COME VEDO CIO' CHE E'
ACCADUTO A GENOVA
di Valerio Evangelisti
Come vedo ciò che è accaduto a Genova. In
quella sfortunata città ha avuto luogo un
concentramento di elementi criminali provenienti
da ogni parte del mondo. Per loro la politica
era un pretesto: erano venuti per provocare
e distruggere. Individui senza scrupoli,
capaci di ogni sorta di violenze e di infamie;
pronti a nascondere, sotto il loro vestito
nero, motivazioni abbiette e la più completa
mancanza di ideali.
Quegli otto criminali (sì, erano otto) costituivano
la punta emergente non tanto di una gang,
quanto di una forma di pensiero distruttiva
come poche.
"Globalizzazione", parola ormai
pronunciata tanto spesso da rischiare di
perdere ogni significato, significa applicazione
al mondo intero del modello economico monetarista
e neoliberista. Un modello che prevede una
ristrutturazione radicale del mondo del lavoro,
mentre lo Stato finge di ritirarsi dal mercato.
Il costo della manodopera deve oscillare
liberamente, secondo le necessità delle imprese,
in modo da scendere considerevolmente e incrementare
i profitti. A questo fine, vanno tolte ai
lavoratori tutte le garanzie di cui disponevano:
quella primaria del mantenimento del posto
di lavoro, ma anche quelle accessorie del
diritto alla salute e alla pensione, quella
di organizzarsi in sindacato, quella di avere
un contratto certo, e tante altre. Il lavoratore
deve presentarsi sul mercato delle braccia
come unità singola, senza intermediari tra
lui e il datore di lavoro; non deve avere
altra garanzia contrattuale che l'accordo
direttamente stipulato; deve poter essere
espulso dalla produzione in qualsiasi istante.
Solo così il suo costo scenderà; inoltre,
solo così farà di tutto per mantenersi fedele
all'impresa, assecondarla, mostrarsi ubbidiente,
accettare ore supplementari di lavoro e ritmi
arbitrari.
Ciò sarà possibile se lo Stato gli toglierà
i benefici di cui in passato ha goduto a
titolo gratuito, costringendolo, se li vuole,
a pagarseli; il che significa assoggettarsi
alla spirale dell'obbedienza, dell'accettazione
di qualsiasi salario, della rinuncia a rivendicazioni
organizzate.
Sono molti anni che questo tipo di politica
viene applicato. Date le rigidità normative
un tempo esistenti, per farla passare si
è ricorso a vari espedienti: prima la scomposizione
delle grandi fabbriche in catene di unità
produttive minori, poi lo spostamento delle
produzioni in paesi in cui la manodopera
costa poco, infine l'affidamento di un numero
crescente di servizi collaterali ad agenzie
formalmente autonome, ma in cui in realtà
la subordinazione della forza-lavoro (composta
di presunti "collaboratori" con
contratti a tempo) è più completa di quanto
lo era stata nella fabbrica tradizionale,
anche per la totale assenza di contrattualità
sindacale.
Si è chiamato tutto questo "flessibilità",
e si è cercato di renderla appetibile: libertà,
indipendenza, potere di cambiare lavoro e
tante altre cose belle, capaci di far dimenticare
retribuzioni irrisorie, e il vertiginoso
allargarsi della forbice tra salari e profitti.
Ma ciò non bastava. Occorreva che lo Stato,
con il pretesto del "risanamento"
(una pura finzione contabile, come sono tutti
i bilanci statali), rinunciasse a ciò che
amministrava nel sociale: dalle aziende pubbliche,
alla previdenza assicurativa e pensionistica,
alla sanità, alla tutela del territorio ecc.
Tutte le funzioni statali salvo una: l'esercizio
della forza, che poi, come già Hobbes ed
Hegel hanno dimostrato, è quella primaria.
Però nemmeno questo bastava: tutti gli Stati
dovevano fare la stessa cosa, altrimenti
il modello non avrebbe retto a lungo.
La caduta dei paesi detti socialisti facilitò
l'operazione, chiamata (dai critici prima,
ma ormai da tutti) "globalizzazione".
Strumenti fondamentali furono gli organismi
(dominati dagli USA) incaricati di erogare
prestiti ai paesi che ne hanno necessità
per il proprio sviluppo: il Fondo Monetario
Internazionale e la Banca Mondiale. Questi
imposero come condizione, agli Stati che
necessitavano di un aiuto (quasi tutti),
di conformarsi al modello neoliberista, e
di ridurre drasticamente l'impegno statale,
con la redistribuzione di ricchezza che comportava,
a favore delle loro popolazioni.
L'esito è stato devastante. Se in Occidente
sono "solo" aumentati disoccupazione
e precariato, altrove è andata peggio. Quando
nell'ex Jugoslavia ci si è trovati a dovere
far fronte alle imposizioni del Fondo
Monetario, per ottenere prestiti vitali,
le repubbliche più ricche (Croazia e Slovenia)
si sono chieste perché mai dovessero sacrificarsi
a favore di quelle più povere. E' stato l'inizio
di una guerra civile che ha condotto alla
dissoluzione completa del paese. Ma questa
tragedia è stata solo una delle tante. Le
aree del mondo che stavano uscendo faticosamente
dalla miseria e dalla subordinazione, piegate
dal debito e soprattutto dagli interessi
da rimborsare, hanno dovuto applicare a una
manodopera già miserabile drastici tagli
di bilancio. Dovunque, a fronte dell'emergenza,
si sono riscoperte divisioni per zona, etniche,
tribali o religiose; sono esplosi conflitti
sociali (Corea, Messico, ecc.), sono scoppiate
guerre civili. Paesi non sottosviluppati,
come l'Argentina, si sono trovati quasi da
un giorno all'altro in braghe di tela. Gli
ex paesi dell'Est hanno visto dilagare forme
di povertà mai sperimentate. In mancanza
di ideologie alternative, sono riemersi fanatismi
carichi di speranze salvifiche per i poveri,
ormai divenuti folla. E siamo solo agli inizi
di questo processo distruttivo.
Questa è la "globalizzazione".
Da notare che, mentre si dava avvio a una
tragica reazione a catena, gran parte dell'economia,
rimasta priva di basi reali, si trasferiva
sul terreno astratto della finanza, con scambi
vorticosi che non possedevano più base concreta.
Comunicazione e informazione diventavano
la merce fondamentale, destinata a vivacizzare
mercati sempre più ristretti. Attorno, macerie,
guerre, brandelli di umanità sempre più sottili
e, soprattutto, disperazione.
Gli otto "grandi", non i soli responsabili
della catastrofe ma certo rappresentanti
dei pochi vincitori di una guerra di tutti
contro tutti, si riunivano a Genova per mettere
qualche pezza a questo stato di fatto: un
pugno di miliardi per combattere l'Aids in
Africa (la fame delle popolazioni africane
oggi viene chiamata uniformemente Aids: è
una malattia, c'è poco da fare, dovrebbero
smetterla di scopare come conigli), la cancellazione
di un'esigua parte del debito estero di paesi
ritenuti amici, qualche ulteriore discussione
(senza risultati) sull'ambiente, e altre
quisquilie. In realtà erano a Genova per
gli stessi motivi che inducevano le famiglie
di Cosa Nostra a tenere i loro summit: per
consultarsi su come perpetuare un crimine.
Detto questo - ma - solamente - dopo avere
detto questo - passo a brevi considerazioni
più specifiche. C'erano a Genova migliaia
di persone venute da fuori. Parecchie decine
di migliaia erano lì per cercare di impedire,
con la loro protesta, che un delitto su scala
planetaria continuasse. 18.000 circa erano
lì - non per propria volontà, ma perché comandati,
costretti, ecc. - a fare la guardia al raduno
degli otto criminali. Pur con tutta la simpatia
e la comprensione possibili, il primato morale
dei primi (che non sempre mi sono simpatici,
anzi!) mi sembra indubbio.
Bene, coloro che erano a Genova con le motivazioni
etiche più forti sono stati per due giorni
oggetto di una caccia spietata e di violenze
inaudite (dovunque fossero, hanno lasciato
pozze di sangue). I loro persecutori proteggevano,
oltre agli otto "grandi", le cose,
ma accanendosi sulle persone. Ciò non ha,
ai miei occhi, spostato il vantaggio morale
a loro favore.
Uno di coloro che si battevano contro un'ingiustizia
di proporzioni inaudite è stato ucciso. A
questo punto mi interessa poco la dinamica
dei fatti. E' stata ammazzata una piccola
parte di un ideale umano e gentile. Chi gli
ha sparato, pur con tutte le attenuanti del
caso, non rappresentava nulla di simile.
Lo volesse o no, incarnava il terrore.
Provo compassione per il secondo come persona.
Provo un sentimento molto più forte per il
primo.
Ho ricevuto una bella lettera dai due poliziotti
(marito e moglie) della squadra antimafia
di Palermo, conosciuti in Spagna. Gente durissima,
che ha partecipato alla cattura di Brusca
e ad altre azioni pericolose - certo più
pericolose di quelle condotte dalle squadre
mobili di altre parti d'Italia.
Bene, hanno entrambi rifiutato di andare
a Genova. Non era la loro causa. I superiori,
dopo molte insistenze, si sono dovuti rassegnare.
Ecco due "sbirri" che riconosco
come fratelli. Certo, capisco che non tutti
possono compiere scelte analoghe. Però, anche
in questo caso, devo riconoscere un divario
morale tra i due "sbirri" di Palermo
e chi si gettava sulla folla sgommando sulle
camionette, o marciava picchiando i manganelli
sugli scudi, in una grottesca parodia de
"Il Gladiatore". Umana comprensione
per questi ultimi, se obbedivano a ordini
ricevuti. Ma ammirazione solo per i primi,
a meno di non dire che di notte tutti i gatti
sono bigi.
Da ultimo, la considerazione più spinosa.
Perché non denunciare alla polizia quelli
del Black Bloc, con le loro evidenti provocazioni
(e le ormai provate infiltrazioni) ?. Io
non ero a Genova (come dice Giorgio - [dalla
mailing list "eymerich" n.d.r.],
ero tra quelli che si facevano delle pippe
davanti alla tv), per cui la mia risposta
sarà ipotetica e dubitativa. Bene, la domanda
circolava già alla fine degli anni '70, riferita
ai brigatisti. A quei tempi la mia risposta
era: "Io non denuncio nessuno, a meno
di non essere fermamente convinto che sia
davvero peggiore dei suoi nemici". La
considero ancora valida.
Valerio Evangelisti (Bologna, 1952). Scrittore e sceneggiatore.
Dopo aver pubblicato volumi e saggi di storia
si è dedicato interamente alla narrativa.
Si è affermato con il ciclo fantastico dedicato
all'inquisitore Eymerich e con la trilogia
su Nostradamus "Magus". Le sue
opere sono tradotte in tutt'Europa.