunghie)
una copia della rivista "A" degli
anarchici italiani, giornale prestigioso
che tutto fa meno che organizzare squadre
di vandali. Ma il segnale era chiaro: non
tanto una nuova versione dei teppisti da
stadio o dei provocatori d'altri tempi (che
non sono mai mancati nelle manifestazioni
più "a rischio" del passato), ma
un soggetto criminale con l'etichetta "anarchica".
E' troppo comodo, sia per i nemici del movimento
sia per i suoi protagonisti, prendersela
con i "cattivi" in tuta nera. Questi
esistono, non solo in Italia, non solo nelle
manifestazioni anti-G8. Sono una presenza
endemica nelle società odierne, e il saccheggio
o la distruzione di negozi non nasce a Genova
nel luglio 2001.
Ci sono due ordini di ragionamenti, però,
da fare anche a proposito del black blok
e della sua area di consenso esterna (uso
il concetto di black blok in senso allargato
a tutti coloro che hanno scelto il conflitto
violento a Genova e in occasioni analoghe).
Innanzitutto, è democratica, sana e illuminata
una cultura che non si interroga sul perché
esistano bande di giovani che scelgono di
contrapporsi all'esistente impugnando bastoni
e distruggendo beni privati? Cosa spinge
a un odio così forte verso le "istituzioni"
e la proprietà privata degli individui che
sono disposti (proprio come i ragazzi palestinesi
dell'Intifada) a rischiare la propria vita
per combattere polizia, carabinieri e "ricchi"?
Si pensa davvero che basta demonizzarli per
risolvere il problema, oppure che tutto si
riduca a fare delle retate e riempire le
galere?
Sarebbe forse meglio che tutti, anche a destra,
si facessero queste domande e mettessero
in discussione se stessi, visto che si identificano
con una società del libero mercato che (nelle
parole di Berlusconi a chiusura del G8) appare
loro come il paradiso che tutto offre, tutto
regala e dà solo libertà e benessere. O riteniamo
che i black blok siano solo incarnazioni
del Male (tentazione che è ricorrente, su
ogni versante politico), e allora occorrono
nuove crociate e lo scorrere del sangue,
oppure dobbiamo fare i conti anche con il
disagio e la "critica" che persino
un ragazzo armato di bastone, pietra o estintore
esprime.
In secondo luogo, e questo riguarda il Gsf
e il movimento tutto, perché chiudere gli
occhi di fronte al fatto che la reazione
violenta contro la polizia e persino alcuni
atti vandalici hanno avuto a Genova un consenso
attivo "di massa", non limitabile
alle cinquecento tute nere organizzate e
determinate? Nel lontano 1977, quando gli
autonomi assaltavano le armerie o facevano
"espropri proletari" durante i
cortei non tutte le persone partecipavano,
ma molti apprezzavano queste azioni e molti
vi si accodavano. C'è una seduzione dello
scontro che si è ripresentata anche a Genova,
soprattutto nelle battaglie di sabato 21
luglio, dopo la morte del giovane Carlo Giuliani
e dopo un atteggiamento esplicitamente aggressivo
delle "forze dell'ordine". E' cecità
non vedere che a combattere con qualsiasi
oggetto disponibile erano ben più di cinquecento
tute nere, ma una moltitudine infuriata e
"di massa". Anche questo va capito,
non rimosso (o demonizzato, come fanno i
benpensanti che ne approfittano per dire
che "erano tutti violenti").
Mi spingo oltre. Persino i black blok non
sono una semplice riproposizione della violenza
di piazza del passato, nemmeno di quella
del '77 che ho prima evocato. Nonostante
l'asprezza dello scontro, non è apparsa una
sola pistola tra i manifestanti. Era morto
anche "uno di loro", e negli anni
Settanta questo sarebbe stato sufficiente
a scatenare reazioni allo stesso livello,
armato, di scontro. Invece anche i black
blok sono un fenomeno nuovo. Il loro obiettivo
non è uccidere l'avversario, ma attaccare
simboli e beni dell'avversario (del resto,
viviamo nella società dei media e dell'immagine).
Le distruzioni sono state mirate: soprattutto
banche, negozi di grandi catene multinazionali,
auto costose. Con il degenerare degli scontri,
poi, il vandalismo si è esteso senza limiti,
ma gli obiettivi principali restavano quelli.
E sono proprio le tute nere che hanno evitato
più di altri lo scontro fisico diretto con
la polizia. Certo, questo facilita il sospetto
che vi fossero connivenze con segmenti delle
stesse autorità, dato che entrambi (autorità
e tute nere) avevano l'identico scopo: creare
il maggior caos possibile. Tuttavia mi interessa
analizzare i comportamenti originali rispetto
alla violenza del passato. E questo dovrebbe
interessare tutti, in primo luogo il movimento
anti-globalizzazione, per capire quali possibilità
di contenimento del fenomeno esistano e che
non siano solo di natura repressiva.
Fabio Giovannini (Genova, 1958). Giornalista e scrittore,
è studioso di immaginario fantastico, gotico
e noir. Ha pubblicato numerosi volumi, tra
cui "La morte rossa. I marxisti e la
morte" (1984), "Il libro dei vampiri"
(1985), "Cyberpunk e Splatterpunk"
(1992), "Necrocultura" (1998),
"Mostri" (1999), "Storia del
noir" (2000), "Guida ai cimiteri
d'Europa" (2001).