"GIALLO ARGENTO"
(Profondo Rosso)
di Luigi Cozzi

"HAMMER
LA FABBRICA
DEI MOSTRI"
(Profondo Rosso)
di Luigi Cozzi
"THE KILLER MUST STRIKE AGAIN"
di Luigi Cozzi
(versione americana di
"L'assassino è costretto ad ucccidere ancora)

http://www.profondorossostore.com oppure http://www.profondorossoedizioni.com


"Profondo Rosso"
Via dei Gracchi, 260
00192 - ROMA


ANNI SETTANTA
LA STAGIONE D'ORO DEL THRILLER ALL'ITALIANA
(un ricordo personale di Luigi Cozzi)


Approdai a Roma proveniente da Milano, dove avevo sempre abitato con la mia famiglia, alla fine degli anni Sessanta: svolgevo infatti il servizio di leva e, dietro alle mie insistenze, ero riuscito a farmi assegnare a una postazione militare della Capitale. Era sempre stato nei miei desideri, infatti, di trasferirmi nella tentacolare Città Eterna, perché era anche la Città del Cinema, la "Hollywood-sul-Tevere", e quello era il mestiere che volevo fare più di ogni altro: il cinema.

Siccome però amavo molto anche la musica rock, durante il servizio militare a Roma presi a frequentare la redazione di un settimanale musicale per giovani che allora andava per la maggiore, Ciao 2001. Portavo infatti proposte di articoli e di interviste con le maggiori "star" inglesi o americane, e dopo alcuni tentativi i miei sforzi ebbero fortuna: diventai un collaboratore regolare di Ciao 2001, pubblicando sulle sue pagine i miei "servizi". Per la verità, allora facevo ancora il militare e di tutte quelle "star" di cui scrivevo (Mick Jagger, John Lennon, Donovan, i Doors, e così via), non ne avevo mai vista una da vicino: però non è che i miei articoli fossero inventati. No. Semplicemente, quelli erano tempi diversi, Internet e il diluvio mediatico di oggi non esistevano, e così nulla o quasi qui da noi si sapeva del mondo "pop-rock" angloamericano. Quindi, perché risultassi il più informato di tutti, bastava che andassi a via Veneto, dove c'erano due edicole che ricevevano puntualmente le più recenti riviste rock-pop americane e inglesi: le compravo, mettendo insieme i pochi soldi che avevo allora, e poi traducevo e "adattavo" le interviste (vere) che su quelle pagine c'erano con i vari John Lennon, Jimi Hendrix, Hollies, Animals, Procol Harum, eccetera. Quindi inventavo titoli accattivanti (immancabilmente con frasi tipo: "Basta! Non mi drogo più!", oppure "Ho deciso: sciolgo il complesso!" e proponevo i "pezzi" così assemblati alla direzione del settimanale, dove allora c'era un personaggio simpatico e intelligente che ricorderò sempre con affetto, il giornalista Sergio Marchetti. E assai spesso, quei miei articoli così messi insieme venivano accettati, pubblicati con vistosi richiami in copertina e - incredibile! - venivano pure regolarmente ricompensati (ed erano l'unica entrata di cui godessi allora, a parte la misera "paghetta" da soldato).

Un giorno accadde un fatto singolare, che costituì una svolta nella mia vita. Stavo per concludere il servizio militare e quindi nel giro di un paio di mesi avrei dovuto lasciare Roma per tornare a Milano. Ma una sera, curiosando tra le edicole di via Veneto, trovai una rivista americana che pubblicava un paio di interviste con John Lennon e Paul McCartney, allora famosissimi in quanto leader del già mitico complesso dei Beatles. Dalle dichiarazioni di quei due straordinari artisti, abbastanza normali in generale, si poteva però dedurre che tra di loro si stessero manifestando alcune nette divergenze di gusto e di opinione, almeno in fatto musicale. Così pensai che sarebbe stato interessante scrivere un articolo per Ciao 2001 evidenziando tali (piccoli) contrasti e, ovviamente, esagerandoli: in tal modo, avrei potuto intitolare il pezzo in un modo tipo "Anche i Beatles si sciolgono!", oppure "Lennon e McCartney non vanno più d'accordo!", e con una premessa di quel tipo ero certo che il mio pezzo sarebbe stato immediatamente accettato. Era una vendita sicura per me, in altre parole, e sa il Cielo quanto avessi bisogno di soldi, allora!

Infatti, il mio articolo fu acquistato e immediatamente pubblicato proprio col titolo "Clamoroso: I Beatles si sciolgono!"
Quel numero di Ciao 2001 andò nelle edicole un lunedì mattina, com'era usuale. Ma il mercoledì di quella stessa settimana avvenne un fatto incredibile: le agenzie di tutto il mondo presero a battere sulle telescriventi una notizia sensazionale, che cambiò di colpo lo svolgimento della mia vita.

I Beatles si scioglievano PER DAVVERO!

Siccome Ciao 2001 era l'unico settimanale in edicola con quella notizia stampata in grosso sulla copertina, andò letteralmente a ruba, mentre la redazione fu tempestata di chiamate da giornali e agenzie che volevano ulteriori dettagli, dato che secondo loro evidentemente quella redazione era molto ben informata su tutto quanto accadeva a Londra nelle dimore dei Beatles.

Tempo un paio di giorni, e fui convocato dal direttore amministrativo del settimanale, Saverio Rotondi, un altro personaggio (purtroppo scomparso alcuni anni fa) al quale sono grato e di cui conserverò sempre un ricordo molto affezionato. Si complimentò con me per lo "scoop" clamoroso (e di certo involontario: ma questo mi guardai bene dal dirglielo ... ) e aggiunse che, siccome Ciao 2001 doveva ingrandirsi e serviva un nuovo redattore interno, per lui ero la persona adatta, se accettavo. In altre parole, mi offriva un lavoro fisso, con tanto di stipendio, contributi e collaborazioni (leggi, articoli) retribuite a parte.

Quell'offerta era come un sogno, per me: risolveva d'incanto tutti i miei problemi, mi consentiva di evitare il ritorno forzato a Milano, mi permetteva di restare a Roma con la possibilità di mantenermi da solo.

(Be', certo lo stipendio non era granché: quarantamila lire al mese. Però gli articoli mi venivano pagati a parte - ventimila lire l'uno - e se quindi, stando all'interno del giornale, riuscivo a pubblicarne un paio a numero, moltiplicato per quattro numeri al mese, più il "fisso", cento o centoventimila lire mensili potevo riuscire a metterle insieme. Risparmiando all'osso su tutto, potevo in qualche modo riuscire a vivere per conto mio a Roma...)

Così accettai e diventai uno dei due redattori fissi di Ciao 2001 (l'altro era Daniele Del Giudice, col quale divenni presto grande amico e che oggi è uno dei più stimati scrittori italiani). Tenni l'incarico per quasi due anni, finché non lo lasciai (molto a malincuore, lo devo dire: era una lavoro magnifico!) per andare a lavorare con Dario Argento.

Ma ecco come accadde questo secondo evento della mia carriera "romana", un passo che mi fece accedere al cuore della stagione d'oro del thrilling all'italiana.

Avevo preso in affitto una mansarda a Montesacro, in cima a un enorme palazzone, e siccome per abitarvi pagavo le 40mila lire esatte che ricevevo ogni mese come stipendio fisso da Ciao 2001, avevo assolutamente bisogno di guadagnare altro denaro vendendo articoli o collaborazioni anche ad altre testate, altrimenti non avrei avuto letteralmente di che mangiare, mentre al tempo stesso, essendo da sempre un mega-appassionato di cinema, speravo anche di riuscire a "entrare" prima o poi in qualche modo nell'ambiente dello spettacolo.

Ma non conoscevo assolutamente nessuno nel mondo del cinema e non sapevo come fare e dove o a chi propormi come soggettista e sceneggiatore. Però ebbi coraggio: presi l'elenco del telefono e cercai i nomi di alcuni registi e sceneggiatori che stimavo. Alcuni li trovai, altri no. Per quelli che mi mancavano, mi rivolsi alle produzioni dei loro ultimi film: dissi che ero un giornalista (la verità) e che li volevo intervistare (un'altra verità: o, almeno, una parte di essa). Poi li chiamai e tutti, da Freda a Margheriti, da Gastaldi a Lenzi, risposero immediatamente che si sarebbero incontrati con piacere con me, per farsi intervistare.

Fu così che li conobbi tutti e fu così che, parlando e parlando con loro, più di uno di essi mi rivolse, alla fine di quei nostri colloqui, saputo che ero un appassionato del genere e scrivevo anche racconti e soggetti, il fatidico (e tanto desiderato) invito: "Perché non mi porta qualcosa di suo da leggere? Lo prenderei in considerazione con interesse...

In questo modo entrai anch'io a far parte dell'ambiente del cinema o, almeno, di quello di tutti coloro che cercavano di scriverlo. Come vedete, non fu difficile, e a tutti coloro che oggi mi rivolgono la classica domanda ("lo scrivo. Ma come faccio a conoscere qualcuno al quale proporre le mie storie?"), consiglio di seguire questo mio "metodo" - se cosi lo si può definire - che ha il vantaggio di essere diretto, semplice e abbastanza funzionale (nel mio caso, almeno, ha funzionato).

Tra l'altro, quel sistema aveva anche il merito - al di là del fatto che mi consentiva di proporre i miei soggetti a professionisti allora noti - di fruttarmi denaro: infatti riuscivo anche a vendere le interviste che facevo, le pubblicavo su Ciao 2001 o su altre testate di cinema (tra le quali l'ottima Horror diretta da Alfredo Castelli), e quindi - in ogni caso - quei miei incontri non erano inutili. E pure i registi e gli sceneggiatori che vedevo erano, soddisfatti, perché i miei servizi su di loro venivano stampati.

Tra l'altro, è bene dirlo, si era allora all'incirca nel 1970: i registi famosi erano in Italia gente come Mario Bolognini, Federico Fellini, Luchino Visconti, Mario Monicelli... Quelli che invece io andavo a intervistare (Riccardo Freda, Antonio Margheriti, Mario Bava, Mario Caiano, Umberto Lenzi ... ) erano considerati di serie B o C, i giornali si rifiutavano di dedicare più di poche righe ai loro film (reputati "meri prodotti i consumo o commerciali") e quindi nessuno mai chiedeva a personaggi colme Freda o Bava (tanto per fare due nomi) di poterli intervistare: perciò venivo sempre accolto da questi artisti misconosciuti con stupore ma anche con enorme piacere e soddisfazione, e si concedevano a me per ore e ore intere, in quanto ero il primo e l'unico (almeno tra i giornalisti italiani) a dedicare loro attenzione. Ed è un peccato che di quelle mie lunghe interviste (che - nei casi di Freda, Margheriti e Mario Bava - si trasformarono subito in amicizia, con regolari incontri quasi settimanali per un paio d'anni interi!) sia rimasto pochissimo di scritto: gli articoli che ne ricavai erano infatti completi e lunghissimi, i servizi su Freda, Bava e Margheriti superavano le sessanta pagine tra racconti, affermazioni e spiegazioni, e i periodici ai quali li inviavo non li potevano pubblicare integralmente. Per cui ne apparvero solo dei supercondensati di tre o quattro pagine al massimo, e siccome tra il 1969 e il 1971 le fotocopie erano ben poco diffuse e costavano moltissimo (un esborso proibitivo per le mie misere finanze di allora), tutto o quasi lo straordinario materiale biografico e filmografico che raccolsi all'epoca è andato perduto.

Poi, va pure detto, avevo anche un buon "fiuto" Perché la svolta fondamentale successiva della mia avventura romana avvenne quando andai a vedere un film, L'uccello dalle piume di cristallo dell'allora esordiente Dario Argento, che stava arrancando in sordina nella parte bassa della classifica degli incassi italiani: non era infatti stato accolto bene dalla critica e la gente non lo andava a vedere.

Però, quando lo vidi al cinema Empire prima che lo togliessero, ne rimasi folgorato: era un film bellissimo e, soprattutto, secondo me rappresentava davvero una svolta nel cinema horror italiano e anche mondiale. Il suo regista - pur se sconosciuto e debuttante - per me era un fuoriclasse!

Per questo telefonai subito all'ufficio stampa della società che lo aveva distribuito (la Titanus) e chiesi di poter intervistare il regista. Il capoufficio stampa fu molto sorpreso dalla mia richiesta, perché quella pellicola per loro era una produzione di serie B e di scarsa importanza, ma comunque mi accontentò e mi fornì il numero di telefono della società che l'aveva prodotta, la Seda, spiegandomi che il regista era il figlio del produttore.

Chiamai la Seda (sigla composta dalle iniziali di "Salvatore e Dario Argento") e la segretaria cortese mi fece parlare col produttore in persona, Salvatore Argento, il quale si manifestò molto sorpreso ma anche estremamente compiaciuto per la mia richiesta d'intervistare il figlio: ero infatti il primo giornalista in assoluto che chiedesse un incontro con Dario Argento!

Salvatore - una persona straordinariamente cordiale e simpatica, che ricorderò sempre con grande affetto, in quanto col tempo e la conoscenza si mise a trattarmi quasi fossi un altro suo figlio - mi combinò un incontro con Dario e fu così che nacque la mia lunga e ancora attuale collaborazione con lui. Parlando e parlando, ricavai un buon servizio sull'allora giovane autore e l'articolo uscì, in forme leggermente diverse, tanto su Ciao 2001 che su Horror di Castelli, mentre le altre testate di cinema alle quali collaboravo lo rifiutarono perché L'uccello dalle piume di cristallo, nella sua prima distribuzione nazionale, aveva incassato pochissimo, mentre tra me e Argento nasceva quella stima e quell'amicizia che è durata sino a oggi.

Poi Dario mi propose, dopo qualche incontro, di provare a scrivere qualcosa per lui e per il suo tipo di cinema, e devo dire di avere avuto ottimo intuito perché di fronte a proposte analoghe ricevute da Freda, Margheriti e Bava, privilegiai quella di Argento e mi dedicai soprattutto alla collaborazione con lui, che allora era il meno noto di tutti.

Alcuni mesi dopo, con l'uscita del Gatto a nove code, Dario divenne il nuovo "fenomeno" del cinema italiano: il suo secondo film incassò tantissimo e nacque così il "boom" del giallo all'italiana, dello "spaghetti-thriller" o del "thrilling" puro e semplice, consacrato qualche mese più tardi dalla riedizione dell'Uccello dalle piume di cristallo (e questa volta la pellicola ebbe successo e incassò tantissimo) e dalla messa in cantiere da parte di altre produzioni dei primi, imitativi film "alla Dario Argento".

Ma ero già sulla cresta dell'onda perché, per il semplice fatto che da qualche tempo stavo scrivendo con Argento il suo terzo "giallo" (quello che sarebbe diventato poi Quattro mosche di velluto grigio), ero richiesto già da altre produzioni e da altri registi come consulente, e co-sceneggiatore in quanto collaboratore dell'inventore di quel genere.

Fu così che, senza avere ancora firmato nessun copione ma solo per il fatto di essere vicino Dario Argento, mi ritrovai a essere uno degli scrittori di cinema più richiesti... e tutto questo avveniva nemmeno un paio d'anni dopo che ero giunto in quella città come semplice soldato in servizio di leva!



Il lavoro di scrittura con Dario Argento fu abbastanza lungo ma anche piuttosto interessante e a me insegnò quasi tutto quello che c'era da sapere nel campo della sceneggiatura. Argento era davvero un maestro straordinario, e a poco a poco capii pure che tutto quello che lui sapeva, l'aveva appreso a sua volta da un altro artista straordinario (del quale, in quel periodo, imitava spesso i gesti e i vezzi), Sergio Leone, l'autore di film indimenticabili quali C'era una volta il West e Per un pugno di dollari.

Il titolo - Quattro mosche di velluto grigio - era di Dario, l'aveva inventato lui, e lo custodiva come un geloso segreto. A me ovviamente lo riferì, ma mi disse anche che non sapeva che cosa potesse significare: all'inizio, infatti, quando iniziammo a scrivere insieme il "trattamentone" di quel film, Argento non aveva nessuna idea precisa circa la storia che voleva raccontare. Sapeva soltanto che ci dovevano essere almeno cinque o sei delitti, tutti assai complessi e molto brutali. Noi dovevamo escogitarli e poi bisogna trovare il modo di "cucirli" insieme in una trama logica.

Per questo la prima fase del nostro lavoro fu la ricerca di quelle sequenze di morte. Dario mi indicò una serie di libri gialli (in particolare, Troppo tardi di Raymond Chandler e L'alibi nero di Cornell Woolrich) e mi disse che contenevano crimini e/o situazioni che gli sarebbe piaciuto inserire nel suo film. Ma era possibile? E se sì, come? Quindi mi lessi con attenzione tutti quei libri e cominciai a pensare se poteva esistere un modo per utilizzare i brani apprezzati da Dario nel nuovo film che dovevamo scrivere assieme. Contemporaneamente, portai io ad Argento un'altra serie di libri e gli dissi che in uno c'era una scena che mi piaceva, che in un altro c'era una bella morte di un personaggio, così via. Lo invitai a leggerli per vedere se piacevano anche a lui e se, quindi, era il caso di prendere in considerazione anche quelle opere come fonte d'ispirazione.

Arrivammo così a mettere insieme una serie di delitti, presi qua e là tra vari libri (in particolare, L'alibi nero di Woolrich), e cominciammo a cercare di cucirli insieme con una sorta di storia logica. Dario amava la musica moderna e quindi pensò bene che il protagonista della pellicola doveva essere un musicista rock. Quindi gli venne l'idea di immaginare che qualcuno lo ricattava perché il musicista si era reso colpevole di un delitto, seppure involontario, e perciò era un perseguitato. Cominciammo a stendere molte pagine procedendo in quella direzione. Un po' scrivevo io, un po' scriveva lui, e poi confrontavamo quello che avevamo steso e sceglievamo i pezzi migliori. Dario poi riscriveva il tutto, amalgamando ogni cosa col suo personalissimo stile. Poi ci si rivedeva, si commentava la storia sino al punto in cui eravamo arrivati e cercavamo di trovarne gli sviluppi ulteriori, nei quali dovevamo incastrare i delitti già selezionati. Non avevamo ancora la minima idea su chi dovesse risultare l'assassino alla fine: procedevamo, in questo proposito, davvero alla cieca, pensando di limitarci a scegliere il personaggio più insospettabile.

C'era però un particolare che non piaceva né a me né a Dario e che ci rendeva faticosa quella fase di scrittura: non era bello avere un protagonista che veniva ricattato in quanto aveva a sua volta commesso un delitto. In altre parole, non era bello avere un personaggio principale che fosse a sua volta un colpevole. Eppure, per far funzionare la storia che avevamo elaborato, quel punto era davvero fondamentale... finché a me non venne un'idea: perché infatti non fare invece che il protagonista semplicemente credesse di aver commesso un crimine, mentre invece si era trattato di una messa in scena in cui lui, ignaro, era cascato? In questo modo il protagonista non era più a sua volta un colpevole ma una doppia vittima...

Dario quasi mi baciò quando gli proposi questo "sconvolgimento" della trama, e così inserimmo subito la modifica nel copione: il personaggio che apparentemente all'inizio era stato ucciso dal protagonista riapparve in una scena a metà del film, ben vivo e vegeto e intento a divorarsi un fumante piatto stracolmo di spaghetti. La sua "morte" era stata infatti tutta una messa in scena organizzata d'accordo col vero assassino per poter poi ricattare il personaggio principale.

Continuammo a scrivere con molto entusiasmo, e mentre lo facevamo andavamo spesso insieme al cinema, cercando di trovare altri spunti o nuove idee nelle pellicole che vedevamo o che ci consigliavamo a vicenda. Quattro mosche di velluto grigio era ormai quasi completo, scritto per tre quarti, ma ancora non avevamo la minima idea di chi potesse essere il ricattatore assassino. La risposta venne a Dario da un suo amico, il giornalista televisivo Mario Foglietti, il quale un giorno gli diede da leggere un suo soggetto a giallo nel quale una moglie stanca del marito lo torturava segretamente fin quasi a ucciderlo. Fu leggendo quel testo che Dario decise di aver trovato la conclusione del suo film. L'assassino era la moglie del protagonista!

Dal soggetto di Foglietti Dario Argento non prese altro: solo quell'idea. Ma bastò perché anche il nome di Mario venisse scritto nei titoli di testa della pellicola, anche se lui non partecipò mai alla sua stesura... ma del resto era giusto così.

Restavano però aperti ancora un paio di punti: che cosa c'entrava il titolo (Quattro mosche di velluto grigio) con la storia che raccontavamo, e poi c'era pure da inventarsi un finale che, secondo Dario, non doveva essere il solito con la polizia che arriva o con l'assassino che muore banalmente. Qui ebbi due idee io: la prima fu quella della strana macchina che è capace di leggere l'ultima immagine rimasta impressa nell'occhio di una vittima. Dissi a Dario che in quel caso poteva trattarsi delle famose, fatidiche quattro mosche, quelle del titolo del film: era quella l'ultima immagine vista da una delle vittime prima di morire. E per capire di che cosa si potesse trattare, dissi poi a Dario che poteva essere l'immagine oscillante (e quindi raddoppiata o moltiplicata) di un medaglione a forma di mosca che l'assassina portava al collo.

Quella duplice idea entusiasmò Dario e così, nel trattamento (cioè, una sorta di racconto completo del film o in forma di racconto, lunga circa una sessantina di pagine) inserimmo anche questi elementi, e in quel modo pure il titolo del film acquistava un senso e funzionava.

Restava aperta soltanto la sequenza conclusiva: Dario aveva pensato a un incidente di macchina come causa della morte dell'assassino, ma voleva qualcosa che rendesse quella sequenza meno ovvia e banale. Fu qui che ebbi un'altra idea: perché non rendere quella scena dal punto di vista di chi muore? Perché non farla come vista dall'assassino? Ovvero, immaginai che una persona vittima di un incidente automobilistico può forse vivere quei suoi ultimi istanti di vita come una sorta di lunghissima agonia; il tempo si spezza e rallenta fino quasi all'inverosimile e ogni cosa risulta dilatata, allungata, quasi soprannaturalizzata...

Suggerii anche che si sarebbe potuto girare quell'incidente usando una cinepresa speciale, di quelle scientifiche in uso nelle università per le ricerche, lavorando magari a 1000 o a 2000 o 3000 fotogrammi al secondo al posto degli usuali 24. L'avevo visto fare in alcuni film di fantascienza e mi sembrava che concludere il film in quel modo, con la morte dell'assassina dilatata all'inverosimile, mentre i vetri del parabrezza si spaccavano e volteggiavano nell'aria come in un balletto soprannaturale, sarebbe stata forse una soluzione innovativa, differente dalle solite... e Dario fu completamente d'accordo con me. Si entusiasmò per quella proposta, la inserì immediatamente nel trattamento e poi la realizzò anche nel film, e da allora quella scena è diventata uno dei momenti più "classici" e citati del suo cinema.



Mentre collaboravo con Dario Argento e lavoravo ancora come redattore a Ciao 2001, scrissi anche diverse revisioni di dialoghi e misi la mano e lo zampino in varie sceneggiature per altre produzioni. Era in corso infatti il "boom" del giallo italiano e a Roma si preparavano a valanga le pellicole di quel tipo. Quando poi Argento mise in lavorazione Quattro mosche di velluto grigio, saputo che il mio sogno era quello di diventare regista, mi invitò a seguirlo sul set e così diventai un suo assistente, il secondo dopo il suo abituale aiuto-regista Roberto Pariante: ma quando, dopo appena un paio di settimane di riprese, Dario ebbe dei contrasti col suo aiuto, Pariante si tirò da parte e così, di colpo, mi ritrovai - alla prima esperienza cinematografica! - a fargli addirittura da primo aiuto, un compito che evidentemente dovetti assolvere bene, perché Dario mi volle accanto a sé con quella funzione anche dopo la conclusione delle riprese e finché tutta l'edizione della pellicola non fu conclusa, molti mesi dopo.

Intanto, avevo conosciuto altri produttori e messo la mano in diversi progetti. Scrivevo infatti per molti e, al tempo stesso, cominciavo anche a guardarmi intorno perché desideravo debuttare prima o poi a mia volta nella regia. Scrissi tra l'altro un paio di copioni completi, in collaborazione col compianto amico Enzo Ungari (allora gestore del Filmstudio e organizzatore con me delle prime "Rassegne della Fantascienza", nonché futuro collaboratore di Bernardo Bertolucci per la stesura del film dai tanti Premi Oscar L'ultimo imperatore), e di un paio di essi, anche se non furono mai trasformati in film per varie ragioni, sono sempre stato abbastanza orgoglioso, tanto che - per non lasciarli finire nell'oblio delle sceneggiature non realizzate - qualche anno fa li ho trasformati in romanzi e, sotto lo pseudonimo solito di "Lewis Coates", li ho pubblicati coi titoli Quando piange un investigatore e L'istinto della caccia sul mensile Giallissimo (questi stessi due romanzi sono stati poi ristampati anche in versione da libro rilegato nella serie Il Giallo Classico della FME).

Ma di questa convulsa "stagione d'oro" del "giallo all'italiana" ricordo soprattutto l'esperienza con Dario Argento e il lungo, complesso e articolato lavoro di collaborazione con lui, autentico maestro di ogni mia esperienza nel mondo del cinema. E ricordo anche la grandissima stima e amicizia dimostrata da Dario nei miei confronti, quando mi propose come uno dei quattro registi scelti per la sua serie televisiva della Porta sul Buio, progettata nel 1971, realizzata nel 1972 e messa in onda dalla Rai nel 1973.

Sempre Dario Argento fu all'origine del mio esordio come regista di lungometraggi nel genere del "giallo all'italiana": nel 1973 io e lui (insieme con Enzo Ungari) eravamo infatti a Milano, impegnati a svolgere le ricerche storiche necessarie per la scrittura di quello che sarebbe stato il quarto film diretto dall'ormai celebre regista, Le Cinque Giornate, e fu così che entrammo in contatto con un produttore lombardo, Giuseppe Tortorella, che aveva da poco realizzato un thriller con Duccio Tessari (La morte risale a ieri sera) tratto da un romanzo di Giorgio Scerbanenco e un film poliziesco di Umberto Lenzi (Milano violenta o qualcosa del genere). Intendeva adesso girare un giallo all'italiana e per questo volle incontrarsi con Argento per chiedergli qualche consiglio.

Quando l'incontro si svolse, una delle prime cose che Dario disse a quel produttore fu che, se voleva davvero creare un giallo coi fiocchi, doveva farlo dirigere a me!

Fu cosi che Tortorella mi prese in considerazione come regista, e di questo dovrà essere sempre grato a Dario Argento, perché in quell'occasione (e in altre successive) dimostrò in modo clamoroso che il suo altruismo e la sua generosità nei miei confronti andavano ben oltre qualunque rapporto professionale o di amicizia: e nessun altro, in tutta la mia ormai lunga esperienza professionale, si è mai più battuto tanto a mio favore e in modo cosi totalmente disinteressato come seppe fare lui allora...

Con Tortorella lavorammo a lungo su quel progetto di film (Quando piange un investigatore, che però allora in forma di sceneggiatura si intitolava La semplice arte del delitto, ovvio omaggio a Chandler), ma dopo vari mesi - malgrado l'appoggio che Argento continuò a darci - non approdammo ad alcun risultato (nel senso che non si trovò nessun distributore interessato a finanziare la pellicola) e cosi tutto finì nel nulla.

Nel frattempo ero tornato a Roma e, dopo aver collaborato con Dario alla stesura di Le Cinque Giornate e a un paio di progetti non andati e in porto, quali Frankenstein e Fango, lavorai pure con diversi altri produttori revisionando sceneggiature e soggetti o partecipando alla stesura ex novo di copioni. E, siccome ero considerato un po' come una sorta di "braccio destro" di Dario Argento, inevitabilmente il tipo di film che mi proponevano era sempre lo stesso: il "giallo all'italiana".

Un giorno fui chiamato da un produttore-distributore che stava già realizzando un film (La Mano Nera di Antonio Racioppi, con Michele Placido e Lionel Stander, ispirato alle imprese del poliziotto italo-americano Petrosino) ma che non era per niente soddisfatto della sceneggiatura. Insomma, le riprese erano già in corso, ma costui (Carlo Infascelli, un curiosissimo personaggio alla cui figura e alla cui vita è dedicato un divertente film di qualche anno fa, Zuppa di pesce) non era soddisfatto di quanto il regista stava filmando: così mi assunse con l'incarico di modificare in corsa il copione, proprio mentre lo stavano girando. In altre parole, dovevo studiare il piano di lavorazione e vedere quali scene erano ancora da fare, in modo da cambiare quelle e non ovviamente le altre già realizzate. Inoltre dovevo modificare i dialoghi e le azioni di certi personaggi, perché gli attori che li interpretavano non erano soddisfatti di quello che la loro parte prevedeva... e tutto ciò andava ovviamente fatto con fretta estrema, e senza alterare per nulla i delicati meccanismi del piano di lavorazione e gli equilibri tra il materiale già girato e quello ancora da fare e da modificare.

Ovviamente, la mia collaborazione alla Mano nera fu un'esperienza un po' folle, da cinema d'altri tempi (e Carlo Infascelli era, in effetti, un personaggio straordinario davvero uscito dal cinema d'altri tempi!), ma fu anche divertente e ben pagata. Ma, soprattutto, da quell'avventura uscii con una grande stima sviluppatasi nei miei confronti da parte di quel produttore, e fu per questo che, poco dopo Infascelli mi richiamò per occuparmi del nuovo film che voleva realizzare. Si trattava di una co-produzione di genere giallo con la Germania, imperniata sulla figura di un gangster che ritorna forzatamente ad Amburgo dopo un lungo soggiorno in America. lo inventai il titolo dei film (Il re della mala) e dissi la sceneggiatura tedesca mi pareva troppo lenta e fiacca: Infascelli allora mi rivelò che come attore principale del film avrebbe voluto l'americano Henry Silva, all'epoca abbastanza quotato per le produzioni di serie B, ma l'attore aveva rifiutato la proposta perché neppure a lui il copione era piaciuto. Dopo di che mi incaricò di incontrarmi con Silva e, dato che parlavo bene l'inglese, di concordare direttamente con lui le modifiche da apportare alla sceneggiatura per convincerlo a interpretare la pellicola. E se ci fossi riuscito, Infascelli ovviamente avrebbe fatto riscrivere a me il copione. Fu così che, all'hotel Parco dei Principi a Roma, mi incontrai con Henry Silva e, dopo un paio d'ore di colloquio, riuscii a fargli cambiare idea. Silva apprezzò i cambiamenti che volevo apportare alla sceneggiatura, gradì tutte le modifiche al suo personaggio e alla fine si dichiarò disposto a interpretare il film.

Il re della Mala venne girato in Germania, e al fianco di Henry Silva recitarono un paio di attori italiani che scelsi io stesso: Infascelli infatti ormai si fidava molto delle mie capacità e per questo capii che forse era giunto il momento giusto per realizzare il mio più grande sogno, quello di esordire finalmente alla regia di un lungometraggio.

Mi ricordavo infatti di Tortorella, il produttore di Milano disposto a finanziare una pellicola con me come regista ma che non era riuscito a trovare un distributore, e siccome sapevo che Infascelli - oltre che produttore - era anche distributore, misi in contatto i due personaggi proponendomi come regista del nuovo film da realizzare... ed entrambi, senza esitazioni, trovarono la mia proposta valida e degna di attenzione.

Siccome però servivano un soggetto e una sceneggiatura, dopo che Infascelli, Tortorella e io fummo tutti d'accordo sul fatto che si voleva realizzare un "giallo all'italiana" nello stile di Dario Argento, ci mettemmo alla caccia di una storia. Tortorella propose subito un romanzo minore. di Giorgio Scerbanenco appena ristampato da (Garzanti, Al mare con la ragazza: lui aveva già realizzato un film tratto da un libro dello stesso autore e sapeva che dalla vedova dello scrittore poteva acquistare i diritti con una cifra abbastanza modica. Mi venne perciò affidato l'incarico di trasformare il libro in una sceneggiatura. Al mio fianco, come collaboratore, chiamai Daniele Del Giudice, l'altro redattore di Ciao 2001 col quale ero rimasto sempre in amichevole contatto anche se da tempo avevo lasciato il giornale.

Il libro di Scerbanenco raccontava quello che capitava a due giovani balordi, un ragazzo e una ragazza, che per caso rubano una macchina senza sapere che nel portabagagli c'è il corpo di una donna uccisa. I due se ne vanno per una gita al mare, nel corso della quale accadono vari incidenti... il libro era tutto qui. Purtroppo si trattava di uno dei romanzi meno interessanti di Scerbanenco, uno degli scrittori più grandi che l'Italia abbia avuto negli ultimi cinquant'anni. Per questo io e Daniele decidemmo di utilizzare per la nostra sceneggiatura soltanto l'idea di partenza (due balordi rubano un'auto con un cadavere dentro), ma di inventarci poi tutto il resto della trama in maniera da renderla molto più interessante. Mi ispirai a un film di Alfred Hitchcock che proprio di recente - vedi il caso! - Carlo Infascelli aveva rieditato con la sua distribuzione, Delitto perfetto, con Grace Kelly e Ray Milland: da quella trama prendemmo l'idea del marito spiantato che vuole uccidere la moglie ricca e affida l'incarico a un killer conosciuto per caso, e soprattutto, la figura del commissario simpatico che forse ha già capito tutto fin dall'inizio, e la trappola conclusiva tesa al colpevole. In più, per andare sul sicuro e consentire alla produzione di venire realizzata con una contenutissima spesa, ambientai buona parte della vicenda in una villetta abbandonata sulla riva del mare, dove i due ragazzi hanno vari (e sempre più violenti) incontri con l'assassino di professione, uno schema ripreso di peso dal film televisivo che avevo appena realizzato con successo per Dario Argento (Il vicino di casa, dalla serie di Rai-Uno La Porta sul Buio).

La sceneggiatura mia e di Del Giudice piacque ai produttori e il milanese Tortorella pensò subito che, siccome del romanzo di Scerbanenco avevo usato giusto l'idea dell'auto rubata con dentro il cadavere e nulla più, tanto valeva - per risparmiare - evitare di acquistarne i diritti. Fu così che il nome di quel celebre - e da me molto amato - scrittore scomparve dai nostri titoli di testa. Il film poi fu chiamato Il Ragno, un titolo molto bello che alludeva all'idea del marito che tesse la tela dell'intrigo per uccidere la moglie facendola franca. In verità, me lo aveva suggerito un paio d'anni prima Riccardo Freda: lo voleva usare per un suo progetto, ma siccome quel suo film non era andato in porto, glielo chiesi in prestito e lui, molto amabilmente, me lo concesse. Così, lo utilizzai per la mia prima pellicola da regista.

Poi, nel tardo autunno del 1973, il progetto entrò in fase realizzativa, dopo molti mesi di ritardo dovuti alle difficoltà incontrate per formare il cast. La mia idea iniziale era stata infatti di usare come coppia di ragazzi Ornella Muti e il suo compagno Alessio Orano, mentre la giovane autostoppista svedese doveva essere interpretata dalla formosa Gloria Guida, all'epoca non ancora famosa, con Giorgio Albertazzi e il grandissimo Gino Cervi (li incontrai tutti e due per discutere la loro parte, e conservo bellissime memorie di quelle mie ore trascorse con attori tanto bravi e famosi) in lizza per impersonare il commissario. Poi però Carlo Infascelli pensò bene di cercar di realizzare una co-produzione con la Francia per risparmiare sui costi, e tutto si complicò: quel tale personaggio non poteva più essere interpretato da un italiano perché al suo posto ci voleva un francese, quell'altro non andava più bene per lo stesso motivo, eccetera eccetera. Nulla quadrava più, anche perché nel contempo il co-produttore francese non si trovava.

Così svanì la possibilità di avere Ornella Muti, che aveva già accettato e che sarebbe stata la protagonista femminile per un compenso molto basso, e si persero per strada i vari Albertazzi e/o Gino Cervi. Venne invece il francese Antonio Saint John, un'ottima scelta perché aveva davvero una faccia straordinaria, da assassino: bastava guardarlo e si capiva che era un killer. L'avevo già notato nel film di Sergio Leone Giù la testa, dove interpretava il cattivissimo capo della milizia messicana, e avevo combattuto finché non ero riuscito ad averlo: una scelta che ho sempre considerato felicissima e che tutti hanno lodato. Antoine Saint John, tra l'altro, era una persona straordinariamente timida e mite, l'esatto opposto di quello che la sua faccia faceva pensare, e con lui ebbi un rapporto lietissimo.

Molto buono fu pure il mio rapporto con George Hilton, allora molto celebre per i personaggi dei film western, ma che riuscimmo a ottenere a un costo molto contenuto perché nessuno lo voleva in film ambientati ai giorni nostri. Per la parte della protagonista femminile, la ragazza che viene violentata dal killer, scelsi alla fine un'attrice spagnola, perché quando il tentativo di creare una co-produzione con la Francia fallì, Infascelli decise di metterne in piedi una con la Spagna. A quel punto diventò importantissima Ornella Muti, che in Spagna allora era molto conosciuta, e il produttore - dopo averla rifiutata - cercò di riaverla. Ma intanto era passato più di un mese da quando Ornella s'era dichiarata disposta a interpretare a prezzo modico la pellicola e, nel frattempo, le erano giunte due grosse proposte da importanti produttori italiani e lei le aveva accettato... e cosi non era più possibile averla. Mi dovetti accontentare allora di un'attrice spagnola, Cristina Galbo, giovane e brava, che s'era distinta in un film di zombi della Fida e, soprattutto, che avevo ammirato nella bella produzione Gli orrori del liceo femminile. Cristina abitava in quel periodo a Roma, vicino a casa mia, ed era sposata con un bambino: suo marito era un celebre interprete di western all'italiana, l'attore Peter Lee Lawrence, che sarebbe morto tragicamente nel giro di qualche anno per un tumore al cervello, lasciandola sola.

Come ho detto, tutte queste complicazioni create da Infascelli alla ricerca di una co-produzione straniera (che non si trovò, alla fine, perché quella conclusa con la Spagna si sciolse a riprese appena concluse) fecero ritardare di parecchio la lavorazione della pellicola, e così la storia che avevo scritta per essere girata durante una calda estate... be', quella stessa storia con gli attori tutti vestiti in maniche corte e con abiti leggerissimi, fummo obbligati a girarla nel freddo autunno di Milano in ambienti gelidi e per nulla riscaldati: la casa abbandonata dove si svolge gran parte della vicenda era infatti un villino vuoto nel quartiere attorno a viale Zara, mentre le poche scene esterne realizzate realmente al mare si svolsero a novembre a Rapallo e lungo la costiera ligure. Tutto il resto però, lo ripeto, fu girato a Milano (la darsena dove l'auto viene buttata in acqua, all'inizio, è quella del Naviglio; il commissariato è l'ufficio del produttore Tortorella; la casa del marito, tutta di un delirante colore giallo, è un appartamento realmente esistente di alcuni ricchi amici del solito Tortorella...), e il suo costo fu estremamente contenuto: non vennero spesi più di 40 milioni, dei quali oltre la metà non in contanti ma con cambiali o varie forme di pagamento dilazionato, per un totale di quattro settimane di lavorazione.

Naturalmente, nel film c'è anche un mio personale "ringraziamento" a Dario Argento per tutto l'aiuto disinteressato che mi aveva fornito per convincere i miei produttori: quando si vede l'accendino dell'assassino (un oggetto che, scoperto alla fine tra le mani del marito della donna assassinata, ne prova il legame col killer: un altro elemento preso a prestito dal film di Hitchcock Delitto perfetto, dove invece dell'accendino c'è una chiave... ma il meccanismo è lo stesso), su di esso si distinguono chiaramente le iniziali "D.A.". Ovviamente, stanno per "Dario Argento"!

Nei primi mesi del 1974 avvennero il montaggio e l'edizione sonora del film, e quindi la pellicola, finalmente completata, fu pronta per venire presentata alla commissione di censura: fu allora che avvenne il cambiamento di titolo. Quando Il ragno venne presentato in censura, fu bocciato infatti senza alcuna pietà: in altre parole, alla mia pellicola veniva proibita del tutto la proiezione in Italia, in quanto ritenuta dai membri della commissione statale troppo immorale e violenta.

Quella decisione mi fece piombare nello sconforto, perché davvero non me l'aspettavo. Comunque non mi persi d'animo, mentre, per poter ripresentare la pellicola in censura, il distributore ne cambiò il titolo: fu così che il film si chiamò L'assassino è costretto a uccidere ancora... titolo che gli è rimasto ma che, ancora oggi, trovo orribile. Inoltre, per poter almeno ottenere il "divieto ai minori di 18 anni" e non la bocciatura assoluta, il film venne ripresentato con vari tagli: per esempio, sparì tutta la sequenza alternata in cui il killer violenta la ragazza vergine, mentre l'autostoppista di facili costumi si concede al suo sciocco fidanzato. E scomparvero anche varie coltellate e un po' di sangue qua e là.

L'unica copia integrate di quel film che è rimasta fu dunque quella che riuscii a portare via io, quella che aveva ancora il primo titolo, Il ragno... e per fortuna è proprio quella copia che è stata usata per realizzare la prima edizione in videocassetta del film, in quanto fui io stesso a concederla in prestito alla CGR, all'inizio degli anni Ottanta. Successivamente, quando il film fu rieditato in videocassetta dalla Ricordi, uscì invece in un'edizione ignobile e vergognosa perché aveva tutta l'immagine tagliata ai lati (e, siccome avevo girato Il ragno con l'enorme schermo del Techniscope, questo significava che almeno un 40% di ogni inquadratura mancava!). In più, erano del tutto assenti la lunga sequenza dello stupro alternato all'atto d'amore, oltre che le molte scene di sangue e di coltellate.

E se qualcuno nota che, curiosamente, il film circola ormai da più di venticinque anni senza che il nome di Carlo Infascelli sia mai menzionato nei titoli di testa e di coda, anche se fu l'uomo chiave per la sua realizzazione, devo spiegare che ciò avviene per un fatto preciso: concluso il primo montaggio della pellicola, infatti, Infascelli vide il film e lo trovò molto brutto. Insomma, si dichiarò del tutto deluso e insoddisfatto e propose di rigirare tutta una serie di sequenze per cambiarlo. Il produttore milanese Tortorella invece ritenne che la pellicola andava benissimo così com'era e che non c'era proprio bisogno di rigirare alcunché, e così iniziò una lunga discussione-lite con Infascelli, finché Tortorella non ricomprò dallo stesso la sua quota del film, estromettendolo in pratica dall'operazione. Poi Tortorella cercò un altro distributore e lo trovò dopo qualche fatica. E fu allora che iniziarono pure le traversie con la commissione di censura delle quali ho appena parlato.

Tutti questi imprevisti (la lite tra Infascelli e Tortorella, la bocciatura da parte della censura, la ricerca di una nuova distribuzione) provocarono un grande ritardo nell'uscita dell'Assassino è costretto a uccidere ancora (il nuovo titolo assunto da Il ragno) e così la pellicola timidamente capolino nel cinema solo alla metà del 1975. Questo spiega bene perché non realizzai immediatamente un altro film di quel tipo: oggi, infatti, Il Ragno (o L'assassino è costretto a uccidere ancora) è considerato un "cult" e viene valutato dai critici, italiani e stranieri, come uno dei migliori "gialli all'italiana" di quel periodo, e pertanto mi viene spesso chiesto come mai non ne abbia realizzato subito un altro. Ma il motivo dovrebbe essere ormai evidente a chi ha letto questi miei ricordi: iniziai quel film praticamente nel 1973 e lo vidi uscire soltanto verso la metà del 1975. La sua genesi fu dunque molto, troppo lenta e faticosa, e - sin dalla seconda metà del 1974 - me ne ero già stancato e mi ero messo a cercare di portare in porto altre imprese possibilmente più semplici e remunerative: per esempio, nel settembre del 1974 presi a collaborare con la Libra Editrice per preparare quella "Rassegna del Film di Fantascienza" che tanto successo avrebbe poi avuto a Roma al cinema Planetario nel gennaio del 1975, e proprio il successo straordinario ottenuto da quella manifestazione mi avrebbe spinto verso i sentieri della distribuzione dei classici della fantascienza cinematografica, un compito che mi tenne a lungo impegnato con profitto e che quindi mi spinse a non considerare conveniente ripetere l'esperienza fatta con Il Ragno (tra l'altro, quando il film uscì nel 1975, ebbe scarso successo e fu quasi ignorato dalla critica dell'epoca, che lo considerò un "sottoprodotto del filone argentiano", mentre, come gli appassionati si sono accorti in seguito, era ben diversa cosa).

È per tutto questo che quella de' Il Ragno è rimasta per me un'avventura che, pur se oggi mi sta dando le soddisfazioni che non mi concesse allora, per tutti i motivi in buona parte precedentemente spiegati è rimasta unica nel corso della mia carriera. E non so se adesso posso commentare questo fatto dicendo: "Per fortuna!"

Il brano è pubblicato anche in appendice al volume "PROFONDE TENEBRE" di Antonio Bruschini e Antonio Tentori (edito da "Profondo Rosso").

Luigi Cozzi e i pinguini nel sottoscala
Luigi Cozzi e "i pinguini nel sottoscala"

Luigi Cozzi (1947) si occupa professionalmente di fantascienza sin da giovanissimo. Ha esordito infatti nel 1963 e da allora ha collaborato (e collabora ancora) con testate e case editrici quali "Urania", "Galassia", "Nova Sf", "Robot", Libra, Fanucci, Newton Compton, Perseo e altri, pubblicando numerosi saggi, articoli, racconti, romanzi, traduzioni e curando la scelta di testi, oltre alla redazione di varie antologie. Ha scritto anche alcuni romanzi gialli. Specializzatosi negli anni Settanta nella critica cinematografica, ha creato e curato le fortunate rassegne nazionali del Film di Fantascienza e ha scritto libri di saggistica specializzata quali "Il Cinema di Fantascienza 1" e "Il Cinema di Fantascienza 2" (Fanucci), "Il Cinema dei Mostri" (Fanucci), "Dario Argento" (Fanucci), "George Pal" (Nebula ed.), "Il Mostro sexy" (Ed. Inteuropa) e il recente "Hammer. La fabbrica dei Mostri" (ed. Profondo Rosso). La sua principale notorietà, comunque, Cozzi l'ha conquistata con il lavoro nel cinema: oltre alla trentennale collaborazione con Dario Argento (iniziata con "Quattro mosche di velluto grigio" e continuata sino al recente "La sindrome di Stendhal"), Luigi Cozzi ha scritto e diretto diversi film, tra i quali le pellicole di fantascienza "Starcrash" (1978), "Alien Contamination" (1981), "Hercules" (1983), "Paganini Horror" (1989) e "The Black Cat" (1990). Il suo successo nel mondo del cinema ha varcato anche i confini nazionali e Cozzi risulta il regista di fantascienza italiano che con più di un film ha conquistato gli spettatori statunitensi, posizionandosi più volte tra i maggiori incassi dell'anno negli Stati Uniti ("Variety"). Dal 1989 Luigi Cozzi ha fondato a Roma, insieme all'amico Dario Argento, "Profondo Rosso", la piccola bottega del fantastico, della fantascienza e dell'orrore, della quale ormai si occupa a tempo pieno dirigendo varie riviste "Horror", "Mystero" e "Archeologia" e curando la pubblicazione di vari saggi sul genere horror, giallo e fantascienza..

Filmografia come regista:
1973 – La Porta sul Buio: il Vicino di Casa (film TV)
1975 – L’Assassino è costretto ad uccidere ancora
1980 – Contamination
1988 – Paganini Horror
1989 – Il Gatto Nero
1991 – Dario Argento: Master of Horror (documentario)
1997 – Il Mondo di Dario Argento 3: il Museo degli Orrori (documentario)

Filmografia come sceneggiatore:
1971 – Quattro mosche di Velluto Grigio
1973 – Il Vicino di Casa (film TV)
1973 – Testimone Oculare (film TV)
1975 – L’Assassino è costretto ad uccidere ancora
1980 – Contamination
1984 – Shark, rosso nell’Oceano
1988 – Paganini Horror
1989 – Il Gatto Nero

Bibliografia sul Catalogo Sf, Fantasy e Horror,
a cura di Ernesto VEGETTI, Pino COTTOGNI ed Ermes BERTONI:
http://www.fantascienza.com/catalogo/A0172.htm#1181

"4 MOSCHE
DI VELLUTO GRIGIO"
di Dario Argento
Luigi Cozzi
vi ha collaborato
"L'ASSASSINO E'
COSTRETTO AD
UCCIDERE ANCORA"
film di Luigi Cozzi
"CONTAMINATION"
film di Luigi Cozzi


"HORROR
MADE IN ITALY"
(Profondo Rosso)
di Antonio Tentori
e Luigi Cozzi
"HORROR
MADE IN ITALY 2"
(Profondo Rosso)
di Antonio Tentori
e Luigi Cozzi
"HORROR
MADE IN ITALY 3"
(Profondo Rosso)
di Antonio Tentori
e Luigi Cozzi
"GODZILLA"
(Profondo Rosso)
di Luigi Cozzi



"MARIO BAVA
I MILLE VOLTI
DELLA PAURA"
(Profondo Rosso)
di Luigi Cozzi

PROFONDO THRILLING
contiene le storie
dei primi film
di Dario Argento
romanzate da Luigi Cozzi,
Nicola Lombardi
e Nanni Balestrini
Una copia della rivista
HORROR
della quale
Luigi Cozzi è direttore
Una copia della rivista
HORROR
della quale
Luigi Cozzi è direttore
Una copia della rivista
HORROR
della quale
Luigi Cozzi è direttore
una copia della rivista
MySTERO
della quale
Luigi Cozzi è direttore
una copia della rivista
MySTERO
della quale
Luigi Cozzi è direttore
"PAGANINI HORROR"
film di Luigi Cozzi

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