"GIALLO ARGENTO" (Profondo Rosso) di Luigi Cozzi |
"HAMMER LA FABBRICA DEI MOSTRI" (Profondo Rosso) di Luigi Cozzi |
"THE KILLER MUST STRIKE AGAIN" di Luigi Cozzi (versione americana di "L'assassino è costretto ad ucccidere ancora) |
"Profondo Rosso" Via dei Gracchi, 260 00192 - ROMA |
ANNI SETTANTA
LA STAGIONE D'ORO DEL THRILLER ALL'ITALIANA
(un ricordo personale di Luigi Cozzi)
Approdai a Roma proveniente da Milano, dove
avevo sempre abitato con la mia famiglia,
alla fine degli anni Sessanta: svolgevo infatti
il servizio di leva e, dietro alle mie insistenze,
ero riuscito a farmi assegnare a una postazione
militare della Capitale. Era sempre stato
nei miei desideri, infatti, di trasferirmi
nella tentacolare Città Eterna, perché era
anche la Città del Cinema, la "Hollywood-sul-Tevere",
e quello era il mestiere che volevo fare
più di ogni altro: il cinema.
Siccome però amavo molto anche la musica
rock, durante il servizio militare a Roma
presi a frequentare la redazione di un settimanale
musicale per giovani che allora andava per
la maggiore, Ciao 2001. Portavo infatti proposte di articoli e
di interviste con le maggiori "star"
inglesi o americane, e dopo alcuni tentativi
i miei sforzi ebbero fortuna: diventai un
collaboratore regolare di Ciao 2001, pubblicando sulle sue pagine i miei "servizi".
Per la verità, allora facevo ancora il militare
e di tutte quelle "star" di cui
scrivevo (Mick Jagger, John Lennon, Donovan,
i Doors, e così via), non ne avevo mai vista
una da vicino: però non è che i miei articoli
fossero inventati. No. Semplicemente, quelli
erano tempi diversi, Internet e il diluvio
mediatico di oggi non esistevano, e così
nulla o quasi qui da noi si sapeva del mondo
"pop-rock" angloamericano. Quindi,
perché risultassi il più informato di tutti,
bastava che andassi a via Veneto, dove c'erano
due edicole che ricevevano puntualmente le
più recenti riviste rock-pop americane e
inglesi: le compravo, mettendo insieme i
pochi soldi che avevo allora, e poi traducevo
e "adattavo" le interviste (vere)
che su quelle pagine c'erano con i vari John
Lennon, Jimi Hendrix, Hollies, Animals, Procol
Harum, eccetera. Quindi inventavo titoli
accattivanti (immancabilmente con frasi tipo:
"Basta! Non mi drogo più!", oppure "Ho deciso: sciolgo il complesso!" e proponevo i "pezzi" così
assemblati alla direzione del settimanale,
dove allora c'era un personaggio simpatico
e intelligente che ricorderò sempre con affetto,
il giornalista Sergio Marchetti. E assai
spesso, quei miei articoli così messi insieme
venivano accettati, pubblicati con vistosi
richiami in copertina e - incredibile! -
venivano pure regolarmente ricompensati (ed
erano l'unica entrata di cui godessi allora,
a parte la misera "paghetta" da
soldato).
Un giorno accadde un fatto singolare, che
costituì una svolta nella mia vita. Stavo
per concludere il servizio militare e quindi
nel giro di un paio di mesi avrei dovuto
lasciare Roma per tornare a Milano. Ma una
sera, curiosando tra le edicole di via Veneto,
trovai una rivista americana che pubblicava
un paio di interviste con John Lennon e Paul
McCartney, allora famosissimi in quanto leader
del già mitico complesso dei Beatles. Dalle
dichiarazioni di quei due straordinari artisti,
abbastanza normali in generale, si poteva
però dedurre che tra di loro si stessero
manifestando alcune nette divergenze di gusto
e di opinione, almeno in fatto musicale.
Così pensai che sarebbe stato interessante
scrivere un articolo per Ciao 2001 evidenziando tali (piccoli) contrasti e,
ovviamente, esagerandoli: in tal modo, avrei
potuto intitolare il pezzo in un modo tipo
"Anche i Beatles si sciolgono!", oppure "Lennon e McCartney non vanno più d'accordo!", e con una premessa di quel tipo ero
certo che il mio pezzo sarebbe stato immediatamente
accettato. Era una vendita sicura per me,
in altre parole, e sa il Cielo quanto avessi
bisogno di soldi, allora!
Infatti, il mio articolo fu acquistato e
immediatamente pubblicato proprio col titolo
"Clamoroso: I Beatles si sciolgono!"
Quel numero di Ciao 2001 andò nelle edicole un lunedì mattina, com'era
usuale. Ma il mercoledì di quella stessa
settimana avvenne un fatto incredibile: le
agenzie di tutto il mondo presero a battere
sulle telescriventi una notizia sensazionale,
che cambiò di colpo lo svolgimento della
mia vita.
I Beatles si scioglievano PER DAVVERO!
Siccome Ciao 2001 era l'unico settimanale in edicola con quella
notizia stampata in grosso sulla copertina,
andò letteralmente a ruba, mentre la redazione
fu tempestata di chiamate da giornali e agenzie
che volevano ulteriori dettagli, dato che
secondo loro evidentemente quella redazione
era molto ben informata su tutto quanto accadeva
a Londra nelle dimore dei Beatles.
Tempo un paio di giorni, e fui convocato
dal direttore amministrativo del settimanale,
Saverio Rotondi, un altro personaggio (purtroppo
scomparso alcuni anni fa) al quale sono grato
e di cui conserverò sempre un ricordo molto
affezionato. Si complimentò con me per lo
"scoop" clamoroso (e di certo involontario:
ma questo mi guardai bene dal dirglielo ...
) e aggiunse che, siccome Ciao 2001 doveva ingrandirsi e serviva un nuovo redattore
interno, per lui ero la persona adatta, se
accettavo. In altre parole, mi offriva un
lavoro fisso, con tanto di stipendio, contributi
e collaborazioni (leggi, articoli) retribuite
a parte.
Quell'offerta era come un sogno, per me:
risolveva d'incanto tutti i miei problemi,
mi consentiva di evitare il ritorno forzato
a Milano, mi permetteva di restare a Roma
con la possibilità di mantenermi da solo.
(Be', certo lo stipendio non era granché:
quarantamila lire al mese. Però gli articoli
mi venivano pagati a parte - ventimila lire
l'uno - e se quindi, stando all'interno del
giornale, riuscivo a pubblicarne un paio
a numero, moltiplicato per quattro numeri
al mese, più il "fisso", cento
o centoventimila lire mensili potevo riuscire
a metterle insieme. Risparmiando all'osso
su tutto, potevo in qualche modo riuscire
a vivere per conto mio a Roma...)
Così accettai e diventai uno dei due redattori
fissi di Ciao 2001 (l'altro era Daniele Del Giudice, col quale
divenni presto grande amico e che oggi è
uno dei più stimati scrittori italiani).
Tenni l'incarico per quasi due anni, finché
non lo lasciai (molto a malincuore, lo devo
dire: era una lavoro magnifico!) per andare
a lavorare con Dario Argento.
Ma ecco come accadde questo secondo evento
della mia carriera "romana", un
passo che mi fece accedere al cuore della
stagione d'oro del thrilling all'italiana.
Avevo preso in affitto una mansarda a Montesacro,
in cima a un enorme palazzone, e siccome
per abitarvi pagavo le 40mila lire esatte
che ricevevo ogni mese come stipendio fisso
da Ciao 2001, avevo assolutamente bisogno di guadagnare
altro denaro vendendo articoli o collaborazioni
anche ad altre testate, altrimenti non avrei
avuto letteralmente di che mangiare, mentre
al tempo stesso, essendo da sempre un mega-appassionato
di cinema, speravo anche di riuscire a "entrare"
prima o poi in qualche modo nell'ambiente
dello spettacolo.
Ma non conoscevo assolutamente nessuno nel
mondo del cinema e non sapevo come fare e
dove o a chi propormi come soggettista e
sceneggiatore. Però ebbi coraggio: presi
l'elenco del telefono e cercai i nomi di
alcuni registi e sceneggiatori che stimavo.
Alcuni li trovai, altri no. Per quelli che
mi mancavano, mi rivolsi alle produzioni
dei loro ultimi film: dissi che ero un giornalista
(la verità) e che li volevo intervistare
(un'altra verità: o, almeno, una parte di
essa). Poi li chiamai e tutti, da Freda a
Margheriti, da Gastaldi a Lenzi, risposero
immediatamente che si sarebbero incontrati
con piacere con me, per farsi intervistare.
Fu così che li conobbi tutti e fu così che,
parlando e parlando con loro, più di uno
di essi mi rivolse, alla fine di quei nostri
colloqui, saputo che ero un appassionato
del genere e scrivevo anche racconti e soggetti,
il fatidico (e tanto desiderato) invito:
"Perché non mi porta qualcosa di suo
da leggere? Lo prenderei in considerazione
con interesse...
In questo modo entrai anch'io a far parte
dell'ambiente del cinema o, almeno, di quello
di tutti coloro che cercavano di scriverlo.
Come vedete, non fu difficile, e a tutti
coloro che oggi mi rivolgono la classica
domanda ("lo scrivo. Ma come faccio a conoscere qualcuno
al quale proporre le mie storie?"), consiglio di seguire questo mio
"metodo" - se cosi lo si può definire
- che ha il vantaggio di essere diretto,
semplice e abbastanza funzionale (nel mio
caso, almeno, ha funzionato).
Tra l'altro, quel sistema aveva anche il
merito - al di là del fatto che mi consentiva
di proporre i miei soggetti a professionisti
allora noti - di fruttarmi denaro: infatti
riuscivo anche a vendere le interviste che
facevo, le pubblicavo su Ciao 2001 o su altre testate di cinema (tra le quali
l'ottima Horror diretta da Alfredo Castelli), e quindi -
in ogni caso - quei miei incontri non erano
inutili. E pure i registi e gli sceneggiatori
che vedevo erano, soddisfatti, perché i miei
servizi su di loro venivano stampati.
Tra l'altro, è bene dirlo, si era allora
all'incirca nel 1970: i registi famosi erano
in Italia gente come Mario Bolognini, Federico
Fellini, Luchino Visconti, Mario Monicelli...
Quelli che invece io andavo a intervistare
(Riccardo Freda, Antonio Margheriti, Mario
Bava, Mario Caiano, Umberto Lenzi ... ) erano
considerati di serie B o C, i giornali si
rifiutavano di dedicare più di poche righe
ai loro film (reputati "meri prodotti
i consumo o commerciali") e quindi nessuno
mai chiedeva a personaggi colme Freda o Bava
(tanto per fare due nomi) di poterli intervistare:
perciò venivo sempre accolto da questi artisti
misconosciuti con stupore ma anche con enorme
piacere e soddisfazione, e si concedevano
a me per ore e ore intere, in quanto ero
il primo e l'unico (almeno tra i giornalisti
italiani) a dedicare loro attenzione. Ed
è un peccato che di quelle mie lunghe interviste
(che - nei casi di Freda, Margheriti e Mario
Bava - si trasformarono subito in amicizia,
con regolari incontri quasi settimanali per
un paio d'anni interi!) sia rimasto pochissimo
di scritto: gli articoli che ne ricavai erano
infatti completi e lunghissimi, i servizi
su Freda, Bava e Margheriti superavano le
sessanta pagine tra racconti, affermazioni
e spiegazioni, e i periodici ai quali li
inviavo non li potevano pubblicare integralmente.
Per cui ne apparvero solo dei supercondensati
di tre o quattro pagine al massimo, e siccome
tra il 1969 e il 1971 le fotocopie erano
ben poco diffuse e costavano moltissimo (un
esborso proibitivo per le mie misere finanze
di allora), tutto o quasi lo straordinario
materiale biografico e filmografico che raccolsi
all'epoca è andato perduto.
Poi, va pure detto, avevo anche un buon "fiuto"
Perché la svolta fondamentale successiva
della mia avventura romana avvenne quando
andai a vedere un film, L'uccello dalle piume di cristallo dell'allora esordiente Dario Argento, che
stava arrancando in sordina nella parte bassa
della classifica degli incassi italiani:
non era infatti stato accolto bene dalla
critica e la gente non lo andava a vedere.
Però, quando lo vidi al cinema Empire prima
che lo togliessero, ne rimasi folgorato:
era un film bellissimo e, soprattutto, secondo
me rappresentava davvero una svolta nel cinema
horror italiano e anche mondiale. Il suo
regista - pur se sconosciuto e debuttante
- per me era un fuoriclasse!
Per questo telefonai subito all'ufficio stampa
della società che lo aveva distribuito (la
Titanus) e chiesi di poter intervistare il
regista. Il capoufficio stampa fu molto sorpreso
dalla mia richiesta, perché quella pellicola
per loro era una produzione di serie B e
di scarsa importanza, ma comunque mi accontentò
e mi fornì il numero di telefono della società
che l'aveva prodotta, la Seda, spiegandomi
che il regista era il figlio del produttore.
Chiamai la Seda (sigla composta dalle iniziali
di "Salvatore e Dario Argento")
e la segretaria cortese mi fece parlare col
produttore in persona, Salvatore Argento,
il quale si manifestò molto sorpreso ma anche
estremamente compiaciuto per la mia richiesta
d'intervistare il figlio: ero infatti il
primo giornalista in assoluto che chiedesse
un incontro con Dario Argento!
Salvatore - una persona straordinariamente
cordiale e simpatica, che ricorderò sempre
con grande affetto, in quanto col tempo e
la conoscenza si mise a trattarmi quasi fossi
un altro suo figlio - mi combinò un incontro
con Dario e fu così che nacque la mia lunga
e ancora attuale collaborazione con lui.
Parlando e parlando, ricavai un buon servizio
sull'allora giovane autore e l'articolo uscì,
in forme leggermente diverse, tanto su Ciao 2001 che su Horror di Castelli, mentre le altre testate di
cinema alle quali collaboravo lo rifiutarono
perché L'uccello dalle piume di cristallo, nella sua prima distribuzione nazionale,
aveva incassato pochissimo, mentre tra me
e Argento nasceva quella stima e quell'amicizia
che è durata sino a oggi.
Poi Dario mi propose, dopo qualche incontro,
di provare a scrivere qualcosa per lui e
per il suo tipo di cinema, e devo dire di
avere avuto ottimo intuito perché di fronte
a proposte analoghe ricevute da Freda, Margheriti
e Bava, privilegiai quella di Argento e mi
dedicai soprattutto alla collaborazione con
lui, che allora era il meno noto di tutti.
Alcuni mesi dopo, con l'uscita del Gatto a nove code, Dario divenne il nuovo "fenomeno"
del cinema italiano: il suo secondo film
incassò tantissimo e nacque così il "boom"
del giallo all'italiana, dello "spaghetti-thriller"
o del "thrilling" puro e semplice,
consacrato qualche mese più tardi dalla riedizione
dell'Uccello dalle piume di cristallo (e questa volta la pellicola ebbe successo
e incassò tantissimo) e dalla messa in cantiere
da parte di altre produzioni dei primi, imitativi
film "alla Dario Argento".
Ma ero già sulla cresta dell'onda perché,
per il semplice fatto che da qualche tempo
stavo scrivendo con Argento il suo terzo
"giallo" (quello che sarebbe diventato
poi Quattro mosche di velluto grigio), ero richiesto già da altre produzioni
e da altri registi come consulente, e co-sceneggiatore
in quanto collaboratore dell'inventore di
quel genere.
Fu così che, senza avere ancora firmato nessun
copione ma solo per il fatto di essere vicino
Dario Argento, mi ritrovai a essere uno degli
scrittori di cinema più richiesti... e tutto
questo avveniva nemmeno un paio d'anni dopo
che ero giunto in quella città come semplice
soldato in servizio di leva!
Il lavoro di scrittura con Dario Argento
fu abbastanza lungo ma anche piuttosto interessante
e a me insegnò quasi tutto quello che c'era
da sapere nel campo della sceneggiatura.
Argento era davvero un maestro straordinario,
e a poco a poco capii pure che tutto quello
che lui sapeva, l'aveva appreso a sua volta
da un altro artista straordinario (del quale,
in quel periodo, imitava spesso i gesti e
i vezzi), Sergio Leone, l'autore di film
indimenticabili quali C'era una volta il West e Per un pugno di dollari.
Il titolo - Quattro mosche di velluto grigio - era di Dario, l'aveva inventato lui, e
lo custodiva come un geloso segreto. A me
ovviamente lo riferì, ma mi disse anche che
non sapeva che cosa potesse significare:
all'inizio, infatti, quando iniziammo a scrivere
insieme il "trattamentone" di quel
film, Argento non aveva nessuna idea precisa
circa la storia che voleva raccontare. Sapeva
soltanto che ci dovevano essere almeno cinque
o sei delitti, tutti assai complessi e molto
brutali. Noi dovevamo escogitarli e poi bisogna
trovare il modo di "cucirli" insieme
in una trama logica.
Per questo la prima fase del nostro lavoro
fu la ricerca di quelle sequenze di morte.
Dario mi indicò una serie di libri gialli
(in particolare, Troppo tardi di Raymond Chandler e L'alibi nero di Cornell Woolrich) e mi disse che contenevano
crimini e/o situazioni che gli sarebbe piaciuto
inserire nel suo film. Ma era possibile?
E se sì, come? Quindi mi lessi con attenzione
tutti quei libri e cominciai a pensare se
poteva esistere un modo per utilizzare i
brani apprezzati da Dario nel nuovo film
che dovevamo scrivere assieme. Contemporaneamente,
portai io ad Argento un'altra serie di libri
e gli dissi che in uno c'era una scena che
mi piaceva, che in un altro c'era una bella
morte di un personaggio, così via. Lo invitai
a leggerli per vedere se piacevano anche
a lui e se, quindi, era il caso di prendere
in considerazione anche quelle opere come
fonte d'ispirazione.
Arrivammo così a mettere insieme una serie
di delitti, presi qua e là tra vari libri
(in particolare, L'alibi nero di Woolrich), e cominciammo a cercare di
cucirli insieme con una sorta di storia logica.
Dario amava la musica moderna e quindi pensò
bene che il protagonista della pellicola
doveva essere un musicista rock. Quindi gli
venne l'idea di immaginare che qualcuno lo
ricattava perché il musicista si era reso
colpevole di un delitto, seppure involontario,
e perciò era un perseguitato. Cominciammo
a stendere molte pagine procedendo in quella
direzione. Un po' scrivevo io, un po' scriveva
lui, e poi confrontavamo quello che avevamo
steso e sceglievamo i pezzi migliori. Dario
poi riscriveva il tutto, amalgamando ogni
cosa col suo personalissimo stile. Poi ci
si rivedeva, si commentava la storia sino
al punto in cui eravamo arrivati e cercavamo
di trovarne gli sviluppi ulteriori, nei quali
dovevamo incastrare i delitti già selezionati.
Non avevamo ancora la minima idea su chi
dovesse risultare l'assassino alla fine:
procedevamo, in questo proposito, davvero
alla cieca, pensando di limitarci a scegliere
il personaggio più insospettabile.
C'era però un particolare che non piaceva
né a me né a Dario e che ci rendeva faticosa
quella fase di scrittura: non era bello avere
un protagonista che veniva ricattato in quanto
aveva a sua volta commesso un delitto. In
altre parole, non era bello avere un personaggio
principale che fosse a sua volta un colpevole.
Eppure, per far funzionare la storia che
avevamo elaborato, quel punto era davvero
fondamentale... finché a me non venne un'idea:
perché infatti non fare invece che il protagonista
semplicemente credesse di aver commesso un
crimine, mentre invece si era trattato di
una messa in scena in cui lui, ignaro, era
cascato? In questo modo il protagonista non
era più a sua volta un colpevole ma una doppia
vittima...
Dario quasi mi baciò quando gli proposi questo
"sconvolgimento" della trama, e
così inserimmo subito la modifica nel copione:
il personaggio che apparentemente all'inizio
era stato ucciso dal protagonista riapparve
in una scena a metà del film, ben vivo e
vegeto e intento a divorarsi un fumante piatto
stracolmo di spaghetti. La sua "morte"
era stata infatti tutta una messa in scena
organizzata d'accordo col vero assassino
per poter poi ricattare il personaggio principale.
Continuammo a scrivere con molto entusiasmo,
e mentre lo facevamo andavamo spesso insieme
al cinema, cercando di trovare altri spunti
o nuove idee nelle pellicole che vedevamo
o che ci consigliavamo a vicenda. Quattro mosche di velluto grigio era ormai quasi completo, scritto per tre
quarti, ma ancora non avevamo la minima idea
di chi potesse essere il ricattatore assassino.
La risposta venne a Dario da un suo amico,
il giornalista televisivo Mario Foglietti,
il quale un giorno gli diede da leggere un
suo soggetto a giallo nel quale una moglie
stanca del marito lo torturava segretamente
fin quasi a ucciderlo. Fu leggendo quel testo
che Dario decise di aver trovato la conclusione
del suo film. L'assassino era la moglie del
protagonista!
Dal soggetto di Foglietti Dario Argento non
prese altro: solo quell'idea. Ma bastò perché
anche il nome di Mario venisse scritto nei
titoli di testa della pellicola, anche se
lui non partecipò mai alla sua stesura...
ma del resto era giusto così.
Restavano però aperti ancora un paio di punti:
che cosa c'entrava il titolo (Quattro mosche di velluto grigio) con la storia che raccontavamo, e poi c'era
pure da inventarsi un finale che, secondo
Dario, non doveva essere il solito con la
polizia che arriva o con l'assassino che
muore banalmente. Qui ebbi due idee io: la
prima fu quella della strana macchina che
è capace di leggere l'ultima immagine rimasta
impressa nell'occhio di una vittima. Dissi
a Dario che in quel caso poteva trattarsi
delle famose, fatidiche quattro mosche, quelle
del titolo del film: era quella l'ultima
immagine vista da una delle vittime prima
di morire. E per capire di che cosa si potesse
trattare, dissi poi a Dario che poteva essere
l'immagine oscillante (e quindi raddoppiata
o moltiplicata) di un medaglione a forma
di mosca che l'assassina portava al collo.
Quella duplice idea entusiasmò Dario e così,
nel trattamento (cioè, una sorta di racconto
completo del film o in forma di racconto,
lunga circa una sessantina di pagine) inserimmo
anche questi elementi, e in quel modo pure
il titolo del film acquistava un senso e
funzionava.
Restava aperta soltanto la sequenza conclusiva:
Dario aveva pensato a un incidente di macchina
come causa della morte dell'assassino, ma
voleva qualcosa che rendesse quella sequenza
meno ovvia e banale. Fu qui che ebbi un'altra
idea: perché non rendere quella scena dal
punto di vista di chi muore? Perché non farla
come vista dall'assassino? Ovvero, immaginai
che una persona vittima di un incidente automobilistico
può forse vivere quei suoi ultimi istanti
di vita come una sorta di lunghissima agonia;
il tempo si spezza e rallenta fino quasi
all'inverosimile e ogni cosa risulta dilatata,
allungata, quasi soprannaturalizzata...
Suggerii anche che si sarebbe potuto girare
quell'incidente usando una cinepresa speciale,
di quelle scientifiche in uso nelle università
per le ricerche, lavorando magari a 1000
o a 2000 o 3000 fotogrammi al secondo al
posto degli usuali 24. L'avevo visto fare
in alcuni film di fantascienza e mi sembrava
che concludere il film in quel modo, con
la morte dell'assassina dilatata all'inverosimile,
mentre i vetri del parabrezza si spaccavano
e volteggiavano nell'aria come in un balletto
soprannaturale, sarebbe stata forse una soluzione
innovativa, differente dalle solite... e
Dario fu completamente d'accordo con me.
Si entusiasmò per quella proposta, la inserì
immediatamente nel trattamento e poi la realizzò
anche nel film, e da allora quella scena
è diventata uno dei momenti più "classici"
e citati del suo cinema.
Mentre collaboravo con Dario Argento e lavoravo
ancora come redattore a Ciao 2001, scrissi anche diverse revisioni di dialoghi
e misi la mano e lo zampino in varie sceneggiature
per altre produzioni. Era in corso infatti
il "boom" del giallo italiano e
a Roma si preparavano a valanga le pellicole
di quel tipo. Quando poi Argento mise in
lavorazione Quattro mosche di velluto grigio, saputo che il mio sogno era quello di diventare
regista, mi invitò a seguirlo sul set e così
diventai un suo assistente, il secondo dopo
il suo abituale aiuto-regista Roberto Pariante:
ma quando, dopo appena un paio di settimane
di riprese, Dario ebbe dei contrasti col
suo aiuto, Pariante si tirò da parte e così,
di colpo, mi ritrovai - alla prima esperienza
cinematografica! - a fargli addirittura da
primo aiuto, un compito che evidentemente
dovetti assolvere bene, perché Dario mi volle
accanto a sé con quella funzione anche dopo
la conclusione delle riprese e finché tutta
l'edizione della pellicola non fu conclusa,
molti mesi dopo.
Intanto, avevo conosciuto altri produttori
e messo la mano in diversi progetti. Scrivevo
infatti per molti e, al tempo stesso, cominciavo
anche a guardarmi intorno perché desideravo
debuttare prima o poi a mia volta nella regia.
Scrissi tra l'altro un paio di copioni completi,
in collaborazione col compianto amico Enzo
Ungari (allora gestore del Filmstudio e organizzatore
con me delle prime "Rassegne della Fantascienza",
nonché futuro collaboratore di Bernardo Bertolucci
per la stesura del film dai tanti Premi Oscar
L'ultimo imperatore), e di un paio di essi, anche se non furono
mai trasformati in film per varie ragioni,
sono sempre stato abbastanza orgoglioso,
tanto che - per non lasciarli finire nell'oblio
delle sceneggiature non realizzate - qualche
anno fa li ho trasformati in romanzi e, sotto
lo pseudonimo solito di "Lewis Coates",
li ho pubblicati coi titoli Quando piange un investigatore e L'istinto della caccia sul mensile Giallissimo (questi stessi due romanzi sono stati poi
ristampati anche in versione da libro rilegato
nella serie Il Giallo Classico della FME).
Ma di questa convulsa "stagione d'oro"
del "giallo all'italiana" ricordo
soprattutto l'esperienza con Dario Argento
e il lungo, complesso e articolato lavoro
di collaborazione con lui, autentico maestro
di ogni mia esperienza nel mondo del cinema.
E ricordo anche la grandissima stima e amicizia
dimostrata da Dario nei miei confronti, quando
mi propose come uno dei quattro registi scelti
per la sua serie televisiva della Porta sul
Buio, progettata nel 1971, realizzata nel
1972 e messa in onda dalla Rai nel 1973.
Sempre Dario Argento fu all'origine del mio
esordio come regista di lungometraggi nel
genere del "giallo all'italiana":
nel 1973 io e lui (insieme con Enzo Ungari)
eravamo infatti a Milano, impegnati a svolgere
le ricerche storiche necessarie per la scrittura
di quello che sarebbe stato il quarto film
diretto dall'ormai celebre regista, Le Cinque Giornate, e fu così che entrammo in contatto con
un produttore lombardo, Giuseppe Tortorella,
che aveva da poco realizzato un thriller
con Duccio Tessari (La morte risale a ieri sera) tratto da un romanzo di Giorgio Scerbanenco
e un film poliziesco di Umberto Lenzi (Milano violenta o qualcosa del genere). Intendeva adesso
girare un giallo all'italiana e per questo
volle incontrarsi con Argento per chiedergli
qualche consiglio.
Quando l'incontro si svolse, una delle prime
cose che Dario disse a quel produttore fu
che, se voleva davvero creare un giallo coi
fiocchi, doveva farlo dirigere a me!
Fu cosi che Tortorella mi prese in considerazione
come regista, e di questo dovrà essere sempre
grato a Dario Argento, perché in quell'occasione
(e in altre successive) dimostrò in modo
clamoroso che il suo altruismo e la sua generosità
nei miei confronti andavano ben oltre qualunque
rapporto professionale o di amicizia: e nessun
altro, in tutta la mia ormai lunga esperienza
professionale, si è mai più battuto tanto
a mio favore e in modo cosi totalmente disinteressato
come seppe fare lui allora...
Con Tortorella lavorammo a lungo su quel
progetto di film (Quando piange un investigatore, che però allora in forma di sceneggiatura
si intitolava La semplice arte del delitto, ovvio omaggio a Chandler), ma dopo vari
mesi - malgrado l'appoggio che Argento continuò
a darci - non approdammo ad alcun risultato
(nel senso che non si trovò nessun distributore
interessato a finanziare la pellicola) e
cosi tutto finì nel nulla.
Nel frattempo ero tornato a Roma e, dopo
aver collaborato con Dario alla stesura di
Le Cinque Giornate e a un paio di progetti non andati e in
porto, quali Frankenstein e Fango, lavorai pure con diversi altri produttori
revisionando sceneggiature e soggetti o partecipando
alla stesura ex novo di copioni. E, siccome
ero considerato un po' come una sorta di
"braccio destro" di Dario Argento,
inevitabilmente il tipo di film che mi proponevano
era sempre lo stesso: il "giallo all'italiana".
Un giorno fui chiamato da un produttore-distributore
che stava già realizzando un film (La Mano Nera di Antonio Racioppi, con Michele Placido
e Lionel Stander, ispirato alle imprese del
poliziotto italo-americano Petrosino) ma
che non era per niente soddisfatto della
sceneggiatura. Insomma, le riprese erano
già in corso, ma costui (Carlo Infascelli,
un curiosissimo personaggio alla cui figura
e alla cui vita è dedicato un divertente
film di qualche anno fa, Zuppa di pesce) non era soddisfatto di quanto il regista
stava filmando: così mi assunse con l'incarico
di modificare in corsa il copione, proprio
mentre lo stavano girando. In altre parole,
dovevo studiare il piano di lavorazione e
vedere quali scene erano ancora da fare,
in modo da cambiare quelle e non ovviamente
le altre già realizzate. Inoltre dovevo modificare
i dialoghi e le azioni di certi personaggi,
perché gli attori che li interpretavano non
erano soddisfatti di quello che la loro parte
prevedeva... e tutto ciò andava ovviamente
fatto con fretta estrema, e senza alterare
per nulla i delicati meccanismi del piano
di lavorazione e gli equilibri tra il materiale
già girato e quello ancora da fare e da modificare.
Ovviamente, la mia collaborazione alla Mano nera fu un'esperienza un po' folle, da cinema
d'altri tempi (e Carlo Infascelli era, in
effetti, un personaggio straordinario davvero
uscito dal cinema d'altri tempi!), ma fu
anche divertente e ben pagata. Ma, soprattutto,
da quell'avventura uscii con una grande stima
sviluppatasi nei miei confronti da parte
di quel produttore, e fu per questo che,
poco dopo Infascelli mi richiamò per occuparmi
del nuovo film che voleva realizzare. Si
trattava di una co-produzione di genere giallo
con la Germania, imperniata sulla figura
di un gangster che ritorna forzatamente ad
Amburgo dopo un lungo soggiorno in America.
lo inventai il titolo dei film (Il re della mala) e dissi la sceneggiatura tedesca mi pareva
troppo lenta e fiacca: Infascelli allora
mi rivelò che come attore principale del
film avrebbe voluto l'americano Henry Silva,
all'epoca abbastanza quotato per le produzioni
di serie B, ma l'attore aveva rifiutato la
proposta perché neppure a lui il copione
era piaciuto. Dopo di che mi incaricò di
incontrarmi con Silva e, dato che parlavo
bene l'inglese, di concordare direttamente
con lui le modifiche da apportare alla sceneggiatura
per convincerlo a interpretare la pellicola.
E se ci fossi riuscito, Infascelli ovviamente
avrebbe fatto riscrivere a me il copione.
Fu così che, all'hotel Parco dei Principi
a Roma, mi incontrai con Henry Silva e, dopo
un paio d'ore di colloquio, riuscii a fargli
cambiare idea. Silva apprezzò i cambiamenti
che volevo apportare alla sceneggiatura,
gradì tutte le modifiche al suo personaggio
e alla fine si dichiarò disposto a interpretare
il film.
Il re della Mala venne girato in Germania, e al fianco di
Henry Silva recitarono un paio di attori
italiani che scelsi io stesso: Infascelli
infatti ormai si fidava molto delle mie capacità
e per questo capii che forse era giunto il
momento giusto per realizzare il mio più
grande sogno, quello di esordire finalmente
alla regia di un lungometraggio.
Mi ricordavo infatti di Tortorella, il produttore
di Milano disposto a finanziare una pellicola
con me come regista ma che non era riuscito
a trovare un distributore, e siccome sapevo
che Infascelli - oltre che produttore - era
anche distributore, misi in contatto i due
personaggi proponendomi come regista del
nuovo film da realizzare... ed entrambi,
senza esitazioni, trovarono la mia proposta
valida e degna di attenzione.
Siccome però servivano un soggetto e una
sceneggiatura, dopo che Infascelli, Tortorella
e io fummo tutti d'accordo sul fatto che
si voleva realizzare un "giallo all'italiana"
nello stile di Dario Argento, ci mettemmo
alla caccia di una storia. Tortorella propose
subito un romanzo minore. di Giorgio Scerbanenco
appena ristampato da (Garzanti, Al mare con la ragazza: lui aveva già realizzato un film tratto
da un libro dello stesso autore e sapeva
che dalla vedova dello scrittore poteva acquistare
i diritti con una cifra abbastanza modica.
Mi venne perciò affidato l'incarico di trasformare
il libro in una sceneggiatura. Al mio fianco,
come collaboratore, chiamai Daniele Del Giudice,
l'altro redattore di Ciao 2001 col quale ero rimasto sempre in amichevole
contatto anche se da tempo avevo lasciato
il giornale.
Il libro di Scerbanenco raccontava quello
che capitava a due giovani balordi, un ragazzo
e una ragazza, che per caso rubano una macchina
senza sapere che nel portabagagli c'è il
corpo di una donna uccisa. I due se ne vanno
per una gita al mare, nel corso della quale
accadono vari incidenti... il libro era tutto
qui. Purtroppo si trattava di uno dei romanzi
meno interessanti di Scerbanenco, uno degli
scrittori più grandi che l'Italia abbia avuto
negli ultimi cinquant'anni. Per questo io
e Daniele decidemmo di utilizzare per la
nostra sceneggiatura soltanto l'idea di partenza
(due balordi rubano un'auto con un cadavere
dentro), ma di inventarci poi tutto il resto
della trama in maniera da renderla molto
più interessante. Mi ispirai a un film di
Alfred Hitchcock che proprio di recente -
vedi il caso! - Carlo Infascelli aveva rieditato
con la sua distribuzione, Delitto perfetto, con Grace Kelly e Ray Milland: da quella
trama prendemmo l'idea del marito spiantato
che vuole uccidere la moglie ricca e affida
l'incarico a un killer conosciuto per caso,
e soprattutto, la figura del commissario
simpatico che forse ha già capito tutto fin
dall'inizio, e la trappola conclusiva tesa
al colpevole. In più, per andare sul sicuro
e consentire alla produzione di venire realizzata
con una contenutissima spesa, ambientai buona
parte della vicenda in una villetta abbandonata
sulla riva del mare, dove i due ragazzi hanno
vari (e sempre più violenti) incontri con
l'assassino di professione, uno schema ripreso
di peso dal film televisivo che avevo appena
realizzato con successo per Dario Argento
(Il vicino di casa, dalla serie di Rai-Uno La Porta sul Buio).
La sceneggiatura mia e di Del Giudice piacque
ai produttori e il milanese Tortorella pensò
subito che, siccome del romanzo di Scerbanenco
avevo usato giusto l'idea dell'auto rubata
con dentro il cadavere e nulla più, tanto
valeva - per risparmiare - evitare di acquistarne
i diritti. Fu così che il nome di quel celebre
- e da me molto amato - scrittore scomparve
dai nostri titoli di testa. Il film poi fu
chiamato Il Ragno, un titolo molto bello che alludeva all'idea
del marito che tesse la tela dell'intrigo
per uccidere la moglie facendola franca.
In verità, me lo aveva suggerito un paio
d'anni prima Riccardo Freda: lo voleva usare
per un suo progetto, ma siccome quel suo
film non era andato in porto, glielo chiesi
in prestito e lui, molto amabilmente, me
lo concesse. Così, lo utilizzai per la mia
prima pellicola da regista.
Poi, nel tardo autunno del 1973, il progetto
entrò in fase realizzativa, dopo molti mesi
di ritardo dovuti alle difficoltà incontrate
per formare il cast. La mia idea iniziale
era stata infatti di usare come coppia di
ragazzi Ornella Muti e il suo compagno Alessio
Orano, mentre la giovane autostoppista svedese
doveva essere interpretata dalla formosa
Gloria Guida, all'epoca non ancora famosa,
con Giorgio Albertazzi e il grandissimo Gino
Cervi (li incontrai tutti e due per discutere
la loro parte, e conservo bellissime memorie
di quelle mie ore trascorse con attori tanto
bravi e famosi) in lizza per impersonare
il commissario. Poi però Carlo Infascelli
pensò bene di cercar di realizzare una co-produzione
con la Francia per risparmiare sui costi,
e tutto si complicò: quel tale personaggio
non poteva più essere interpretato da un
italiano perché al suo posto ci voleva un
francese, quell'altro non andava più bene
per lo stesso motivo, eccetera eccetera.
Nulla quadrava più, anche perché nel contempo
il co-produttore francese non si trovava.
Così svanì la possibilità di avere Ornella
Muti, che aveva già accettato e che sarebbe
stata la protagonista femminile per un compenso
molto basso, e si persero per strada i vari
Albertazzi e/o Gino Cervi. Venne invece il
francese Antonio Saint John, un'ottima scelta
perché aveva davvero una faccia straordinaria,
da assassino: bastava guardarlo e si capiva
che era un killer. L'avevo già notato nel
film di Sergio Leone Giù la testa, dove interpretava il cattivissimo capo
della milizia messicana, e avevo combattuto
finché non ero riuscito ad averlo: una scelta
che ho sempre considerato felicissima e che
tutti hanno lodato. Antoine Saint John, tra
l'altro, era una persona straordinariamente
timida e mite, l'esatto opposto di quello
che la sua faccia faceva pensare, e con lui
ebbi un rapporto lietissimo.
Molto buono fu pure il mio rapporto con George
Hilton, allora molto celebre per i personaggi
dei film western, ma che riuscimmo a ottenere
a un costo molto contenuto perché nessuno
lo voleva in film ambientati ai giorni nostri.
Per la parte della protagonista femminile,
la ragazza che viene violentata dal killer,
scelsi alla fine un'attrice spagnola, perché
quando il tentativo di creare una co-produzione
con la Francia fallì, Infascelli decise di
metterne in piedi una con la Spagna. A quel
punto diventò importantissima Ornella Muti,
che in Spagna allora era molto conosciuta,
e il produttore - dopo averla rifiutata -
cercò di riaverla. Ma intanto era passato
più di un mese da quando Ornella s'era dichiarata
disposta a interpretare a prezzo modico la
pellicola e, nel frattempo, le erano giunte
due grosse proposte da importanti produttori
italiani e lei le aveva accettato... e cosi
non era più possibile averla. Mi dovetti
accontentare allora di un'attrice spagnola,
Cristina Galbo, giovane e brava, che s'era
distinta in un film di zombi della Fida e,
soprattutto, che avevo ammirato nella bella
produzione Gli orrori del liceo femminile. Cristina abitava in quel periodo a Roma,
vicino a casa mia, ed era sposata con un
bambino: suo marito era un celebre interprete
di western all'italiana, l'attore Peter Lee
Lawrence, che sarebbe morto tragicamente
nel giro di qualche anno per un tumore al
cervello, lasciandola sola.
Come ho detto, tutte queste complicazioni
create da Infascelli alla ricerca di una
co-produzione straniera (che non si trovò,
alla fine, perché quella conclusa con la
Spagna si sciolse a riprese appena concluse)
fecero ritardare di parecchio la lavorazione
della pellicola, e così la storia che avevo
scritta per essere girata durante una calda
estate... be', quella stessa storia con gli
attori tutti vestiti in maniche corte e con
abiti leggerissimi, fummo obbligati a girarla
nel freddo autunno di Milano in ambienti
gelidi e per nulla riscaldati: la casa abbandonata
dove si svolge gran parte della vicenda era
infatti un villino vuoto nel quartiere attorno
a viale Zara, mentre le poche scene esterne
realizzate realmente al mare si svolsero
a novembre a Rapallo e lungo la costiera
ligure. Tutto il resto però, lo ripeto, fu
girato a Milano (la darsena dove l'auto viene
buttata in acqua, all'inizio, è quella del
Naviglio; il commissariato è l'ufficio del
produttore Tortorella; la casa del marito,
tutta di un delirante colore giallo, è un
appartamento realmente esistente di alcuni
ricchi amici del solito Tortorella...), e
il suo costo fu estremamente contenuto: non
vennero spesi più di 40 milioni, dei quali
oltre la metà non in contanti ma con cambiali
o varie forme di pagamento dilazionato, per
un totale di quattro settimane di lavorazione.
Naturalmente, nel film c'è anche un mio personale
"ringraziamento" a Dario Argento
per tutto l'aiuto disinteressato che mi aveva
fornito per convincere i miei produttori:
quando si vede l'accendino dell'assassino
(un oggetto che, scoperto alla fine tra le
mani del marito della donna assassinata,
ne prova il legame col killer: un altro elemento
preso a prestito dal film di Hitchcock Delitto perfetto, dove invece dell'accendino c'è una chiave...
ma il meccanismo è lo stesso), su di esso
si distinguono chiaramente le iniziali "D.A.".
Ovviamente, stanno per "Dario Argento"!
Nei primi mesi del 1974 avvennero il montaggio
e l'edizione sonora del film, e quindi la
pellicola, finalmente completata, fu pronta
per venire presentata alla commissione di
censura: fu allora che avvenne il cambiamento
di titolo. Quando Il ragno venne presentato
in censura, fu bocciato infatti senza alcuna
pietà: in altre parole, alla mia pellicola
veniva proibita del tutto la proiezione in
Italia, in quanto ritenuta dai membri della
commissione statale troppo immorale e violenta.
Quella decisione mi fece piombare nello sconforto,
perché davvero non me l'aspettavo. Comunque
non mi persi d'animo, mentre, per poter ripresentare
la pellicola in censura, il distributore
ne cambiò il titolo: fu così che il film
si chiamò L'assassino è costretto a uccidere ancora... titolo che gli è rimasto ma che, ancora
oggi, trovo orribile. Inoltre, per poter
almeno ottenere il "divieto ai minori
di 18 anni" e non la bocciatura assoluta,
il film venne ripresentato con vari tagli:
per esempio, sparì tutta la sequenza alternata
in cui il killer violenta la ragazza vergine,
mentre l'autostoppista di facili costumi
si concede al suo sciocco fidanzato. E scomparvero
anche varie coltellate e un po' di sangue
qua e là.
L'unica copia integrate di quel film che
è rimasta fu dunque quella che riuscii a
portare via io, quella che aveva ancora il
primo titolo, Il ragno... e per fortuna è
proprio quella copia che è stata usata per
realizzare la prima edizione in videocassetta
del film, in quanto fui io stesso a concederla
in prestito alla CGR, all'inizio degli anni
Ottanta. Successivamente, quando il film
fu rieditato in videocassetta dalla Ricordi,
uscì invece in un'edizione ignobile e vergognosa
perché aveva tutta l'immagine tagliata ai
lati (e, siccome avevo girato Il ragno con l'enorme schermo del Techniscope, questo
significava che almeno un 40% di ogni inquadratura
mancava!). In più, erano del tutto assenti
la lunga sequenza dello stupro alternato
all'atto d'amore, oltre che le molte scene
di sangue e di coltellate.
E se qualcuno nota che, curiosamente, il
film circola ormai da più di venticinque
anni senza che il nome di Carlo Infascelli
sia mai menzionato nei titoli di testa e
di coda, anche se fu l'uomo chiave per la
sua realizzazione, devo spiegare che ciò
avviene per un fatto preciso: concluso il
primo montaggio della pellicola, infatti,
Infascelli vide il film e lo trovò molto
brutto. Insomma, si dichiarò del tutto deluso
e insoddisfatto e propose di rigirare tutta
una serie di sequenze per cambiarlo. Il produttore
milanese Tortorella invece ritenne che la
pellicola andava benissimo così com'era e
che non c'era proprio bisogno di rigirare
alcunché, e così iniziò una lunga discussione-lite
con Infascelli, finché Tortorella non ricomprò
dallo stesso la sua quota del film, estromettendolo
in pratica dall'operazione. Poi Tortorella
cercò un altro distributore e lo trovò dopo
qualche fatica. E fu allora che iniziarono
pure le traversie con la commissione di censura
delle quali ho appena parlato.
Tutti questi imprevisti (la lite tra Infascelli
e Tortorella, la bocciatura da parte della
censura, la ricerca di una nuova distribuzione)
provocarono un grande ritardo nell'uscita
dell'Assassino è costretto a uccidere ancora (il nuovo titolo assunto da Il ragno) e così la pellicola timidamente capolino
nel cinema solo alla metà del 1975. Questo
spiega bene perché non realizzai immediatamente
un altro film di quel tipo: oggi, infatti, Il Ragno (o L'assassino è costretto a uccidere ancora) è considerato un "cult" e viene
valutato dai critici, italiani e stranieri,
come uno dei migliori "gialli all'italiana"
di quel periodo, e pertanto mi viene spesso
chiesto come mai non ne abbia realizzato
subito un altro. Ma il motivo dovrebbe essere
ormai evidente a chi ha letto questi miei
ricordi: iniziai quel film praticamente nel
1973 e lo vidi uscire soltanto verso la metà
del 1975. La sua genesi fu dunque molto,
troppo lenta e faticosa, e - sin dalla seconda
metà del 1974 - me ne ero già stancato e
mi ero messo a cercare di portare in porto
altre imprese possibilmente più semplici
e remunerative: per esempio, nel settembre
del 1974 presi a collaborare con la Libra
Editrice per preparare quella "Rassegna
del Film di Fantascienza" che tanto
successo avrebbe poi avuto a Roma al cinema
Planetario nel gennaio del 1975, e proprio
il successo straordinario ottenuto da quella
manifestazione mi avrebbe spinto verso i
sentieri della distribuzione dei classici
della fantascienza cinematografica, un compito
che mi tenne a lungo impegnato con profitto
e che quindi mi spinse a non considerare
conveniente ripetere l'esperienza fatta con
Il Ragno (tra l'altro, quando il film uscì
nel 1975, ebbe scarso successo e fu quasi
ignorato dalla critica dell'epoca, che lo
considerò un "sottoprodotto del filone
argentiano", mentre, come gli appassionati
si sono accorti in seguito, era ben diversa
cosa).
È per tutto questo che quella de' Il Ragno è rimasta per me un'avventura che, pur se
oggi mi sta dando le soddisfazioni che non
mi concesse allora, per tutti i motivi in
buona parte precedentemente spiegati è rimasta
unica nel corso della mia carriera. E non
so se adesso posso commentare questo fatto
dicendo: "Per fortuna!"
Il brano è pubblicato anche in appendice
al volume "PROFONDE TENEBRE" di
Antonio Bruschini e Antonio Tentori (edito
da "Profondo Rosso").
Luigi Cozzi e "i pinguini nel sottoscala" |
Luigi Cozzi (1947) si occupa professionalmente di fantascienza
sin da giovanissimo. Ha esordito infatti
nel 1963 e da allora ha collaborato (e collabora
ancora) con testate e case editrici quali
"Urania", "Galassia",
"Nova Sf", "Robot", Libra,
Fanucci, Newton Compton, Perseo e altri,
pubblicando numerosi saggi, articoli, racconti,
romanzi, traduzioni e curando la scelta di
testi, oltre alla redazione di varie antologie.
Ha scritto anche alcuni romanzi gialli. Specializzatosi
negli anni Settanta nella critica cinematografica,
ha creato e curato le fortunate rassegne
nazionali del Film di Fantascienza e ha scritto
libri di saggistica specializzata quali "Il
Cinema di Fantascienza 1" e "Il
Cinema di Fantascienza 2" (Fanucci),
"Il Cinema dei Mostri" (Fanucci),
"Dario Argento" (Fanucci), "George
Pal" (Nebula ed.), "Il Mostro sexy"
(Ed. Inteuropa) e il recente "Hammer.
La fabbrica dei Mostri" (ed. Profondo
Rosso). La sua principale notorietà, comunque,
Cozzi l'ha conquistata con il lavoro nel
cinema: oltre alla trentennale collaborazione
con Dario Argento (iniziata con "Quattro
mosche di velluto grigio" e continuata
sino al recente "La sindrome di Stendhal"),
Luigi Cozzi ha scritto e diretto diversi
film, tra i quali le pellicole di fantascienza
"Starcrash" (1978), "Alien
Contamination" (1981), "Hercules"
(1983), "Paganini Horror" (1989)
e "The Black Cat" (1990). Il suo
successo nel mondo del cinema ha varcato
anche i confini nazionali e Cozzi risulta
il regista di fantascienza italiano che con
più di un film ha conquistato gli spettatori
statunitensi, posizionandosi più volte tra
i maggiori incassi dell'anno negli Stati
Uniti ("Variety"). Dal 1989 Luigi
Cozzi ha fondato a Roma, insieme all'amico
Dario Argento, "Profondo Rosso",
la piccola bottega del fantastico, della
fantascienza e dell'orrore, della quale ormai
si occupa a tempo pieno dirigendo varie riviste
"Horror", "Mystero" e
"Archeologia" e curando la pubblicazione
di vari saggi sul genere horror, giallo e
fantascienza..
Filmografia come regista:
1973 – La Porta sul Buio: il Vicino di Casa
(film TV)
1975 – L’Assassino è costretto ad uccidere
ancora
1980 – Contamination
1988 – Paganini Horror
1989 – Il Gatto Nero
1991 – Dario Argento: Master of Horror (documentario)
1997 – Il Mondo di Dario Argento 3: il Museo
degli Orrori (documentario)
Filmografia come sceneggiatore:
1971 – Quattro mosche di Velluto Grigio
1973 – Il Vicino di Casa (film TV)
1973 – Testimone Oculare (film TV)
1975 – L’Assassino è costretto ad uccidere
ancora
1980 – Contamination
1984 – Shark, rosso nell’Oceano
1988 – Paganini Horror
1989 – Il Gatto Nero
Bibliografia sul Catalogo Sf, Fantasy e Horror,
a cura di Ernesto VEGETTI, Pino COTTOGNI
ed Ermes BERTONI:
http://www.fantascienza.com/catalogo/A0172.htm#1181
"4 MOSCHE DI VELLUTO GRIGIO" di Dario Argento Luigi Cozzi vi ha collaborato |
"L'ASSASSINO E' COSTRETTO AD UCCIDERE ANCORA" film di Luigi Cozzi |
"CONTAMINATION" film di Luigi Cozzi |
|
"HORROR MADE IN ITALY" (Profondo Rosso) di Antonio Tentori e Luigi Cozzi |
"HORROR MADE IN ITALY 2" (Profondo Rosso) di Antonio Tentori e Luigi Cozzi |
"HORROR MADE IN ITALY 3" (Profondo Rosso) di Antonio Tentori e Luigi Cozzi |
|
"GODZILLA" (Profondo Rosso) di Luigi Cozzi |
"MARIO BAVA I MILLE VOLTI DELLA PAURA" (Profondo Rosso) di Luigi Cozzi |
PROFONDO THRILLING contiene le storie dei primi film di Dario Argento romanzate da Luigi Cozzi, Nicola Lombardi e Nanni Balestrini |
|
Una copia della rivista HORROR della quale Luigi Cozzi è direttore |
Una copia della rivista HORROR della quale Luigi Cozzi è direttore |
Una copia della rivista HORROR della quale Luigi Cozzi è direttore |
|
una copia della rivista MySTERO della quale Luigi Cozzi è direttore |
una copia della rivista MySTERO della quale Luigi Cozzi è direttore |
"PAGANINI HORROR" film di Luigi Cozzi |