"L’OMBRA DEL DIO ALATO" di Danilo Arona (Tropea Editore, 2003) |
"IL VENTO URLA MARY" di Danilo Arona (PuntoZero) |
ROCCANERA
di DANILO ARONA
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"Tra un essere umano e un fantasma la
sola differenza è il respiro".
(LANTERNE ROSSE, Zhang Yimou)
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Avete già viaggiato da queste parti?
Io credo proprio di sì.
Se siete degli automobilisti di professione,
se la vostra settimanale aspirazione è la
tavola smeraldina del mare, se avete una
faccia un po' così, come quelli di una certa
canzone, prima di andare a Genova, allora
siete già passati da queste parti.
Non vi ricordate? Non fa niente. Io sono
qui per rinfrescarvi la memoria. Se lasciate
Bassavilla alle vostre spalle, oltrepassando
San Michele, e prendete il raccordo per l'autostrada
A 26, attraverserete la conca della Moira.
Un luogo bizzarro, dove persino la natura
sembra senza pace. Le colline vi appaiono
come parallelepipedi squadrati da uno scultore
ubriaco e i contadini della zona, fino a
pochi anni fa, sostenevano che la Splorcia
usciva di notte, percorrendo sentieri poco
battuti ed emettendo fiochi vagiti simili
a quelli di una bambina piccola. Per vostra
fortuna la Moira non durerà che una decina
di chilometri. Ma è uno sbaglio, una volta
che si è fuori, cedere alla tentazione di
respirare di sollievo. Infatti, si comincia
a percorrere la pianura, dove l'aria inizia
a corrompersi di esalazioni miasmatiche e
furiose folate di vento vi costringono a
tenere ben salde le mani sul volante. Vi
state avvicinando alla Palude in Penombra,
quella zona da incubo che i Latini avevano
soprannominato "Fauces quibus Transpadaniam
aditur".
Che significa? Bella domanda, soprattutto
se, come la maggior parte dei guidatori per
vocazione, avete fretta di giungere a destinazione
e non vi passa minimamente per la testa di
bloccare l'auto in corsia d'emergenza per
scendere a sbirciare il panorama.
Però...Però tanti che sono passati di qui
e non sono mai giunti alla meta nutrivano
la stessa convinzione. Prendete, ad esempio,
Renato Pirri, che una notte del 1986 decise
di attraversare la Palude nonostante l'infuriare
di un temporale mai visto. Oppure quel viaggiatore
senza nome che due anni dopo, a qualche chilometro
dalla stazione di servizio fiancheggiante
Roccanera, investì un fagotto bianchiccio
e si convinse di avere travolto un bambino.
O ancora un camionista colombiano di nome
Jacinto che sostò in corsia d'emergenza prima
del ponte sulla Palude e vide sulle colline
lontane all'orizzonte qualcosa che gli fece
perdere improvvisamente la ragione.
Sono soltanto tre esempi. Ma nessuno di costoro
ha mai raggiunto la propria destinazione.
Sono tre, ma potrei parlarvi di cento. Storie
di viaggio, di fredde e interminabili notti
passate su automobili che diventano strane
come non le avete mai sentite prima, con
trasmissioni radiofoniche che provengono
in diretta dal passato, con nebbie e bagliori
che scaturiscono dal nulla.
Sì, dopo la Moira, vicino a Roccanera non
c'è più pace. Si può tranquillamente aver
paura e non vergognarsene. Le uniche e ingannevoli
oasi in questo deserto di terrore sono le
stazioni di servizio che non chiudono mai,
dove la gente fatica a comunicare e i primi
ad essere sospettati di ogni possibile misfatto
sono gli stessi gestori che ti guardano male
non appena entri per farti un caffè caldo.
Ma puoi dar loro torto? Se ne stanno lì dentro
ogni giorno e ogni notte, attendendo con
ansia il cambio e sperando che l'autostrada
non vomiti le proprie creature proprio durante
il loro turno di servizio.
Allora, avete già viaggiato da queste parti?
No?
Scusate, ma non siete sinceri. Il fatto è
che un'autostrada A 26 si trova in ogni angolo
del mondo. E' impossibile che non la riconosciate.
E' inverosimile che luoghi del genere esistano
solo qui da noi.
Pensate, alcuni mesi fa uno sconosciuto poeta
transitò di qui e, fermatosi per bere un
caffè alla stazione di servizio di Roccanera,
sopra un foglio di notes, in fretta e furia,
vergò le seguenti parole:
"Ho paura, in pianura, ho paura. I fiumi,
i fossati, le rogge esalano miasmi mortiferi.
I pesci sono strani, come impazziti. Gli
uccelli volano in direzioni inusuali. Una
nebbia invisibile avvolge le cose più belle,
fattesi radiose, glaciali, impotenti. Morti
subdole e indecifrabili si aggirano tra la
gente. La pianura, la pianura è una iattura.
La sciagura avvelena la pianura. In pianura
alberga la sventura. La pianura, la pianura
è una lordura. Le città di pianura sono cupe
e risentite ed emettono brontolii laceranti
e suoni spaventevoli. La pianura circonda
ormai l'altura. C'è sozzura in pianura, c'è
sozzura. E premura e calura e io ho sonno
e ho paura. E' una selva selvaggia, la pianura:
è una selva oscura".
Lo sconosciuto poeta abbandonò il foglio
sul tavolo e uscì dall'autogrill con gli
occhi febbricitanti. Morì uscendo di strada,
pochi chilometri dopo Roccanera.
Non mentite. Ognuno di voi ha terrore di
addormentarsi sulle autostrade in pianura.
Ognuno di voi.
Ognuno di noi.
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Erano da poco trascorse le due quando l'uomo
scese dalla macchina. Aveva posteggiato sotto
una tettoia di cemento posta di lato al bar
della stazione di servizio e, prima di togliere
la chiave dal quadro, si era stiracchiato
e aveva sbadigliato sguaiatamente. Un uomo
senza nome, involucro di carne e di sangue
e sintesi simbolica di ogni viaggiatore di
pianura, ma non per questo estraneo all'umana
esigenza della fame e della sete. Così, dopo
aver percorso i pochi metri che lo separavano
dall'ingresso del bar, lui si sorprese a
pregustare il caldo sapore di un buon caffè
doppio, unica taumaturgia per quella giornata
fredda e disumana.
Spinse la maniglia della porta ed entrò.
Non vide nessuno, il che concordava con il
fatto che di fuori aveva intravisto solo
un'automobile, probabilmente di proprietà
di colui che gestiva la stazione. Le luci
di servizio erano per buona parte spente,
contribuendo ad aumentare la pesante atmosfera
di squallore. Dietro il banco, un rinsecchito
barista, indaffarato a lucidare il repertorio
dei bicchieri in dotazione, osservò il cliente
con un'espressione di sgomento e non lo salutò.
Allora l'uomo senza nome si avvicinò al bar
e chiese in tono cupo:
- Un caffè, per favore.
Il magro si mise al lavoro. Contemporaneamente
all'esterno un motore tossicchiò due o tre
volte e si spense. Un secondo viaggiatore
aveva scelto l'autogrill di Roccanera per
rifocillarsi e un'apparente sensazione di
sollievo ammorbidì i tirati lineamenti del
barista. Il nuovo venuto fece una specie
d'irruzione, spalancando la porta in malo
modo e trascinandosi dietro una mulinante
spolverata di nevischio. Era un tipo grasso
e tarchiato, con una faccia tondeggiante
piena di venuzze violacee. E dal suo modo
di camminare s'intuiva che era nato, cresciuto
e probabilmente destinato a morire in campagna.
- Santo cielo! - urlò quando giunse accanto
al banco - Ma che razza di posto è questo?
Ho preso l'autostrada a Vignale e il termometro
in macchina segnava dieci gradi. Adesso,
dopo mezz'ora di strada, siamo a meno sei.
Né l'uomo senza nome né il barista gli prestarono
l'attenzione di cui il grasso si riteneva
degno. Allora quello proseguì, dando ancor
più volume alla sua fin troppo squillante
voce:
- Dammi una dose doppia di grappa, amico.
Non c'è niente di meglio per scaldarsi le
ossa in una giornata come questa.
- Sì ...Si è persino modificata la temperatura
da un mese a questa parte - annuì il barista
con voce affannosa - Vi ci va un po' della
mia dinamite.
E tirò fuori da un cassetto non visibile
dai due forestieri una bottiglia senza etichetta.
Al primo cliente, più giovane del secondo,
non era sfuggito che il barista, ora non
più da solo, si stava rilassando e riacquistando
persino un po' di colorito. Giunse il caffè,
fumante e con un ottimo aroma. L'uomo senza
nome s'impossessò della tazzina. Il barista
versò due dita dell'intruglio che aveva battezzato
"dinamite" in un bicchierino da
liquore.
- E adesso tutto d'un fiato. Poi mi dirà
se sente ancora freddo.
L'uomo grasso e ciarliero sembrò accigliarsi.
La mossa del barista aveva tutta l'aria di
una stramba sfida. E ancora più strano gli
appariva il bar di quella stazione di servizio.
L'uomo dietro il banco pareva uno sconvolto
fin dalla nascita, gli occhi sporgenti dalle
orbite e qualche malattia epatica in agguato.
Il tipo che stava sorseggiando il caffè aveva
l'aria un killer professionista, la faccia
di chi aveva già visto tutto e intendeva
procedere oltre, giubbotto e pantaloni di
pelle nera (ma non sentiva freddo?) e un'età
che non si riusciva a definire. Afferrò comunque
il bicchierino che il barista aveva appoggiato
sul banco, ben deciso a far buon viso a cattivo
gioco e trangugiò il liquido bianco, qualcosa
che alla vista e dall'odore si dimostrava
un parente prossimo della grappa richiesta,
sotto gli occhi lievemente ironici dell'altro
cliente.
"Tutto d'un fiato", gli aveva suggerito
il barista.
Lo fece.
Dapprima fu come se una fulminea colata lavica
gli sezionasse l'organismo dall'inizio della
laringe sino alla fine del colon. Quindi
si accorse dell'aumento repentino della temperatura
interna. Avvertì il viso congestionarglisi
con gli occhi che si chiudevano per un improvviso
bruciore. E non poté fare a meno di cominciare
a tossire. Quello che fino ad un istante
prima assomigliava a un killer sorrise bonariamente
e depose la tazzina sul banco. Il barista
restò impassibile mentre lui si contorceva
come se fosse sul punto di vomitare. Quando
l'accesso si calmò, riuscì soltanto a chiedere:
- Santo cielo, che roba era?
Il barista alzò le spalle:
- Specialità del luogo. Roccanera è un posto
di duri.
Il primo viaggiatore portò la mano destra
verso la tasca interna del giubbotto, come
per pagare e quindi rituffarsi nell'uggiosa
oscurità di un pomeriggio in pianura. Ma
bloccò quel movimento a metà strada, come
colpito da un'ispirazione, e chiese al barista,
adesso meno inquieto di prima:
- Che intendeva dire poco fa?
L'uomo dietro il banco si limitò a guardarlo.
Sembrava non avere capito.
- Prima lei ha detto "Si è persino modificata
la temperatura da un mese a questa parte".
Che significa?
Il barista sospirò. Quindi rispose:
- Offre la casa, signori. A tutti e due.
Non sono uno che dà consigli, però io, al
vostro posto, non avrei dubbi. Verso sud,
dopo la Palude in Penombra, il clima cambia
e tutto ritorna ad essere più normale. Andateci.
- Cristo, amico - bofonchiò l'armadio umano,
all'interno del quale la "dinamite"
stava producendo i suoi primi, stimolanti
effetti - Sembri l'introduzione di quei telefilm
americani, come si chiamavano? Ai confini
della realtà, vero? Se ti deprime tanto gestire
un bar in questo posto, perché non molli
tutto e ti cerchi un altro lavoro? Magari
dalle mie parti, sulla riviera di Romagna,
dove qualche barista riesce ancora a ridere?
"Un idiota piovuto da Rimini" pensò
il primo cliente. Invece il barista replicò,
mettendo nuovamente al lavoro la macchina
del caffè. Evidentemente voleva approfittarne
pure lui. Forse, pensò ancora l'uomo in pelle
nera, gli avrebbe più giovato una camomilla.
- Già, se potessi andarmene, lo farei. Ma
qui lo stipendio è buono. E poi non c'è da
fare gli schizzinosi. Il lavoro non si può
rifiutare. Neppure a Roccanera.
E, quando pronunciò il nome, lo sillabò come
se stesse profferendo un'ingiuria velenosa,
come se lanciasse un mortale malocchio contro
il nemico più odiato. Al punto che il giovane
ne avvertì, nonostante gli oltre due metri
di distanza, il sentore rancido e sgradevole
del fiato fetido.
- Qual è il problema?
Il barista si voltò verso il primo cliente
che aveva formulato la domanda. Lo squadrò
e si convinse di trovarsi di fronte a uno
di quelli che andavano al nocciolo, senza
inutili preamboli. Ciò che forse lo seccava
non era il dovergli dare una risposta (a
quel punto obbligatoria, dato che lui stesso
aveva quasi volontariamente attizzato il
discorso), ma il sentir uscire dalle proprie
labbra parole che persino in un cinema avrebbero
fatto ridere chiunque.
- L'angelo - si decise dopo lunghi e faticosi
secondi - L'angelo sterminatore...Lo chiamano
così a Roccanera.
Il primo piegò le labbra. Come in un sogghigno
amaro, ma senza per questo esprimere un giudizio.
Il secondo avvertì uno sgradevole gorgoglio
nel profondo delle viscere. Colpa di quella
robaccia, pensò, forse è meglio che cerchi
la toilette.
- E' venuto giù dal cielo un mese fa. Dicono
che si sia aperto un occhio nel cielo e che
lui sia arrivato. Lo chiamano così dal titolo
di un vecchio film in cui i personaggi non
riuscivano più a uscire dal salone di una
grande casa, come se una forza misteriosa
li bloccasse lì senza un motivo apparente.
E' da un mese che quelli del paese e dei
dintorni non escono più la notte. Se qualcuno
li chiama al telefono, loro rispondono soltanto
che "non possono", che qualcosa
di fuori li blocca dentro la loro casa. Come
se un'impenetrabile e infrangibile campana
di vetro li avesse imprigionati al calare
delle tenebre.
- Oh, Gesù ! - sghignazzò il bevitore - Stanno
morendo di paura. E magari per un semplice
meteorite. Dì un po' ...Fai un caffè anche
a me, magari con un goccetto di quella magia
che mi hai appena fatto assaggiare. Comunque
io ci credo. Ho visto un sacco di volte cose
strane piovere dal cielo. Sì, io ci credo
ai marziani.
Fece una pausa e girò lo sguardo verso il
cliente taciturno.
- E poi che volete che siano i marziani in
confronto alle scorregge dei dinosauri?
Nessuno, né il barista né l'uomo in pelle,
sembrò stupirsi per quella considerazione.
Allora l'omone continuò il suo monologo,
sovreccitato per il distillato che gli orbitava
nelle viscere.
- Avete letto i giornali di ieri? A caratteri
cubitali sulle prime pagine. Finalmente scoperta
la vera causa dell'effetto serra. Sono stati
i peti dei dinosauri un milione di anni fa.
Centinaia e centinaia di bestie grosse quanto
la galleria del Turchino che inquinano l'atmosfera
vergine di un pianeta appena nato. Un marziano
che casca nella pianura padana è poca cosa
se paragonato ad una notizia come questa.
L'altro lo ignorò. Altrettanto fece il barista,
che riprese a esporre il tarlo che lo rodeva,
non prima di essersi probabilmente chiesto
perché Dio avesse sentito il bisogno di creare
degli imbecilli come quello, gradassi che
viaggiavano sull'auto strada, chiedevano
grappini per scaldarsi le ossa e, dopo trenta
secondi, già sbronzi cotti tenevano conferenze
sui borborigmi degli animali preistorici.
- Paura, certo...L'angelo sterminatore, a
Roccanera lo dicono di mattina quando escono
di casa, sembra un uomo, a volte una donna,
altre una bestia. Lui..lui cambia sempre.
Sì, ha ragione lei. E' proprio come in quei
telefilm americani.
- Tu l'hai mai visto? - gli chiese il cliente
più giovane, passando con naturalezza al
"tu".
- No. Mi sono sufficienti gli effetti che
produce. Guarda là fuori, guardati attorno.
Fatti un giro su a Roccanera, se hai dieci
minuti da perdere e non tieni molto alla
vita. Guarda me!
- Lo sto facendo.
- Ci sono notti nelle quali non arriva nessuno.
Il vento fischia e ulula attraverso le fessure
dei vetri. A volte, come ieri notte, mi tocca
anche il doppio turno alla pompa. Se non
transita qualche anima buona, non ti rimane
che fare i conti con questa solitudine, con
questi mille rumori che sembrano provenire
dall'altro mondo, con le luci di un maledetto
cimitero che è stato costruito proprio di
fianco l'autostrada. E da un mese a questa
parte è arrivato lui.
- Andiamo - s'intromise il campagnolo diretto
in Romagna - Se non ha mai sterminato qualcuno,
neppure se lo merita il soprannome che gli
avete dato! Che cosa fa di così terrorizzante
per tenere tutta la gente in casa?
"Comunque l'idiota non ha torto"
pensò l'uomo senza nome, mentre il barista
metteva un'altra tazza di caffè sul piattino.
- Io...io non lo so, però…- rispose il barista,
allungando il collo come se fosse sul punto
di profferire un grande e terribile segreto-...Però
Gabriele, il benzinaio che tre volte la settimana
fa il turno di notte e mi tiene, se non altro,
un po' di compagnia, Gabriele...dicevo...
I due clienti si sporsero a loro volta verso
l'uomo, che ad ambedue non pareva possedere
quel minimo di lucidità necessaria per svolgere
un lavoro sulla A 26. La scena appariva grottesca.
Se ne poteva quasi dedurre che due creduloni,
transitati nella pianura a causa degli oscuri
intrecci del destino, abboccassero con fanciullesca
ingenuità alle panzane di un pazzo, completamente
alienato dagli umani comportamenti per colpa
della solitudine o di qualche misteriosa
tara genetica.
- Gabriele lo ha visto - proseguì il barista
- Lo ha visto almeno tre volte. Volete che
lo descriva?
Al silente assenso dei due clienti, la pausa
del barista fu brevissima. Quanto bastava
per inspirare profondamente e a pieni polmoni.
Poi fuori, tutto d'un fiato:
- La prima volta fu poche ore dopo la caduta
di quella luce alla periferia di Roccanera.
Era una donna, una donna piuttosto anziana
alla guida di un'auto degli anni Trenta.
Gabriele non ci fece caso perché non poteva
ancora collegarla al fenomeno. Fu però colpito
dallo strano comportamento. Lei avvicinò
lentamente la vettura al distributore come
per fare rifornimento. Mentre lui si dirigeva
verso la pompa, lei lo guardò intensamente
e fuggì via, premendo a tavoletta sull'acceleratore.
Io vidi la scena dal bar con la coda dell'occhio,
ma Gabriele ebbe la possibilità d'imprimersi
nella memoria il volto della donna. Una settimana
dopo, al turno di notte, saranno state sì
e no le tre, arrivò un'altra macchina, anche
questa non comune. Una Morgan decappottabile
con a bordo un uomo piuttosto giovane e un
buffo cilindro nero in testa. Io dormivo
nello stanzino qui dietro e non vidi proprio
nulla, ma Gabriele questa volta venne e svegliarmi
e mi parve spaventato. Diceva che il tipo
si era comportato esattamente come l'anziana
donna di sette giorni prima, avvicinando
la macchina, guardandolo in modo strano e
poi fuggendo via. Ma ciò che più lo aveva
terrorizzato consisteva nel fatto che quell'uomo
aveva gli stessi, identici lineamenti della
donna, come un figlio somigliantissimo. Oppure
un gemello, a parte la grande differenza
di età. Gabriele mi contagiò con la sua paura.
Da qualche giorno arrivavano sin qui, da
Roccanera, le voci sull'angelo sterminatore.
Nessuno si azzardava ad uscire più la notte,
perché l'essere venuto dallo spazio, dicevano,
percorreva le vie del paese. Molti asserivano
di averlo visto. Ma nessuno ne dava una descrizione
uguale all'altra. Un uomo con lo sguardo
carico di odio, una donna di un'altra epoca,
una ragazza bionda e molto bella, altre volte
una strana bestia ingobbita e urlante. E
ogni apparizione a bordo di un'automobile
diversa. Insomma, Gabriele era convinto che
quelle due persone non fossero altro che
due manifestazioni dell'angelo. E già quelli
di Roccanera sostenevano che l'angelo possedeva
il potere di assumere tutti gli aspetti che
voleva. Dopo pochi giorni, avvenne la terza
apparizione. Da due notti ero solo. Gabriele
venne per uno straordinario e io mi sentii
un po' sollevato, perché tutte quelle voci,
quelle chiacchiere che anch'io mi sforzavo
di ritenere un mucchio di stupidaggini uscite
dal cervello bacato di quattro bifolchi,
mi avevano per la verità messo alle corde.
Mi ricordo che ci eravamo appena fatti un
bicchierino di "dinamite" giusto
per scaldarci, che sentimmo il rumore di
un potente motore provenire dal buio, là
fuori. Gabriele andò vicino alla porta e
appiattì il muso contro il vetro per guardare.
Ma, nonostante il tempo non fosse proprio
dei peggiori, non vide proprio un bel niente.
"Ma non c'è nessuno!" gridò. "Eppure
non lo senti anche tu il motore?" mi
chiese con una voce che tradiva la paura
più vera che avessi mai visto. Uscii dal
bancone e lo raggiunsi. E anch'io guardai,
senza scorgere nulla. Ma dall'esterno arrivavano
chiaramente i furiosi colpi d'acceleratore
di una macchina di grossa cilindrata. Non
sapevo che dire. L'unica spiegazione era
che qualcuno, a fari spenti, sulla corsia
d'entrata al posteggio della stazione, si
divertisse alle nostre spalle, ben conoscendo
lo stato in cui ci trovavamo da quando quella
cosa era piovuta giù dal cielo. Poi...Poi
apparve. Oh, non chiedetemi come possa affermare
con tutta questa sicurezza che si trattasse
di lui. Lo so adesso come lo sapevo quella
notte. Era lui. Solo che si mostrava a noi...nelle
sembianze di un poliziotto. Capite? A me
venne in mente che forse l'angelo riusciva
a captare, chissà se dal nostro inconscio
o da quello degli abitanti di Roccanera,
delle immagini su cui modellare il proprio
aspetto e trarci così in inganno. Non trovavo
altre spiegazioni, non riuscirei neppure
a descrivere il meccanismo di questa sorta
di furto, ma sapevo che funzionava così.
Era un poliziotto, con la giacca blu, i pantaloni
azzurri e la fondina con la pistola....Ma
Gabriele lo disse subito, mentre quello avanzava
lentamente sulla stradina verso la stazione
di servizio: E' LUI, E' LA STESSA FACCIA!
Il barista s'interruppe. Una breve pausa
nella quale apparve ai due viaggiatori più
pallido e più magro di qualche minuto prima.
Poi ricominciò sottovoce:
- Per Gabriele non esistevano dubbi. E neppure
per me, anche se non lo avevo mai visto.
Persino da quella notevole distanza, ci saranno
stati almeno un centinaio di metri dall'ingresso
del bar all'imboccatura dell'autostrada,
potevo scorgere il luccichio torvo e giallastro
di quegli occhi....Una luce che non poteva
essere riflessa, perché, tranne la nostra
piuttosto scarsa all'interno del bar, non
esistevano intorno altre fonti d'illuminazione.
Occhi che non erano umani, che non erano
mai stati umani, nonostante le fattezze di
quell'individuo che si stava dirigendo con
lentezza verso di noi. Non un uomo. Non di
questo mondo. Lui era quella luce bianchissima
sgorgata venti giorni prima da un occhio
gigantesco che si era aperto nel cielo e
precipitata alla periferia di Roccanera.
Una cosa che, non si sa come, cambiava aspetto
tutte le notti.
- L'ho già vista in un telefilm americano
questa storia - sbottò l'uomo grasso con
voce truce - In ogni caso sarà meglio che
mi raddoppi la correzione nel caffè, ragazzo.
Fa un freddo terribile nel tuo bar.
- Quando arrivò vicino alla pompa di benzina
- continuò il barista, versando meccanicamente
la "dinamite" nella tazzina del
caffè appena sceso - lui voltò lo sguardo
nella direzione da cui era giunto e da dove
continuavano a manifestarsi i rumori di un
motore. Dopo alcuni secondi, una bellissima
Jaguar rossa fiammante venne avanti, bucando
il buio e fuoriuscendo dalla linea scura
che delimitava il nostro angolo di visuale.
Oh, non poteva certo definirsi una guida
decente. Veniva avanti, sobbalzando e sbandando
come se il guidatore fosse sbronzo fradicio
o appena colpito da infarto. Il fatto è che....non
c'era nessuno al volante. Quella macchina
si stava comportando come un cagnolino, quando
il padrone lo chiama. E intendeva raggiungere
il poliziotto fermo vicino alla pompa. Il
rombo del motore era affannoso e per un pelo
la macchina non colpì la colonnina dell'insegna.
Poi, negli ultimi metri, la guida si assestò.
La Jaguar rallentò per fermarsi con precisione
quasi millimetrica tra la pompa della Super
e il poliziotto. E allora...allora Gabriele
mi guardò con una faccia terribile e urlò
Vuol far benzina! Hai capito? Quella COSA
vuol far benzina! Gabriele non sbagliava.
Il poliziotto, guardando verso di noi, stava
aprendo la bocca molto lentamente e con una
mano faceva segni inequivocabili vicino all'imboccatura
di un distributore. Io avevo le chiavi del
bar in tasca e non persi tempo. Le infilai
nella toppa e ci chiudemmo dentro...anche
se uno che poteva far camminare una Jaguar
con la forza del pensiero non si sarebbe
minimamente preoccupato di una porta a vetri
chiusa dall'interno.
Il barista si arrestò come per prendere di
nuovo fiato. Il cliente in giubbotto di pelle
ebbe l'impressione che la paura e la preoccupazione
di qualche minuto prima fossero sul punto
di ripresentarsi in doppia razione. Forse
la causa andava ricercata nel fatto che,
da lì a poco, i due viaggiatori di pianura,
così diversi fra loro ma così assolutamente
indispensabili all'equilibrio nervoso del
pallidissimo barista, avrebbero imboccato
la porta e ripreso il loro viaggio.
- E poi? Che altro avete visto? - chiese
il contadino romagnolo.
- Lui tese le braccia un'ultima volta verso
di noi, quasi come per una supplica. E sillabò
in maniera comprensibile, nono stante non
avessimo la possibilità di udirlo, BENZINA,
PREGO. Quindi, costatato che nessuno di noi
due si azzardava ad uscire, salì sulla Jaguar.
Non prima di averci rivolto un ultimo, terribile
sguardo. Con la luce di quegli occhi che
per alcuni secondi raggiunsero un'intensità
infernale. E, sgommando fino al punto di
far scintille con le ruote, si allontanò
in direzione della Palude in Penombra. Da
allora nessuno l'ha più visto. Ma quelli
di Roccanera di notte non escono ancora e
ci vorrà parecchio tempo prima che smettano
d'avere paura.
- E tu? - chiese il più giovane.
- Come?
- Intendo dire....Nelle notti in cui devi
sobbarcarti il doppio turno alla pompa, che
fai? Esci per rifornire gli automobilisti
o li mandi a quel paese?
Un lungo istante di totale smarrimento da
parte del barista. La domanda, piena di logico
buonsenso, del giovanotto lo stava mettendo
in apparente crisi.
- Io...Certo, devo uscire. Per forza.
- Visto? - continuò l'altro, accentuando
l'ironia del suo sorriso un po' felino -
Esci. Appunto. Nessuna forza misteriosa riesce
a bloccarti qui dentro, perché possiedi una
solida ragione per uscire. L'angelo sterminatore,
come lo chiami, non ha alcun effetto su di
te, se devi andare là fuori a svolgere il
tuo lavoro.
- E allora?
- Allora è semplice, amico. Io adesso esco,
vado in macchina e mi piazzo là, davanti
alla pompa. Ti dirò cortesemente e molto
lentamente, perché tu da dietro il tuo banco
possa capire: benzina, prego! E tu uscirai....Per
la ragione più logica del mondo: sono a secco.
- Aaaahhh! Che mi venga un colpo! - rumoreggiò
l'altro cliente con la lingua sempre più
spessa - E buonanotte agli angeli sterminatori.
Il barista mutò di colpo fisionomia. Il terrore
gli si dipinse sul volto scavato. I suoi
occhi guardavano verso l'area di parcheggio
oltre la finestra panoramica. Allora si voltarono
anche i due clienti, puntando lo sguardo
in direzione del cielo basso di pianura.
E ambedue iniziarono a boccheggiare, come
se qualcuno li stesse prendendo a calci nello
stomaco, o poco più sotto
Un occhio giallo, ellittico e luminoso si
era aperto tra le oscure nubi che si estendevano
da Roccanera fino alle porte di Milano. E
qualcosa stava precipitando verso terra,
fendendo il grigiore del giorno. Era un corpo
giallastro e incandescente che si lasciava
dietro una scia di rossi lapilli ben decifrabili
nell'uggioso pomeriggio.
La luce proveniente dal cielo si schiantò
senza il minimo rumore sul campo adiacente
l'autostrada, a qualche decina di metri dalla
stazione di servizio. Senza fumo né terra
scagliata d'intorno. Ma i meteoriti molli
(i tre uomini all'interno del bar ne erano
vagamente coscienti), i corpi celesti che
affondano dolcemente, quasi facendosi assorbire,
nell'argilla di pianura, non potevano esistere.
Il grasso, sconvolto dalla paura, scattò
in avanti verso la vetrata. Nel farlo, un
movimento scoordinato del braccio colpì in
pieno la zuccheriera e la polvere bianca
si sparse in giro sul pavimento. Faccia da
Killer, perduto il sorriso felino, lo seguì
con apparente calma, mentre lo scheletrico
barista rimase impietrito dietro il bancone,
quasi rassegnato all'ineluttabilità di un
orrore che doveva ancora manifestarsi.
Nella zona dell'impatto il cielo si rischiarò
come per un'aurora boreale. Poi l'avara argilla
di pianura si mosse come se nelle immediate
profondità la scagliosa schiena di un antico
drago spingesse le sue verminose aderenze
contro gli strati di una terra ingrata e
marcescente.
Da dietro il vetro, i due avventori videro
una forma pressappoco umana sortire dalla
zolla. Da quella distanza il giovane e il
grasso non riuscivano ancora a distinguere
che si trattava di un uomo nudo, dalla carnagione
non troppo scura (il colore tipico dei nativi
del Caribe) e il fisico possente ricoperto
di lombrichi, di terriccio e di una vischiosa
sostanza dall'aspetto e dall'odore nauseabondi.
Ciò che vedevano era però sufficiente ad
esprimere sinteticamente un chiaro concetto:
la terra che fiancheggiava l'autostrada stava
partorendo uno zombie annerito proprio dal
punto in cui era precipitato il bizzarro
meteorite. Dopo i racconti del barista su
angeli sterminatori e automobili che viaggiavano
senz'autista, lo spettacolo in questione
era proprio tutto ciò che ai due occorre
va per rinfrancare l'umore e conciliare la
logica con la ragione, visto che il senso
della realtà nei pressi di Roccanera andava
vieppiù sgretolandosi.
Gli occhi del grasso, fino a qualche istante
prima due fessure intorbidite dalla "dinamite",
si dilatarono per il terrore. La bocca si
trasformò in una molle vescica pendula. L'uomo
riuscì soltanto a gorgogliare Scappiamo!
E si avviò verso l'uscio. Faccia da Killer
lo osservò gelidamente, mentre il barista,
completamente paralizzato, rimaneva sempre
bloccato nella sua posizione altamente professionale,
come se zombi, abitatori di altre dimensioni
e falsi poliziotti a secco di benzina fossero
sul punto di occupare gioiosamente ogni tavolino
di quel posto di ristoro per consumare una
sana merenda di campagna. Il romagnolo, con
il panico ormai dilagante in ogni millimetro
quadrato del flaccido corpo, spalancò la
porta per percorrere a larghissime falcate
(per quanto permesso dalle sue ridicole condizioni
fisiche) i pochi metri che lo separavano
da una chiassosa Toyota color amaranto. Gli
altri due lo videro bloccarsi sulla soglia
come sull'orlo di un precipizio, il piede
fermo a mezz'aria e il sudaticcio collo bovino
sporgente verso l'esterno. Quindi l'uomo
si ritrasse, come se al posto del ciottolato
e della ghiaia della piazzola fosse presente
un lago di velenose sabbie mobili. Si voltò
verso il giovane e biascicò soltanto:
- Non ci riesco....Non ci riesco...
L'uomo con il sorriso da gatto scrollò la
testa e si rabbuiò ulteriormente. Senza perdere
di vista quella rappresentazione unica che
si stava tenendo dalla parte opposta dell'autostrada
a pochi centimetri dal fossato di scolo (le
tenebre che guadagnavano terreno più rapidamente
del normale, una cupola di luce aliena sul
campo dov'era scomparsa la "cosa"
e infine un negro nudo e muscoloso che si
avvicinava alla stazione di servizio con
gli occhi dell'identico colore della luce
aliena!), raggiunse il grasso sulla soglia
e fece per portarsi all'esterno. Ma...
- TU NON HAI VOLUTO FARMI FINIRE, AMICO!
- iniziò a chiocciare istericamente il barista
- HAI PENSATO DI ESSERE IL PIU' FURBO E HAI
VOLUTO PRENDERMI PER I FONDELLI! TE LA REGALO
TUTTA LA BENZINA! PROVACI, AMICO...VAI LA'
FUORI! MUOVITI!
Il giovanottone sogghignò. Il terrore delle
donnette di pianura e delle vecchie tate
che lasciavano le tavole imbandite nella
notte di Ognissanti non era faccenda che
lo riguardava. Il barista era uno schizzato
e il grasso si ritrovava sotto spirito come
certe ciliegie al maraschino di sua conoscenza.
Il meteorite ed il negro nudo che aveva appena
posto il suo piede sull'asfalto viscido dell'altra
corsia di marcia (a proposito, ma non passava
mai nessuno da quelle parti? Dov'erano le
altre vetture? I gitanti, i camionisti, i
rappresentanti di commercio?) erano certamente
fatti anomali, sensazionali, fuori della
norma. Ma tutto ha una spiegazione, si disse
mentre spingeva il suo piede oltre l'uscita.
E....
(tutto ha una spiegazione)
Sentì la mente scivolare via.
Avvertì che lo smisurato controllo che riusciva
normalmente ad esercitare su se stesso adesso
non poteva far altro che venir meno.
Ed il muro privato della sua solidità si
andava riempiendo di crepe ragnatelose e
zigzaganti. La gamba destra non ubbidiva
all'impulso cerebrale di procedere in direzione
dell'auto posteggiata sotto la tettoia di
cemento.
Sul lato destro del bar, cammina lentamente,
senza fretta e senza panico, quel negro nudo
ricoperto di schiuma di birra ha l'aria di
essere un osso duro, c'è tutto il tempo per
infilare la chiave e far rifornimento alla
stazione successiva: BENZINA, PREGO...IL
PIENO, PER FAVORE... Guardò l'arto, come
se fosse una creatura dotata di vita propria.
Lo spinse e lui ebbe l'illusione che una
gamba fantasma, una sola, stesse percorrendo
con faticosa lentezza il cammino verso la
tettoia.
Ma non era così: il comando che proveniva
dal lato destro del cervello s'infrangeva
contro lo stivale di granito in cui la gamba
pareva rinchiusa, del tutto insensibile a
sollecitazioni e a dolore. Il comando si
visualizzava poi nell'ansia di anticipazione:
un altro Faccia da Killer camminava spavaldamente
davanti a lui, intenzionato senza eccessive
preoccupazioni a riprendere il suo viaggio,
ma la figura si dissolveva come un ologramma
morente non appena giungeva vicino alle pompe.
E lui, in carne e ossa, si ritrovava sempre
lì, fermo sulla soglia, come un podista pronto
a scattare per la grande corsa dei cento
metri con record mondiale in palio, nell'attesa
perpetua di un colpo di pistola che non giungeva
mai. Ma, per quanto si sforzasse, lo scatto
al momento era stato rimandato.
Fece qualche passo indietro e finalmente
riconobbe la vitale e unica sensazione che,
sin dai primi vagiti faceva camminare l'umanità
verso il big bang dell'olocausto finale:
la paura lo attanagliò all'altezza dello
sterno con un rigurgito acido e un conato
disgustoso gli invase la bocca.
- Non si esce, amico - disse il barista con
un'espressione di totale rassegnazione, che
lo rese d'un tratto saggio ed equilibrato
- A Roccanera non escono la notte. Ma da
qui non si esce MAI da quando è caduto l'angelo
sterminatore.
- E quello? - urlò il grasso, sbattendo le
palpebre e appoggiando la faccia esangue
contro il vetro - E quello cos'è? E' anche
lui della squadra? Che diavolo sta succedendo
qui? E perché, da quando sono entrato nel
tuo bar, non è più passata una macchina?
Un vento gelido, l'intollerabile vento della
Palude in Penombra che spirava da ottobre
a gennaio, afferrò alcune cartacce disseminate
dinanzi alle pompe e le scagliò tra i piedi
violacei dell'essere che stava avanzando.
La luce aliena ora aveva invaso tutto il
cielo: le nuvole grigiastre di novembre,
già oscurate da una notte impaziente, avevano
ceduto la scena ad un mostruoso cielo d'alabastro
violaceo che incombeva sopra un'immensa piattaforma
da cui spiravano qua e là geyser nebbiosi
dall'inedito andamento serpentiforme.
- La pianura è una selva oscura - rispose
il barista con una voce che neppure più sembrava
appartenergli - E io ho sonno...e paura.
Guardatelo....GUARDATELO!
E i tre uomini non furono più in grado di
staccare i loro occhi da quella cosa, là
di fuori, che pareva un essere umano e che
non lo era. Quelli del barista e del grasso
si fecero più grandi sino a mostrare la sclera.
Invece Faccia da Killer sembrava non esibire
paure sul suo viso: le labbra non tremavano,
il sudore non imperlava copiosamente la fronte,
le narici non si dilatavano per suggere la
poca aria artificiale dell'autogrill. Faccia
da Killer sentiva però che gli sfinteri stavano
cedendo. Nulla al mondo, forse, poteva scuoterlo.
Nulla, tranne la constatazione che quella
stazione di servizio ora non si trovava più
sull'autostrada A 26, vicino ad un paese
fantasma che la gente chiamava Roccanera.
Quella stazione di servizio era stata prelevata
dalla gigantesca e graziosa mano del Grande
Demiurgo (o di uno dei Grandi Colpevoli,
ma a quel punto che importava il loro numero
e il fatto che in ogni caso fosse sempre
colpa loro?) e depositata su un altro pianeta
dallo squadrato paesaggio geometrico e dal
cielo color drappo funerario. Un mondo, sul
quale aveva trovato ospitalità anche la sua
vettura, con le altre trasferita con tutta
l'area di parcheggio, e del quale normali
abitatori si dimostravano essere possenti
uomini nudi scaturiti da un asteroide piovuto
dal cielo, falsi poliziotti a corto di benzina
e vecchie donne a bordo di un'Isotta Fraschini
sempre a caccia di carburante.
BENZINA, PREGO! Così funzionava sul pianeta
di Mazinga, notevole località di villeggiatura
sulla quale, se spingevi una gamba in avanti
con l'intento di raggiungere il nord, questa
ti tornava indietro perentoriamente diretta
a sud. BENZINA, PREGO! E forse l'Apollo di
colore, che ormai aveva raggiunto l'area
di manovra davanti alle colonnine, avrebbe
chiesto pure lui del carburante, magari infilandosi
subito dopo la pompa sotto l'ascella laddove
si trovava il tappo del serbatoio. Insomma,
dov'era la stranezza?! Forse, perché era
scuro, avrebbe dovuto usare benzina verde?....MA
NO, AVREBBE CHIESTO BENZINA QUALUNQUE E...
- Guardatelo...GUARDATELO! - aveva urlato
il barista, perdendosi dalla bocca gli ultimi
cinque chilogrammi che gli erano indispensabili
per restare in vita.
Dall'altra parte del vetro uno squarcio di
una decina di centimetri si era aperto sul
braccio destro dell'uomo nudo. Lui lo guardò
stupito, senza dare l'impressione di provare
dolore. Poi, quasi per apparente istinto,
si portò una mano sulla ferita come se volesse
tamponare il repentino zampillo del sangue.
Lo stupore sul suo volto durò pochi istanti.
Quattro slabbrature gli si allargarono contemporaneamente
sulla pelle della fronte, di una coscia e
sul torace, mulinando liquido rosso scuro
in tutte le direzioni. Gli occhi del meticcio,
sgranati in un'espressione d'incredulità,
trasformarono quel volto maschio e alieno
in una grottesca maschera di carnevale. Era
come se qualcuno, invisibile ai tre malcapitati
asserragliati nella stazione, stesse straziando
con un'arma affilatissima le carni dell'uomo
venuto dal cielo.
Niente più a quel punto pareva aver senso.
Il naso, colpito in modo orripilante, si
spiaccicò, deformando la mandibola e seminando
sul selciato, reso già viscido dal sangue
fuoriuscente, brandelli di cartilagine e
denti frantumati. Il negro cadde sulle ginocchia,
mentre una tempesta di tagli e di lacerazioni
si abbatteva in ogni zona del suo corpo.
Nonostante la presenza del doppio vetro antiproiettile
della finestra panoramica, il sinistro rumore
dell'invisibile arma (Rasoio? Collo di bottiglia?
Lametta? Le tre immagini della possibile
arma bianca offuscarono ulteriormente la
mente di Faccia da Killer) che lacerava le
carni della creatura attraversò lo spazio
interno del bar e costrinse il grasso a comprimersi
freneticamente le orecchie: il suono pareva
identico a quello di un foglio di carta oleata
tagliato a metà da un coltello seghettato.
E l'uomo che poco prima aveva esposto la
sua teoria sull'effetto serra si allontanò
dalle vetrate e si tuffò sotto il bancone
ai piedi dell'impietrito barista.
Il martirio continuò nel silenzio irreale
del mondo esterno, ormai divenuto sconosciuto
e ostile. La bocca del meticcio ogni tanto
si apriva, ma non un suono usciva da quella
cavità martoriata. Tentò di alzarsi, mentre
brandelli di carne volteggiavano nel vento
come lacere bandiere. E quando il negro cadde
disteso a terra in una vischiosa pozza di
plasma, l'invisibile massacratore proseguì
imperterrito la sua opera di distruzione
tra spruzzi di fibrille rossastre e volanti
schegge di carne viva. Durò un incalcolabile
numero di minuti. Quando la carneficina terminò,
ciò che restava sullo spiazzo dinanzi al
bar era semplicemente indescrivibile. E già
sulla massa informe si precipitavano nugoli
di mosche aliene.
Il giovane si voltò a cercare conforto nello
spiritato volto del barista. Del grasso romagnolo
apparivano solo i piedi tremanti che spuntavano
dal lato sinistro del bar. Avrebbe voluto
formulare la domanda più logica (Amico, proviamo
ad uscire dal retro? Vuoi? Magari da quella
parte ce la facciamo!, oppure C'è uno sgabuzzino
nel quale nascondersi?), ma la sua bocca,
senza che lui potesse opporsi, prese a cantilenare:
- Perché la pianura fa così tanta paura?
Perché proprio qui?
Le risposte furono le lacrime del barista.
Poi mancò la corrente. E infine qualcuno,
là fuori, spense anche la luce violacea di
una pianura mai vista da occhio umano. E
nel buio ondeggiante e vorticoso, sul vetro
panoramico si dipinse il temuto volto dell'Angelo
Sterminatore, colui che a volte era una vecchia,
a volte un poliziotto oppure un giovane dal
sogghigno cinico e un buffo cilindro alla
Mandrake. E nelle sue mani, pelosi artigli
di belva preistorica ingobbita e urlante,
brillarono le sacre spade di una nuova, sanguinaria,
occulta guerra: gigantesche e affilatissime
lamette da barba, che nessun rasoio conosciuto
al mondo avrebbe mai potuto contenere.
____________________________________________________________
Immaginate di aver lasciato alle vostre spalle
Bassavilla la Grigia, la città del Ponte
del Diavolo e dei due fiumi (di cui uno,
uno soltanto, particolarmente inquieto) e
di aver preso l'autostrada verso la Palude
in Penombra, in direzione della Milano da
bere, la Tangentopoli di sangue assediata
ogni giorno di più dalla gente del Caribe
e dell'Africa, quelle carnagioni scure e
scorticate che la polizia sospetta di praticare
il Palo Mayombe. Immaginate, se ne avete
voglia, di essere un giovane vestito soltanto
di pelle nera, dallo sguardo talmente cinico
che qualcuno non avrebbe difficoltà ad appiopparvi
il soprannome "Faccia da Killer".
Di essere alla guida di una buona macchina
e di amare gli autogrill oscuri, dove fermarsi
per sgranchire le gambe e bere un buon caffè
Bene, se la vostra immaginazione corre lungo
i binari della logica, una volta superata
la Moira, vi sarete accorti che le stranezze
nella pianura sono di casa: l'umidità non
fa che aumentare ed un violento e gelido
vento si alterna paradossalmente a muraglie
biancastre di nebbia e qualcos'altro d'indecifrabile.
Sembra di entrare e di uscire di continuo
attraverso porte invisibili che vi collegano
con mondi simili al nostro. Una similitudine
solo apparente. Perché i particolari, che
sono quelli che contano, la dicono lunga:
i paesaggi, per fare un solo esempio, vi
sembrano fuoriusciti dall'incubo di un pittore
pazzo. E sono troppi i fantasmi della strada
che vi chiedono un passaggio. A quel punto
anche la Milano da bere vi apparirà troppo
lontana per pensare di arrivarci senza una
sosta per mangiare, per riposare e fare quattro
chiacchiere con gente, si spera, simpatica.
Ed eccola, la stazione di servizio del magro,
con insegne che scintillano come luci del
luna park. Solo che si spengono subito, appena
vi fermate sotto le frasche del parcheggio.
Sì, la sosta (con tutto quel repertorio di
assurdi imprevisti: il bovino romagnolo,
i racconti da film dell'orrore del barista,
la cosa piovuta dal cielo e tutto il resto,
che magari avete già preferito dimenticare)
non è proprio andata secondo i piani. Fino
a un certo punto ce l'avete fatta a mantenere
la calma. Poi, quando sono apparse quelle
gigantesche lamette, l'impresa si è rivelata
impossibile. Perché, per quanta immaginazione
possediate, alla spiegazione non ci arriverete
mai.
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Di notte soprattutto tossici in crisi di
astinenza o in overdose, feriti in risse
di prostitute, pazzi e malati veri in preda
a dolori insopportabili. Di giorno incidenti,
colpi apoplettici, vittime di sanguinose
rapine oppure coniugi che decidono di risolvere
i loro vecchi problemi con l'aiuto di coltelli,
mannaie o qualsiasi altro corpo contundente.
Roberta Blanchard conosce bene la routine
del Pronto Soccorso. Non si dimostra più
tesa ed agitata come le prime volte. I suoi
gesti e le sue parole hanno ormai acquistato
la meccanicità che impone quella particolare
sorta di abitudine al dolore. Una maschera
che spesso si presenta al prossimo come un
indizio di tetra rassegnazione. In certi,
rari casi la maschera sembra esprimere fastidio.
Anche perché Roberta, trent'anni appena compiuti,
è bella quanto può esserlo a volte la sofferenza.
Struccata, il volto pallido, con una leggera
ombra violacea sotto gli occhi, i capelli
corvini sciolti sul camicie bianco, la femminilità
prorompe da quella superficie apparentemente
dimessa e intenzionalmente non valorizzata
dalle risorse di mille (inutili secondo lei)
prodotti di bellezza.
Mentre si dirige verso l'ufficio dell'accettazione,
Roberta avverte un piccolo rumore sulla destra,
proprio dove il corridoio si confonde in
un'aliena penombra, e alza di scatto la testa.
E' la signorina Trifoglio, capoinfermiera
della Prima Medicina. La collega appare stanca
e depressa, ma chi non lo è in quei gironi
infernali? Inoltre, a cinquant'anni ormai
prossimi, la signorina Trifoglio non ha mai
incoraggiato - almeno così sostengono le
malelingue del reparto - nessun esponente
del sesso avversario a farsi largo nella
mischia della vita per giungere sino a lei.
E la malinconia ormai la circonda come un'aureola
di beatitudine.
- Il signor Vangoni si è mosso - prende a
riferire la Trifoglio - Non è ancora sveglio
perché il dottor Casini gli ha somministrato
un sedativo due ore fa. La signora Meniconi
ha più di 37 linee di febbre. E poi c'è l'ingegner
Di Lenardo che accusa dolori al plesso solare.
Venti minuti fa l'ha cercata la dottoressa
De Chirico.
- Grazie, signorina Trifoglio. Vado a prendere
una tazza di caffè. Facciamo un giro alle
sette.
Mentre la capoinfermiera si dilegua, la porta
dell'ascensore si apre cigolando davanti
a Roberta. Due giovani infermieri ne escono
sghignazzando. Lei entra e, dopo alcuni secondi,
scende al secondo piano. Il lungo corridoio
che le si para davanti, dove alcuni degenti
strisciano le ciabatte sul pavimento con
il passo di chi sembra da poco guarito da
una paralisi, le ricorda l'ambiente di uno
stupido film visto alcune sere prima in televisione.
Un pazzo che tutti, medici compresi, avevano
dato per morto si era risvegliato nella sala
mortuaria di un inverosimile ospedale americano
e aveva preso a sgozzare chiunque. Un'insopportabile
cretinata. Sta per entrare in ufficio per
telefonare alla dottoressa De Chirico, quando
dalla finestra che si apre sul cortile esterno
al Pronto Soccorso arriva l'ululato dell'ambulanza
accompagnato dalla tipica, baluginante luce.
Sente una morsa al petto e un profondo senso
di frustrazione: questa sera accetterebbe
anche un'insopportabile cretinata in un cinema
del centro, pur di non stare ancora con la
morte al lavoro dinanzi agli occhi
Apre la porta e si siede alla scrivania.
Compone il numero diretto della De Chirico,
ma nessuno risponde agli squilli che si susseguono
implacabili per una dozzina di volte. Come
abbassa il ricevitore, il telefono suona,
quasi facendola sobbalzare perché inatteso.
E' Casini, suo collega di turno per quel
pomeriggio al Pronto Soccorso.
- Roberta? Hai voglia di venire giù? Sono
al Pronto Soccorso, ala sud.
- Che succede?
- C'è qualcosa che devi vedere. Non perdere
tempo, corri.
Roberta appoggia la cornetta con un inatteso
senso di sgomento. Come può esistere al mondo
(nel suo mondo di disperati che lottano ogni
secondo contro la morte incombente) qualcosa
che non ha ancora visto?
Quando, dopo pochi minuti, lo vede, sente
in bocca il rigurgito acido della nausea.
In ospedale, dopo un po' di tempo, si fa
il callo a tutto. Ad ogni forma di degenerazione,
di disperazione e di dolore. Ad ogni travestimento
che la morte sceglie per stupire sempre di
più il genere umano.
Quello che Roberta guarda disteso sulla barella
è per lei inedito, sconvolgente, diabolicamente
ipnotizzante. Un corpo scorticato e sfigurato
da centinaia di tagli. Una povera creatura
massacrata in un modo abietto e disumano.
L'arma usata dev'essere qualcosa di molto
simile ad una grossa lametta e colui che
ha infierito su quel disgraziato non ha risparmiato
il più piccolo centimetro quadrato della
pelle: mani, faccia, testa, occhi, piedi,
tutto appare tagliuzzato e scarnificato,
così che la misera tuta indossata dall'uomo
disteso sul lettino a pochi metri da Roberta
si presenta quasi come una seconda pelle
intrisa di sangue raggrumato e lacerata in
un numero incalcolabile di punti. Il pavimento
sotto il lettino di metallo su cui giace
il corpo ospita una pozzanghera rosacea che
si allarga a vista d'occhio. Ciò che rimane
del volto sembra appartenere ad un meticcio,
forse uno dei molti extracomunitari che arrancano
ai margini della metropoli. Il naso, colpito
da un taglio forse più violento degli altri,
si è spiaccicato al punto da apparire come
un'informe protuberanza fungosa. Le zone
dermatiche non offese dalla furia dai carnefici
si sono gonfiate come vesciche al punto estremo
di tensione e scollamento. E un penosissimo
gorgoglio semiliquido, proveniente dalla
laringe del disgraziato, denuncia che in
quel corpo violentato oltre ogni pensabile
misura la vita, pur ridotta ad un fuoco fatuo,
tenta ancora di vincere. La vita è presente,
e con lei un dolore fisico neppure immaginabile.
Il mondo si offusca per alcuni, terribili
istanti. Roberta si appoggia alla parete
alle sue spalle, alla ricerca di qualcosa
che le impedisca di cadere. In nessun catalogo
fotografico di patologia criminale, tra quelli
che ha sfogliato numerose volte durante gli
anni dell'università, ha mai visto tanta
ferocia.
Casini le si avvicina e le cinge le spalle.
Entrano altri due medici, un anestesista
e un patologo.
- Non so come.... E' ancora vivo, ma c'è
una setticemia in corso. E forse dell'altro...gli
strumenti con cui gli hanno fatto questo
sono stati intinti in qualche veleno. Stiamo
aspettando le analisi. Vieni, usciamo. Facciamo
lavorare i ragazzi.
Vanno nel suo ufficio. Gianmaria Casini,
medico traumatologo, ha soltanto tre anni
più di lei, ma pare già sulla quarantina.
E' uno di quei tipi nati vecchi, con pettinatura
fuori moda e tempie precocemente ingrigite.
Non ha mai fatto parte del flusso del tempo
che ha trasportato più d'una generazione
alla grande foce delle scelte storiche. Nulla
lo ha mai riguardato, né la musica, né le
lotte politiche ai tempi dell'università,
né l'impegno sociale. Neppure sesso e cocaina.
Quando entrano, lui accende le lampade fluorescenti
sul soffitto. L'ufficio di Casini lo rispecchia
in pieno, talmente asettico è al pubblico:
soltanto un lungo tavolo e poche sedie. Niente
alle pareti. Tutto ciò che veramente importava
si trova nei due computer a fianco della
scrivania.
- Chi è quel poveraccio? - chiese Roberta
con aria stanca.
- Non lo so, ma proviene dai Caraibi - rispose
Casini, sedendosi allo schermo e iniziando
a battere sui tasti - Almeno così dicono
i documenti in quella tuta. Da un posto che
si chiama Guana. In ogni modo sta arrivando
la polizia. Lo hanno trovato in una baracca
vicino all'autostrada per Genova. Ha perso
troppo sangue, credo. La pressione è ai minimi
termini e le vene sono quasi collassate.
E' un caso del tutto fuori norma. Ti fa venire
in mente qualcosa?
- No, per niente - risponde Roberta, accasciandosi
sulla sedia solitamente riservata ai pazienti
- Anzi, qualche film dell'orrore. Hai parlato
di veleno?
- Forse lamette intinte nel curaro. Lo scopriremo
sugli esiti. Ma quello che c'è di veramente
sconcertante sono le testimonianze di alcuni
testimoni. Il tipo era da solo dentro la
baracca. Tre suoi amici, o presunti tali,
si trovavano all'esterno. Hanno udito urlare.
Si precipitano dentro e lo vedono saltellare
come un'anguilla sul pavimento, con il sangue
che schizza da tutte le parti. Secondo loro,
non c'era nessuno.
- Se fossi un poliziotto, li metterei in
galera.
- Anch'io. Alla polizia hanno affermato che
è un rituale, un attacco psichico, come lo
chiamavano questi cultori del voodoo. Secondo
loro, qualcuno ha infierito con una lametta
su qualche figurina di cera.
- Sono balle.
- Ne sono convinto.
Roberta si alza. Casini non lo regge per
più di cinquanta secondi.
- Ti mando la cartella, appena è pronta -
le dice lui, mentre lei oltrepassa l'uscio
dello studio per rituffarsi nei corridoi
della sofferenza. E così, mentre il medico
torna a tasteggiare, con il suo volto che
riprende la normale, sterile espressione
di sempre, Roberta attraversa l'ala vecchia
dell'ospedale, la meno deprimente, quella
con meno odori disgustosi e dove riesce ad
imporsi un minimo di training autogeno con
il solo attraversamento dei corridoi. E'
distratta soltanto per pochi secondi da un
lettino con i lati cromati, spinto da un
giallognolo barelliere, sul quale un lenzuolo
gualcito suggerisce l'idea che qualcosa di
totalmente "fuori norma" (per dirla
con Casini) giaccia lì sotto. Poi una donna
molto anziana, avvolta in una vestaglia sfilacciata,
le sorride prima di cominciare a protestare
contro il nulla a causa di un ascensore fermo
per manutenzione. Roberta se ne ricorda vagamente:
la donna ha 82 anni ed è classificata come
terminale per una grave forma di tumore addominale.
Neppure l'ultimo centimetro del suo Sunset
Boulevard privato si dimostra esente dalla
più atroce delle sofferenze. Dio, non esisti!,
ha la tentazione di urlare sotto quelle volte
scrostate. Ma, dopo pochi metri dall'ascensore
bloccato, Roberta si ritrova di nuovo all'interno
dei suoi meravigliosi e fondamentali processi
autodistensivi. Solo dentro di lei quelli
riescono a diventare i "corridoi della
felicità ". Ma dura poco. Quando Roberta
torna al secondo piano, trova la cartella
clinica del paziente sfigurato: da questa
apprende che l'uomo ha 35 anni, si chiama
Paco Ignacio e qualcos'altro di non memorizzabile,
ed è stato seviziato con oltre 660 tagli
di lametta all'apparenza immersa nel curaro.
Solleva la testa e sbuffa irritata: un'emicrania
coi fiocchi sta guadagnando terreno a grandi
passi.
Più di seicentosessanta tagli! Quanto tempo
è durato quello stillicidio di morte? Un'eternità.
E che senso ha? Cristo, degradata, sporca
e di plastica, quella è pur sempre Milano.
A Milano nel 2001 non si può morire in quel
modo.
Morire? Il poveretto non è ancora morto.
Perché lo ritiene già scontato? Il medico...la
missione del medico, quel labirinto circolare
di cui spesso si perde la strada dell'uscita.
Il medico non deve mai dare per sicura la
perdita di un paziente, nemmeno quando ogni
più piccola cellula o la più inutile delle
terminazioni nervose sono devastate dall'inarrestabilità
del cancro.
Il cancro…Mio Dio,devo uscire da qui!
Riprende a leggere: due minuti dopo che lei
e Casini sono usciti da quell'anticamera
dell'incubo a cielo aperto, qualcuno ha aperto
un nuovo buco nel corpo dell'infelice, per
la precisione nella trachea, cercando d'inserirsi
tra il trecentonovantottesimo e il trecentonovantanovesimo
squarcio. Un altro "qualcuno" vi
ha infilato una cannula e l'anestesista ha
aperto una valvola, spingendo il gas in quei
polmoni forse ostruiti da altro sangue. Routine.
Routine. L'orrore è la routine.
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In una spoglia stanza del Pronto Soccorso
dell'ala sud il dottor Casini, asettico e
guantato, si accostò al tavolo dov'era adagiato
il martoriato corpo dell'uomo che veniva
dai Caraibi. Tre medici stavano tentando,
da oltre un'ora, di suturare e disinfettare
i tagli che avevano scorticato ogni millimetro
quadrato del disgraziato. Ma le lacerazioni
erano troppe e un misterioso veleno, forse
curaro, circolava nell'organismo dell'uomo
che si chiamava Paco Ignacio e aveva un cognome
poco memorizzabile. La lametta era penetrata
nelle carni per 666 volte: una fredda, lucida
follia di cui mai si sarebbe trovato un adeguato
precedente in alcun testo di criminologia.
Mentre Casini si dispose nell'attesa di un
paio di strumenti che dovevano uscire da
un sibilante sterilizzatore, il dottor Alberti,
l'anestesista, gli si avvicinò e mormorò:
- Costui se ne andrà, Gianmaria. Ma finirà
certamente sui libri. Questo è l'omicidio
rituale più orripilante che si sia mai visto.
E nel tuo ufficio ci sono tre poliziotti
che vogliono la fotocopia della cartella.
Per Casini era come se intorno a lui nessuno
stesse profferendo parola. Era assorto in
un'estatica contemplazione dell'orrore di
carne che giaceva sotto di lui. Sulla sua
destra gli strumenti di monitoraggio facevano
sentire i loro deboli, ma costanti segnali.
- Abbiamo trasfuso sangue di tipo O - continuò
Alberti nella convinzione che ogni suo verbo
giungesse regolarmente a destinazione - ma
ora dobbiamo metterlo sotto EEG, per vedere
se è effettivamente vivo. Da quel poco che
si riesce a capire, il cervello non dovrebbe
avere lesioni. Chi ha fatto questo, ha impugnato
una lametta apparentemente più grossa del
normale e l'ha adoprata come un rasoio. Tagli
profondi, ma...
- Ma inferti con una forza sovrumana - lo
interruppe Casini, quasi svegliandosi da
un leggero stato di trance - Una lametta
non riduce un setto nasale in quelle condizioni.
Incide la cartilagine, ma qui abbiamo l'osso
sbriciolato. In ogni caso diamoci da fare
con l'EEG.
Alberti si diresse verso il monitor dell'elettroencefalogramma.
E in quel momento Casini ebbe una strana
sensazione, come se qualcuno, invisibile
ma solido, gli succhiasse dalle labbra il
suo stesso respiro. Poi, in rapida sequenza,
la luce elettrica vacillò, la forma umana
sotto il lenzuolo insanguinato ebbe un sobbalzo
e il tracciato del battito cardiaco divenne
una linea continua, diffondendo nell'aria
un acuto segnale di morte.
- Gesù santissimo! - urlò Alberti - Che è
successo alla corrente?
- Non è la corrente - rispose Gianmaria Casini
- Semplicemente ci siamo persi l'uomo dei
Caraibi.
- E cosa c'entra la luce elettrica di Milano,
Gianmaria? Hai visto là fuori, per caso?
E' mancata la corrente per pochi secondi.
- Calmati, Alberti. Si tratta di una semplice
coincidenza.
- Cristo Santo, ma siete sicuri che si trattasse
di un extracomunitario? - chiese Della Valle,
il patologo che si stava già togliendo il
camice insanguinato in un piccolo vestibolo
che fungeva contemporaneamente da spogliatoio
e antibagno - Prima che giungeste voi, ha
mormorato solo due parole…Ma l'italiano era
perfetto.
- Quali parole?
- Benzina, prego…L'ha ripetuto più volte…Benzina,
prego.
Casini alzò le spalle. Il caso, a suo parere,
appariva chiarissimo. Alla polizia, in ogni
caso, l'onere di procedere nei confronti
di quei tre assassini che intendevano spacciarsi
per semplici testimoni.
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Giunti a questo punto, quasi alla fine, non
vi chiederò più se avete viaggiato da queste
parti. Le cose sono cambiate e nulla è più
come sembra nelle vicinanze di Roccanera.
Prima le stranezze accadevano di tanto in
tanto (Renato Pirri che attraversò la Palude
nel 1986 e non giunse mai a destinazione;
un autista senza nome che, due anni più tardi,
investì un sacchetto di cocaina e si convinse,
maledicendosi, di avere investito un bambino;
il camionista colombiano e il poeta di Bassavilla,
che videro pochi mesi fa qualcosa gravitare
sull'orizzonte e per questo persero il lume
degli occhi; il poeta che, prima di morire,
scrisse che "in pianura alberga la sventura"....),
oggi l'autostrada A 26 non ospita più automobilisti
assetati di brivido o speranzosi d'incontrare
l'erotico fantasma della strada.
Oggi, dopo quanto è successo poc'anzi (nell'Anno
delle Piccole Lame, secondo il calendario
dei Caboclos del Palo Mayombe), l'autostrada
A 26 è chiusa al buon senso, alla razionalità
e alla giustizia. Ed è invece aperta alla
follia, alle allucinazioni e al Male. Il
vento di pianura (che spesso soffia, e quando
capita, tu riesci a vedere le cose che di
solito sono nascoste dalla nebbia) porta
la notizia da un capo all'altro della terra
di coloro che viaggiano per professione o
per diletto. Si sussurra, ad esempio, di
tre uomini che sono scomparsi all'interno
di un autogrill deserto. Loro scomparsi e
le macchine regolarmente posteggiate all'esterno.
Scomparsi, ma dove? Sicuramente i Caboclos
lo sanno, ma non ne parlano. Il fatto è che
l'autogrill del magro e atterrito barista,
colui che raccontava ai viandanti la favola
dell'Angelo Sterminatore, si trova forse
(sì, il forse è da sottolineare) sul confine
tra due mondi paralleli. Il nostro, quello
più o meno normale, e l'altro, il cosiddetto
- in magia nera - "Medio Astrale",
laddove è più o meno risaputo che, se vai
a punzecchiare un corpo (appunto) astrale,
te lo ritrovi punzecchiato anche da questa
parte. E naturalmente sto parlando del corpo
vero, quello con la peluria, gli odori e
i vestiti. Punzecchiare? Sì, ho scritto una
spiritosaggine.
I Caboclos, però, lo sanno e sogghignano.
Dalla Milano da bere, dei tangentisti e della
sfavillante vita notturna, un vento di follia
proveniente dal Caribe si è mescolato con
il vento di pianura, quello che spazza le
nebbie dell'autostrada, provocando una sinergia
di morte (una cosa occulta che in Brasile
è chiamata la "linea dei cimiteri"
e che fa uscire, dai cervelli che li ospitano,
gli "Spiriti Ombra", spaventose
forme larvali che si nutrono di morte e sterco,
perché sterco è ciò che vogliono diventare),
una sinfonia di lacerante terrore che ha
imposto a tre casuali testimoni di assistere
ad un vero omicidio rituale, eseguito sui
"piani sottili".
E dove stanno ora quei tre? A Roccanera.
E dove, se no? Peccato che un paese con questo
nome non esista in alcuna carta geografica.
Ma, al momento, non si sono ancora accorti
dell'inghippo. Di sicuro sarà Faccia da Killer
a scoprirlo per primo.
- Ehi, mucchio d'ossa! - sbraiterà verso
il barista che nel frattempo sarà divenuto
verde marcio per la paura - Hai idea di ciò
che ci sta succedendo? E' come se non respirassi
più, checcazzo! Siamo per caso in apnea in
questo tuo fottutissimo bar? Mi sembra di
non avere più i polmoni! Ehi, amico, dico
a te! Ma…Il tuo fiato, cazzo, il tuo puzzolentissimo
fiato! NON LO SENTO PIU'!
Danilo Arona (Alessandria 1950) giornalista pubblicista
e direttore della rivista mensile "La
guida della notte", vademecum piemontese
dedicato agli usi e ai costumi del tempo
libero notturno tra Alessandria a Milano.
Al suo attivo: un incalcolabile numero di
articoli disseminati fra i giornali locali
e non (Il Piccolo di Alessandria, Notes,
La Stampa) e riviste varie (Robot, Aliens,
Cinema & Cinema, Focus e Primo Piano);
saggi sul cinema fantastico ("Guida
al fantacinema" per Gammalibri, "Guida
al cinema horror" per Ripostes, "Nuova
guida al fantacinema" – "La maschera,
la carne, il contagio" per Puntozero,
"Vien di notte l’Uomo Nero – Il cinema
di Stephen King" per Falsopiano) e saggi
sul fantastico sociale ("Tutte storie"
Costa & Nolan, "Satana ti vuole"
Corbaccio, "Possessione mediatica"
Marco Tropea Editore) e romanzi fanta-noir
a rigida ambientazione italiana ("La
penombra del gufo" e "Un brivido
sulla schiena del Drago" per Amnesia
e "La pianura fa paura" per l’Editoriale
AGP). Ha curato le versioni italiane di "Rock
Babilonia" di Gary Herman (Interno Giallo)
e di "Secondo natura" di James
e Phyllis Balch (Longanesi). Ha partecipato
per tre anni consecutivi sotto pseudonimo
al Premio Letterario per racconti fantastici
"Città di Montepulciano", classificandosi
sempre tra il 1° e il 2° posto, dimostrando
così che le metà oscure sono i migliori compagni
di viaggio per gli scrittori che vogliono
avventurarsi per le oscure vie della paura
e dell’inconscio.
Il suo romanzo "Rock" è disponibile
presso il sito www.horror.it e recentemente ha pubblicato "Il Vento
urla Mary" per PuntoZero.
"ROCK" di Danilo Arona (e-book in www.horror.it) |
"VIEN DI NOTTE L'UOMO NERO il cinema di Stephen King" di Danilo Arona (Edizioni Falsopiano) |