RESPIRO
Umberto De Marco
Scorrono lente: piccole gocce che percorrono
lo stretto tubicino di plastica trasparente,
per poi entrare in un ago, freddo, anche
se immerso per metà nella vena; la percorrono
trasportate dalla circolazione del sangue,
e si diramano per tutto il corpo, sicure
di portare ogni sorta di beneficio.
E lui le tiene la mano. Osserva il viso della
sua bambina contratto dal dolore e ascolta
il respiro affannoso che sembra urlare: basta,
voglio smettere, lasciatemi riposare.
La madre è restata per troppo tempo seduta
lì, nello stesso posto in cui ora è lui,
ad osservarla, sperando che aprisse gli occhi,
che la chiamasse, senza avere nessun risultato;
così gli è sembrato giusto darle il cambio,
almeno per farla riposare. Già… ma come ci
si può aspettare da una madre di abbandonare
la figlia che lotta contro una malattia più
forte di ogni medicina? Infatti ora lei è
nella stanza affianco, stesa sul letto, e
mentre i suoi occhi si riposano le orecchie
restano allerta, cercando di percepire anche
il più piccolo rumore che possa indicare
che lei si è ripresa e che ormai la malattia
è lontana, come un brutto sogno.
Il respiro si fa per un attimo più affannoso
(pietà, pietà di me) e poi ritorna come prima: rumoroso, lento,
grasso e fastidioso.
Lui le accarezza il viso, illuminato solo
dalla luce della lampada sulla scrivania:
è un modo come tanti per vederla come se
indossasse una maschera, è un modo come tanti
per ingannarsi che tutto questo non stia
accadendo.
Per qualche minuto fa finta che la sua bambina
stia dormendo, così come succedeva quando
le raccontava qualche favola della buonanotte
e non smetteva di farlo neppure quando si
era addormentata, perché in questo modo si
sentiva come un angelo, un angelo custode.
Le accarezza la fronte sudata e gli vengono
in mente un sacco di ricordi: il primo giorno
d'asilo, che piangeva piangeva e piangeva
impaurita da un inconcepibile abbandono dai
suoi genitori; i natali passati tra i regali
stretti forte e i grazie strillati al cielo
per fa sì che Babbo Natale potesse sentirla;
le favole raccontate ogni notte; le domande
imbarazzanti che riusciva sempre a rimandare
alla madre; il non c'è alcuna speranza, se resta qui in
ospedale o a casa non fa alcuna differenza,
ci vorrebbe solo un miracolo…
Chiude gli occhi, e quando li riapre spera
che tutto sia solo un incubo, ma non è così,
il respiro cresce sempre più, invade col
fragore la stanza, il volto resta ancora
sofferente con quelle due palpebre sigillate
da un sonno malato, infetto, e quel dannato
poster di Britney Speras continua a sorridere
quando non c'è un nulla da ridere, e allora
vorrebbe piangere, disperarsi, sgolarsi per
chiedere a chiunque possa rispondergli perché
proprio a lui, perché proprio a sua figlia.
Ma resiste… lei potrebbe risvegliarsi da
un momento all'altro, cosa penserebbe se
lo vedesse in quello stato? Allora resta
immobile, cercando di non badare a quel respiro,
che lo sta facendo impazzire: è odioso come
il rumore di un foglio di cartavetrata contro
una superficie ruvida.
Portatela a casa, almeno…
Almeno cosa? Almeno morirà non in posto squallido
come l'ospedale? Almeno possiamo seguire
ogni secondo del suo decesso direttamente
a casa?
Si, era questo quello che voleva dire il
medico, anche se poi non gli aveva risposto.
Lo sai che quando io e tua madre ci siamo
fidanzati pensavamo sempre ad un futuro,
un futuro fatto di una bella casa, di un
buon lavoro per entrambi e una figlia; sai,
ce l'immaginavamo proprio come te, davvero,
con le treccine bionde e gli occhi azzurri
e…
Lei annaspa. Pare che si stia affogando e
lui resta immobile, non sa che fare. Sembra
voglia tossire, ma non ci riesce. Gorgoglia
e… niente, tutto torna come prima.
Forse è un modo come tanti per farmi capire
che non t'interessa la mia storia, scusa.
E si asciuga quelle due lacrime che lo stavano
per tradire, che gli bagnavano le palpebre.
Continua a stringerle la mano, sperando di
riscaldarla. Ieri si lamentava dei brividi
di freddo, ma ora sembra insensibile a tutto,
c'è solo il sonno e quel respiro che non
accenna a migliorare. C'è solo il respiro
che lo graffia e vorrebbe fargli tappare
le orecchie. Un respiro contorto, cattivo,
e vorrebbe che cessasse, e lo chiederebbe
a Dio, ma
ormai l'ha troppo insultato, e 'fanculo fede,
non ha nessun rimpianto perché lei sta male
e il mondo continua a girare come se nulla
fosse, e nessuna invocazione viene esaudita,
e tutto resta fermo nell'oblio dell'indifferenza,
e…
La preghiera viene esaudita.
Il respiro cessa.
Non ha il coraggio di guardarla, le stringe
più forte che può la mano sperando che lei
piagnucoli: fermati papà, mi stai facendo
male. Ma niente.
Nessuna parola, il respiro è cessato.
Ora può lasciare libere le lacrime.
UMBERTO DE MARCO (Napoli, 1984). Ha pubblicato per l'editore
napoletano IL Razionale dei racconti e una
raccolta. Altri miei racconti si possono
trovare sul sito di "Stampa Alternativa" e nel laboratorio del "Grande Macello". E' un appassionato di ogni genere
di storia, anche se crede di amare sopratutto
Stephen King e Sclavi. Adora i gatti, odia
l'80 per cento della popolazione terreste,
ama più di ogni altra cosa la parte restante.
per conattarlo: fwghde@tin.it