"L’OMBRA DEL DIO ALATO"
di Danilo Arona
(Tropea Editore, 2003)
"IL VENTO URLA MARY"
di Danilo Arona
(PuntoZero)


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ROCCANERA
di DANILO ARONA



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"Tra un essere umano e un fantasma la sola differenza è il respiro".
(LANTERNE ROSSE, Zhang Yimou)
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Avete già viaggiato da queste parti?
Io credo proprio di sì.
Se siete degli automobilisti di professione, se la vostra settimanale aspirazione è la tavola smeraldina del mare, se avete una faccia un po' così, come quelli di una certa canzone, prima di andare a Genova, allora siete già passati da queste parti.
Non vi ricordate? Non fa niente. Io sono qui per rinfrescarvi la memoria. Se lasciate Bassavilla alle vostre spalle, oltrepassando San Michele, e prendete il raccordo per l'autostrada A 26, attraverserete la conca della Moira. Un luogo bizzarro, dove persino la natura sembra senza pace. Le colline vi appaiono come parallelepipedi squadrati da uno scultore ubriaco e i contadini della zona, fino a pochi anni fa, sostenevano che la Splorcia usciva di notte, percorrendo sentieri poco battuti ed emettendo fiochi vagiti simili a quelli di una bambina piccola. Per vostra fortuna la Moira non durerà che una decina di chilometri. Ma è uno sbaglio, una volta che si è fuori, cedere alla tentazione di respirare di sollievo. Infatti, si comincia a percorrere la pianura, dove l'aria inizia a corrompersi di esalazioni miasmatiche e furiose folate di vento vi costringono a tenere ben salde le mani sul volante. Vi state avvicinando alla Palude in Penombra, quella zona da incubo che i Latini avevano soprannominato "Fauces quibus Transpadaniam aditur".
Che significa? Bella domanda, soprattutto se, come la maggior parte dei guidatori per vocazione, avete fretta di giungere a destinazione e non vi passa minimamente per la testa di bloccare l'auto in corsia d'emergenza per scendere a sbirciare il panorama.
Però...Però tanti che sono passati di qui e non sono mai giunti alla meta nutrivano la stessa convinzione. Prendete, ad esempio, Renato Pirri, che una notte del 1986 decise di attraversare la Palude nonostante l'infuriare di un temporale mai visto. Oppure quel viaggiatore senza nome che due anni dopo, a qualche chilometro dalla stazione di servizio fiancheggiante Roccanera, investì un fagotto bianchiccio e si convinse di avere travolto un bambino. O ancora un camionista colombiano di nome Jacinto che sostò in corsia d'emergenza prima del ponte sulla Palude e vide sulle colline lontane all'orizzonte qualcosa che gli fece perdere improvvisamente la ragione.
Sono soltanto tre esempi. Ma nessuno di costoro ha mai raggiunto la propria destinazione. Sono tre, ma potrei parlarvi di cento. Storie di viaggio, di fredde e interminabili notti passate su automobili che diventano strane come non le avete mai sentite prima, con trasmissioni radiofoniche che provengono in diretta dal passato, con nebbie e bagliori che scaturiscono dal nulla.
Sì, dopo la Moira, vicino a Roccanera non c'è più pace. Si può tranquillamente aver paura e non vergognarsene. Le uniche e ingannevoli oasi in questo deserto di terrore sono le stazioni di servizio che non chiudono mai, dove la gente fatica a comunicare e i primi ad essere sospettati di ogni possibile misfatto sono gli stessi gestori che ti guardano male non appena entri per farti un caffè caldo. Ma puoi dar loro torto? Se ne stanno lì dentro ogni giorno e ogni notte, attendendo con ansia il cambio e sperando che l'autostrada non vomiti le proprie creature proprio durante il loro turno di servizio.
Allora, avete già viaggiato da queste parti?
No?
Scusate, ma non siete sinceri. Il fatto è che un'autostrada A 26 si trova in ogni angolo del mondo. E' impossibile che non la riconosciate. E' inverosimile che luoghi del genere esistano solo qui da noi.
Pensate, alcuni mesi fa uno sconosciuto poeta transitò di qui e, fermatosi per bere un caffè alla stazione di servizio di Roccanera, sopra un foglio di notes, in fretta e furia, vergò le seguenti parole:
"Ho paura, in pianura, ho paura. I fiumi, i fossati, le rogge esalano miasmi mortiferi. I pesci sono strani, come impazziti. Gli uccelli volano in direzioni inusuali. Una nebbia invisibile avvolge le cose più belle, fattesi radiose, glaciali, impotenti. Morti subdole e indecifrabili si aggirano tra la gente. La pianura, la pianura è una iattura. La sciagura avvelena la pianura. In pianura alberga la sventura. La pianura, la pianura è una lordura. Le città di pianura sono cupe e risentite ed emettono brontolii laceranti e suoni spaventevoli. La pianura circonda ormai l'altura. C'è sozzura in pianura, c'è sozzura. E premura e calura e io ho sonno e ho paura. E' una selva selvaggia, la pianura: è una selva oscura".
Lo sconosciuto poeta abbandonò il foglio sul tavolo e uscì dall'autogrill con gli occhi febbricitanti. Morì uscendo di strada, pochi chilometri dopo Roccanera.
Non mentite. Ognuno di voi ha terrore di addormentarsi sulle autostrade in pianura. Ognuno di voi.
Ognuno di noi.
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Erano da poco trascorse le due quando l'uomo scese dalla macchina. Aveva posteggiato sotto una tettoia di cemento posta di lato al bar della stazione di servizio e, prima di togliere la chiave dal quadro, si era stiracchiato e aveva sbadigliato sguaiatamente. Un uomo senza nome, involucro di carne e di sangue e sintesi simbolica di ogni viaggiatore di pianura, ma non per questo estraneo all'umana esigenza della fame e della sete. Così, dopo aver percorso i pochi metri che lo separavano dall'ingresso del bar, lui si sorprese a pregustare il caldo sapore di un buon caffè doppio, unica taumaturgia per quella giornata fredda e disumana.
Spinse la maniglia della porta ed entrò. Non vide nessuno, il che concordava con il fatto che di fuori aveva intravisto solo un'automobile, probabilmente di proprietà di colui che gestiva la stazione. Le luci di servizio erano per buona parte spente, contribuendo ad aumentare la pesante atmosfera di squallore. Dietro il banco, un rinsecchito barista, indaffarato a lucidare il repertorio dei bicchieri in dotazione, osservò il cliente con un'espressione di sgomento e non lo salutò. Allora l'uomo senza nome si avvicinò al bar e chiese in tono cupo:
- Un caffè, per favore.
Il magro si mise al lavoro. Contemporaneamente all'esterno un motore tossicchiò due o tre volte e si spense. Un secondo viaggiatore aveva scelto l'autogrill di Roccanera per rifocillarsi e un'apparente sensazione di sollievo ammorbidì i tirati lineamenti del barista. Il nuovo venuto fece una specie d'irruzione, spalancando la porta in malo modo e trascinandosi dietro una mulinante spolverata di nevischio. Era un tipo grasso e tarchiato, con una faccia tondeggiante piena di venuzze violacee. E dal suo modo di camminare s'intuiva che era nato, cresciuto e probabilmente destinato a morire in campagna.
- Santo cielo! - urlò quando giunse accanto al banco - Ma che razza di posto è questo? Ho preso l'autostrada a Vignale e il termometro in macchina segnava dieci gradi. Adesso, dopo mezz'ora di strada, siamo a meno sei.
Né l'uomo senza nome né il barista gli prestarono l'attenzione di cui il grasso si riteneva degno. Allora quello proseguì, dando ancor più volume alla sua fin troppo squillante voce:
- Dammi una dose doppia di grappa, amico. Non c'è niente di meglio per scaldarsi le ossa in una giornata come questa.
- Sì ...Si è persino modificata la temperatura da un mese a questa parte - annuì il barista con voce affannosa - Vi ci va un po' della mia dinamite.
E tirò fuori da un cassetto non visibile dai due forestieri una bottiglia senza etichetta. Al primo cliente, più giovane del secondo, non era sfuggito che il barista, ora non più da solo, si stava rilassando e riacquistando persino un po' di colorito. Giunse il caffè, fumante e con un ottimo aroma. L'uomo senza nome s'impossessò della tazzina. Il barista versò due dita dell'intruglio che aveva battezzato "dinamite" in un bicchierino da liquore.
- E adesso tutto d'un fiato. Poi mi dirà se sente ancora freddo.
L'uomo grasso e ciarliero sembrò accigliarsi. La mossa del barista aveva tutta l'aria di una stramba sfida. E ancora più strano gli appariva il bar di quella stazione di servizio. L'uomo dietro il banco pareva uno sconvolto fin dalla nascita, gli occhi sporgenti dalle orbite e qualche malattia epatica in agguato. Il tipo che stava sorseggiando il caffè aveva l'aria un killer professionista, la faccia di chi aveva già visto tutto e intendeva procedere oltre, giubbotto e pantaloni di pelle nera (ma non sentiva freddo?) e un'età che non si riusciva a definire. Afferrò comunque il bicchierino che il barista aveva appoggiato sul banco, ben deciso a far buon viso a cattivo gioco e trangugiò il liquido bianco, qualcosa che alla vista e dall'odore si dimostrava un parente prossimo della grappa richiesta, sotto gli occhi lievemente ironici dell'altro cliente.
"Tutto d'un fiato", gli aveva suggerito il barista.
Lo fece.
Dapprima fu come se una fulminea colata lavica gli sezionasse l'organismo dall'inizio della laringe sino alla fine del colon. Quindi si accorse dell'aumento repentino della temperatura interna. Avvertì il viso congestionarglisi con gli occhi che si chiudevano per un improvviso bruciore. E non poté fare a meno di cominciare a tossire. Quello che fino ad un istante prima assomigliava a un killer sorrise bonariamente e depose la tazzina sul banco. Il barista restò impassibile mentre lui si contorceva come se fosse sul punto di vomitare. Quando l'accesso si calmò, riuscì soltanto a chiedere:
- Santo cielo, che roba era?
Il barista alzò le spalle:
- Specialità del luogo. Roccanera è un posto di duri.
Il primo viaggiatore portò la mano destra verso la tasca interna del giubbotto, come per pagare e quindi rituffarsi nell'uggiosa oscurità di un pomeriggio in pianura. Ma bloccò quel movimento a metà strada, come colpito da un'ispirazione, e chiese al barista, adesso meno inquieto di prima:
- Che intendeva dire poco fa?
L'uomo dietro il banco si limitò a guardarlo. Sembrava non avere capito.
- Prima lei ha detto "Si è persino modificata la temperatura da un mese a questa parte". Che significa?
Il barista sospirò. Quindi rispose:
- Offre la casa, signori. A tutti e due. Non sono uno che dà consigli, però io, al vostro posto, non avrei dubbi. Verso sud, dopo la Palude in Penombra, il clima cambia e tutto ritorna ad essere più normale. Andateci.
- Cristo, amico - bofonchiò l'armadio umano, all'interno del quale la "dinamite" stava producendo i suoi primi, stimolanti effetti - Sembri l'introduzione di quei telefilm americani, come si chiamavano? Ai confini della realtà, vero? Se ti deprime tanto gestire un bar in questo posto, perché non molli tutto e ti cerchi un altro lavoro? Magari dalle mie parti, sulla riviera di Romagna, dove qualche barista riesce ancora a ridere?
"Un idiota piovuto da Rimini" pensò il primo cliente. Invece il barista replicò, mettendo nuovamente al lavoro la macchina del caffè. Evidentemente voleva approfittarne pure lui. Forse, pensò ancora l'uomo in pelle nera, gli avrebbe più giovato una camomilla.
- Già, se potessi andarmene, lo farei. Ma qui lo stipendio è buono. E poi non c'è da fare gli schizzinosi. Il lavoro non si può rifiutare. Neppure a Roccanera.
E, quando pronunciò il nome, lo sillabò come se stesse profferendo un'ingiuria velenosa, come se lanciasse un mortale malocchio contro il nemico più odiato. Al punto che il giovane ne avvertì, nonostante gli oltre due metri di distanza, il sentore rancido e sgradevole del fiato fetido.
- Qual è il problema?
Il barista si voltò verso il primo cliente che aveva formulato la domanda. Lo squadrò e si convinse di trovarsi di fronte a uno di quelli che andavano al nocciolo, senza inutili preamboli. Ciò che forse lo seccava non era il dovergli dare una risposta (a quel punto obbligatoria, dato che lui stesso aveva quasi volontariamente attizzato il discorso), ma il sentir uscire dalle proprie labbra parole che persino in un cinema avrebbero fatto ridere chiunque.
- L'angelo - si decise dopo lunghi e faticosi secondi - L'angelo sterminatore...Lo chiamano così a Roccanera.
Il primo piegò le labbra. Come in un sogghigno amaro, ma senza per questo esprimere un giudizio. Il secondo avvertì uno sgradevole gorgoglio nel profondo delle viscere. Colpa di quella robaccia, pensò, forse è meglio che cerchi la toilette.
- E' venuto giù dal cielo un mese fa. Dicono che si sia aperto un occhio nel cielo e che lui sia arrivato. Lo chiamano così dal titolo di un vecchio film in cui i personaggi non riuscivano più a uscire dal salone di una grande casa, come se una forza misteriosa li bloccasse lì senza un motivo apparente. E' da un mese che quelli del paese e dei dintorni non escono più la notte. Se qualcuno li chiama al telefono, loro rispondono soltanto che "non possono", che qualcosa di fuori li blocca dentro la loro casa. Come se un'impenetrabile e infrangibile campana di vetro li avesse imprigionati al calare delle tenebre.
- Oh, Gesù ! - sghignazzò il bevitore - Stanno morendo di paura. E magari per un semplice meteorite. Dì un po' ...Fai un caffè anche a me, magari con un goccetto di quella magia che mi hai appena fatto assaggiare. Comunque io ci credo. Ho visto un sacco di volte cose strane piovere dal cielo. Sì, io ci credo ai marziani.
Fece una pausa e girò lo sguardo verso il cliente taciturno.
- E poi che volete che siano i marziani in confronto alle scorregge dei dinosauri?
Nessuno, né il barista né l'uomo in pelle, sembrò stupirsi per quella considerazione. Allora l'omone continuò il suo monologo, sovreccitato per il distillato che gli orbitava nelle viscere.
- Avete letto i giornali di ieri? A caratteri cubitali sulle prime pagine. Finalmente scoperta la vera causa dell'effetto serra. Sono stati i peti dei dinosauri un milione di anni fa. Centinaia e centinaia di bestie grosse quanto la galleria del Turchino che inquinano l'atmosfera vergine di un pianeta appena nato. Un marziano che casca nella pianura padana è poca cosa se paragonato ad una notizia come questa.
L'altro lo ignorò. Altrettanto fece il barista, che riprese a esporre il tarlo che lo rodeva, non prima di essersi probabilmente chiesto perché Dio avesse sentito il bisogno di creare degli imbecilli come quello, gradassi che viaggiavano sull'auto strada, chiedevano grappini per scaldarsi le ossa e, dopo trenta secondi, già sbronzi cotti tenevano conferenze sui borborigmi degli animali preistorici.
- Paura, certo...L'angelo sterminatore, a Roccanera lo dicono di mattina quando escono di casa, sembra un uomo, a volte una donna, altre una bestia. Lui..lui cambia sempre. Sì, ha ragione lei. E' proprio come in quei telefilm americani.
- Tu l'hai mai visto? - gli chiese il cliente più giovane, passando con naturalezza al "tu".
- No. Mi sono sufficienti gli effetti che produce. Guarda là fuori, guardati attorno. Fatti un giro su a Roccanera, se hai dieci minuti da perdere e non tieni molto alla vita. Guarda me!
- Lo sto facendo.
- Ci sono notti nelle quali non arriva nessuno. Il vento fischia e ulula attraverso le fessure dei vetri. A volte, come ieri notte, mi tocca anche il doppio turno alla pompa. Se non transita qualche anima buona, non ti rimane che fare i conti con questa solitudine, con questi mille rumori che sembrano provenire dall'altro mondo, con le luci di un maledetto cimitero che è stato costruito proprio di fianco l'autostrada. E da un mese a questa parte è arrivato lui.
- Andiamo - s'intromise il campagnolo diretto in Romagna - Se non ha mai sterminato qualcuno, neppure se lo merita il soprannome che gli avete dato! Che cosa fa di così terrorizzante per tenere tutta la gente in casa?
"Comunque l'idiota non ha torto" pensò l'uomo senza nome, mentre il barista metteva un'altra tazza di caffè sul piattino.
- Io...io non lo so, però…- rispose il barista, allungando il collo come se fosse sul punto di profferire un grande e terribile segreto-...Però Gabriele, il benzinaio che tre volte la settimana fa il turno di notte e mi tiene, se non altro, un po' di compagnia, Gabriele...dicevo...
I due clienti si sporsero a loro volta verso l'uomo, che ad ambedue non pareva possedere quel minimo di lucidità necessaria per svolgere un lavoro sulla A 26. La scena appariva grottesca. Se ne poteva quasi dedurre che due creduloni, transitati nella pianura a causa degli oscuri intrecci del destino, abboccassero con fanciullesca ingenuità alle panzane di un pazzo, completamente alienato dagli umani comportamenti per colpa della solitudine o di qualche misteriosa tara genetica.
- Gabriele lo ha visto - proseguì il barista - Lo ha visto almeno tre volte. Volete che lo descriva?
Al silente assenso dei due clienti, la pausa del barista fu brevissima. Quanto bastava per inspirare profondamente e a pieni polmoni. Poi fuori, tutto d'un fiato:
- La prima volta fu poche ore dopo la caduta di quella luce alla periferia di Roccanera. Era una donna, una donna piuttosto anziana alla guida di un'auto degli anni Trenta. Gabriele non ci fece caso perché non poteva ancora collegarla al fenomeno. Fu però colpito dallo strano comportamento. Lei avvicinò lentamente la vettura al distributore come per fare rifornimento. Mentre lui si dirigeva verso la pompa, lei lo guardò intensamente e fuggì via, premendo a tavoletta sull'acceleratore. Io vidi la scena dal bar con la coda dell'occhio, ma Gabriele ebbe la possibilità d'imprimersi nella memoria il volto della donna. Una settimana dopo, al turno di notte, saranno state sì e no le tre, arrivò un'altra macchina, anche questa non comune. Una Morgan decappottabile con a bordo un uomo piuttosto giovane e un buffo cilindro nero in testa. Io dormivo nello stanzino qui dietro e non vidi proprio nulla, ma Gabriele questa volta venne e svegliarmi e mi parve spaventato. Diceva che il tipo si era comportato esattamente come l'anziana donna di sette giorni prima, avvicinando la macchina, guardandolo in modo strano e poi fuggendo via. Ma ciò che più lo aveva terrorizzato consisteva nel fatto che quell'uomo aveva gli stessi, identici lineamenti della donna, come un figlio somigliantissimo. Oppure un gemello, a parte la grande differenza di età. Gabriele mi contagiò con la sua paura. Da qualche giorno arrivavano sin qui, da Roccanera, le voci sull'angelo sterminatore. Nessuno si azzardava ad uscire più la notte, perché l'essere venuto dallo spazio, dicevano, percorreva le vie del paese. Molti asserivano di averlo visto. Ma nessuno ne dava una descrizione uguale all'altra. Un uomo con lo sguardo carico di odio, una donna di un'altra epoca, una ragazza bionda e molto bella, altre volte una strana bestia ingobbita e urlante. E ogni apparizione a bordo di un'automobile diversa. Insomma, Gabriele era convinto che quelle due persone non fossero altro che due manifestazioni dell'angelo. E già quelli di Roccanera sostenevano che l'angelo possedeva il potere di assumere tutti gli aspetti che voleva. Dopo pochi giorni, avvenne la terza apparizione. Da due notti ero solo. Gabriele venne per uno straordinario e io mi sentii un po' sollevato, perché tutte quelle voci, quelle chiacchiere che anch'io mi sforzavo di ritenere un mucchio di stupidaggini uscite dal cervello bacato di quattro bifolchi, mi avevano per la verità messo alle corde. Mi ricordo che ci eravamo appena fatti un bicchierino di "dinamite" giusto per scaldarci, che sentimmo il rumore di un potente motore provenire dal buio, là fuori. Gabriele andò vicino alla porta e appiattì il muso contro il vetro per guardare. Ma, nonostante il tempo non fosse proprio dei peggiori, non vide proprio un bel niente. "Ma non c'è nessuno!" gridò. "Eppure non lo senti anche tu il motore?" mi chiese con una voce che tradiva la paura più vera che avessi mai visto. Uscii dal bancone e lo raggiunsi. E anch'io guardai, senza scorgere nulla. Ma dall'esterno arrivavano chiaramente i furiosi colpi d'acceleratore di una macchina di grossa cilindrata. Non sapevo che dire. L'unica spiegazione era che qualcuno, a fari spenti, sulla corsia d'entrata al posteggio della stazione, si divertisse alle nostre spalle, ben conoscendo lo stato in cui ci trovavamo da quando quella cosa era piovuta giù dal cielo. Poi...Poi apparve. Oh, non chiedetemi come possa affermare con tutta questa sicurezza che si trattasse di lui. Lo so adesso come lo sapevo quella notte. Era lui. Solo che si mostrava a noi...nelle sembianze di un poliziotto. Capite? A me venne in mente che forse l'angelo riusciva a captare, chissà se dal nostro inconscio o da quello degli abitanti di Roccanera, delle immagini su cui modellare il proprio aspetto e trarci così in inganno. Non trovavo altre spiegazioni, non riuscirei neppure a descrivere il meccanismo di questa sorta di furto, ma sapevo che funzionava così. Era un poliziotto, con la giacca blu, i pantaloni azzurri e la fondina con la pistola....Ma Gabriele lo disse subito, mentre quello avanzava lentamente sulla stradina verso la stazione di servizio: E' LUI, E' LA STESSA FACCIA!
Il barista s'interruppe. Una breve pausa nella quale apparve ai due viaggiatori più pallido e più magro di qualche minuto prima. Poi ricominciò sottovoce:
- Per Gabriele non esistevano dubbi. E neppure per me, anche se non lo avevo mai visto. Persino da quella notevole distanza, ci saranno stati almeno un centinaio di metri dall'ingresso del bar all'imboccatura dell'autostrada, potevo scorgere il luccichio torvo e giallastro di quegli occhi....Una luce che non poteva essere riflessa, perché, tranne la nostra piuttosto scarsa all'interno del bar, non esistevano intorno altre fonti d'illuminazione. Occhi che non erano umani, che non erano mai stati umani, nonostante le fattezze di quell'individuo che si stava dirigendo con lentezza verso di noi. Non un uomo. Non di questo mondo. Lui era quella luce bianchissima sgorgata venti giorni prima da un occhio gigantesco che si era aperto nel cielo e precipitata alla periferia di Roccanera. Una cosa che, non si sa come, cambiava aspetto tutte le notti.
- L'ho già vista in un telefilm americano questa storia - sbottò l'uomo grasso con voce truce - In ogni caso sarà meglio che mi raddoppi la correzione nel caffè, ragazzo. Fa un freddo terribile nel tuo bar.
- Quando arrivò vicino alla pompa di benzina - continuò il barista, versando meccanicamente la "dinamite" nella tazzina del caffè appena sceso - lui voltò lo sguardo nella direzione da cui era giunto e da dove continuavano a manifestarsi i rumori di un motore. Dopo alcuni secondi, una bellissima Jaguar rossa fiammante venne avanti, bucando il buio e fuoriuscendo dalla linea scura che delimitava il nostro angolo di visuale. Oh, non poteva certo definirsi una guida decente. Veniva avanti, sobbalzando e sbandando come se il guidatore fosse sbronzo fradicio o appena colpito da infarto. Il fatto è che....non c'era nessuno al volante. Quella macchina si stava comportando come un cagnolino, quando il padrone lo chiama. E intendeva raggiungere il poliziotto fermo vicino alla pompa. Il rombo del motore era affannoso e per un pelo la macchina non colpì la colonnina dell'insegna. Poi, negli ultimi metri, la guida si assestò. La Jaguar rallentò per fermarsi con precisione quasi millimetrica tra la pompa della Super e il poliziotto. E allora...allora Gabriele mi guardò con una faccia terribile e urlò Vuol far benzina! Hai capito? Quella COSA vuol far benzina! Gabriele non sbagliava. Il poliziotto, guardando verso di noi, stava aprendo la bocca molto lentamente e con una mano faceva segni inequivocabili vicino all'imboccatura di un distributore. Io avevo le chiavi del bar in tasca e non persi tempo. Le infilai nella toppa e ci chiudemmo dentro...anche se uno che poteva far camminare una Jaguar con la forza del pensiero non si sarebbe minimamente preoccupato di una porta a vetri chiusa dall'interno.
Il barista si arrestò come per prendere di nuovo fiato. Il cliente in giubbotto di pelle ebbe l'impressione che la paura e la preoccupazione di qualche minuto prima fossero sul punto di ripresentarsi in doppia razione. Forse la causa andava ricercata nel fatto che, da lì a poco, i due viaggiatori di pianura, così diversi fra loro ma così assolutamente indispensabili all'equilibrio nervoso del pallidissimo barista, avrebbero imboccato la porta e ripreso il loro viaggio.
- E poi? Che altro avete visto? - chiese il contadino romagnolo.
- Lui tese le braccia un'ultima volta verso di noi, quasi come per una supplica. E sillabò in maniera comprensibile, nono stante non avessimo la possibilità di udirlo, BENZINA, PREGO. Quindi, costatato che nessuno di noi due si azzardava ad uscire, salì sulla Jaguar. Non prima di averci rivolto un ultimo, terribile sguardo. Con la luce di quegli occhi che per alcuni secondi raggiunsero un'intensità infernale. E, sgommando fino al punto di far scintille con le ruote, si allontanò in direzione della Palude in Penombra. Da allora nessuno l'ha più visto. Ma quelli di Roccanera di notte non escono ancora e ci vorrà parecchio tempo prima che smettano d'avere paura.
- E tu? - chiese il più giovane.
- Come?
- Intendo dire....Nelle notti in cui devi sobbarcarti il doppio turno alla pompa, che fai? Esci per rifornire gli automobilisti o li mandi a quel paese?
Un lungo istante di totale smarrimento da parte del barista. La domanda, piena di logico buonsenso, del giovanotto lo stava mettendo in apparente crisi.
- Io...Certo, devo uscire. Per forza.
- Visto? - continuò l'altro, accentuando l'ironia del suo sorriso un po' felino - Esci. Appunto. Nessuna forza misteriosa riesce a bloccarti qui dentro, perché possiedi una solida ragione per uscire. L'angelo sterminatore, come lo chiami, non ha alcun effetto su di te, se devi andare là fuori a svolgere il tuo lavoro.
- E allora?
- Allora è semplice, amico. Io adesso esco, vado in macchina e mi piazzo là, davanti alla pompa. Ti dirò cortesemente e molto lentamente, perché tu da dietro il tuo banco possa capire: benzina, prego! E tu uscirai....Per la ragione più logica del mondo: sono a secco.
- Aaaahhh! Che mi venga un colpo! - rumoreggiò l'altro cliente con la lingua sempre più spessa - E buonanotte agli angeli sterminatori.
Il barista mutò di colpo fisionomia. Il terrore gli si dipinse sul volto scavato. I suoi occhi guardavano verso l'area di parcheggio oltre la finestra panoramica. Allora si voltarono anche i due clienti, puntando lo sguardo in direzione del cielo basso di pianura. E ambedue iniziarono a boccheggiare, come se qualcuno li stesse prendendo a calci nello stomaco, o poco più sotto
Un occhio giallo, ellittico e luminoso si era aperto tra le oscure nubi che si estendevano da Roccanera fino alle porte di Milano. E qualcosa stava precipitando verso terra, fendendo il grigiore del giorno. Era un corpo giallastro e incandescente che si lasciava dietro una scia di rossi lapilli ben decifrabili nell'uggioso pomeriggio.
La luce proveniente dal cielo si schiantò senza il minimo rumore sul campo adiacente l'autostrada, a qualche decina di metri dalla stazione di servizio. Senza fumo né terra scagliata d'intorno. Ma i meteoriti molli (i tre uomini all'interno del bar ne erano vagamente coscienti), i corpi celesti che affondano dolcemente, quasi facendosi assorbire, nell'argilla di pianura, non potevano esistere.
Il grasso, sconvolto dalla paura, scattò in avanti verso la vetrata. Nel farlo, un movimento scoordinato del braccio colpì in pieno la zuccheriera e la polvere bianca si sparse in giro sul pavimento. Faccia da Killer, perduto il sorriso felino, lo seguì con apparente calma, mentre lo scheletrico barista rimase impietrito dietro il bancone, quasi rassegnato all'ineluttabilità di un orrore che doveva ancora manifestarsi.
Nella zona dell'impatto il cielo si rischiarò come per un'aurora boreale. Poi l'avara argilla di pianura si mosse come se nelle immediate profondità la scagliosa schiena di un antico drago spingesse le sue verminose aderenze contro gli strati di una terra ingrata e marcescente.
Da dietro il vetro, i due avventori videro una forma pressappoco umana sortire dalla zolla. Da quella distanza il giovane e il grasso non riuscivano ancora a distinguere che si trattava di un uomo nudo, dalla carnagione non troppo scura (il colore tipico dei nativi del Caribe) e il fisico possente ricoperto di lombrichi, di terriccio e di una vischiosa sostanza dall'aspetto e dall'odore nauseabondi.
Ciò che vedevano era però sufficiente ad esprimere sinteticamente un chiaro concetto: la terra che fiancheggiava l'autostrada stava partorendo uno zombie annerito proprio dal punto in cui era precipitato il bizzarro meteorite. Dopo i racconti del barista su angeli sterminatori e automobili che viaggiavano senz'autista, lo spettacolo in questione era proprio tutto ciò che ai due occorre va per rinfrancare l'umore e conciliare la logica con la ragione, visto che il senso della realtà nei pressi di Roccanera andava vieppiù sgretolandosi.
Gli occhi del grasso, fino a qualche istante prima due fessure intorbidite dalla "dinamite", si dilatarono per il terrore. La bocca si trasformò in una molle vescica pendula. L'uomo riuscì soltanto a gorgogliare Scappiamo! E si avviò verso l'uscio. Faccia da Killer lo osservò gelidamente, mentre il barista, completamente paralizzato, rimaneva sempre bloccato nella sua posizione altamente professionale, come se zombi, abitatori di altre dimensioni e falsi poliziotti a secco di benzina fossero sul punto di occupare gioiosamente ogni tavolino di quel posto di ristoro per consumare una sana merenda di campagna. Il romagnolo, con il panico ormai dilagante in ogni millimetro quadrato del flaccido corpo, spalancò la porta per percorrere a larghissime falcate (per quanto permesso dalle sue ridicole condizioni fisiche) i pochi metri che lo separavano da una chiassosa Toyota color amaranto. Gli altri due lo videro bloccarsi sulla soglia come sull'orlo di un precipizio, il piede fermo a mezz'aria e il sudaticcio collo bovino sporgente verso l'esterno. Quindi l'uomo si ritrasse, come se al posto del ciottolato e della ghiaia della piazzola fosse presente un lago di velenose sabbie mobili. Si voltò verso il giovane e biascicò soltanto:
- Non ci riesco....Non ci riesco...
L'uomo con il sorriso da gatto scrollò la testa e si rabbuiò ulteriormente. Senza perdere di vista quella rappresentazione unica che si stava tenendo dalla parte opposta dell'autostrada a pochi centimetri dal fossato di scolo (le tenebre che guadagnavano terreno più rapidamente del normale, una cupola di luce aliena sul campo dov'era scomparsa la "cosa" e infine un negro nudo e muscoloso che si avvicinava alla stazione di servizio con gli occhi dell'identico colore della luce aliena!), raggiunse il grasso sulla soglia e fece per portarsi all'esterno. Ma...
- TU NON HAI VOLUTO FARMI FINIRE, AMICO! - iniziò a chiocciare istericamente il barista - HAI PENSATO DI ESSERE IL PIU' FURBO E HAI VOLUTO PRENDERMI PER I FONDELLI! TE LA REGALO TUTTA LA BENZINA! PROVACI, AMICO...VAI LA' FUORI! MUOVITI!
Il giovanottone sogghignò. Il terrore delle donnette di pianura e delle vecchie tate che lasciavano le tavole imbandite nella notte di Ognissanti non era faccenda che lo riguardava. Il barista era uno schizzato e il grasso si ritrovava sotto spirito come certe ciliegie al maraschino di sua conoscenza. Il meteorite ed il negro nudo che aveva appena posto il suo piede sull'asfalto viscido dell'altra corsia di marcia (a proposito, ma non passava mai nessuno da quelle parti? Dov'erano le altre vetture? I gitanti, i camionisti, i rappresentanti di commercio?) erano certamente fatti anomali, sensazionali, fuori della norma. Ma tutto ha una spiegazione, si disse mentre spingeva il suo piede oltre l'uscita. E....

(tutto ha una spiegazione)

Sentì la mente scivolare via.
Avvertì che lo smisurato controllo che riusciva normalmente ad esercitare su se stesso adesso non poteva far altro che venir meno.
Ed il muro privato della sua solidità si andava riempiendo di crepe ragnatelose e zigzaganti. La gamba destra non ubbidiva all'impulso cerebrale di procedere in direzione dell'auto posteggiata sotto la tettoia di cemento.
Sul lato destro del bar, cammina lentamente, senza fretta e senza panico, quel negro nudo ricoperto di schiuma di birra ha l'aria di essere un osso duro, c'è tutto il tempo per infilare la chiave e far rifornimento alla stazione successiva: BENZINA, PREGO...IL PIENO, PER FAVORE... Guardò l'arto, come se fosse una creatura dotata di vita propria. Lo spinse e lui ebbe l'illusione che una gamba fantasma, una sola, stesse percorrendo con faticosa lentezza il cammino verso la tettoia.
Ma non era così: il comando che proveniva dal lato destro del cervello s'infrangeva contro lo stivale di granito in cui la gamba pareva rinchiusa, del tutto insensibile a sollecitazioni e a dolore. Il comando si visualizzava poi nell'ansia di anticipazione: un altro Faccia da Killer camminava spavaldamente davanti a lui, intenzionato senza eccessive preoccupazioni a riprendere il suo viaggio, ma la figura si dissolveva come un ologramma morente non appena giungeva vicino alle pompe. E lui, in carne e ossa, si ritrovava sempre lì, fermo sulla soglia, come un podista pronto a scattare per la grande corsa dei cento metri con record mondiale in palio, nell'attesa perpetua di un colpo di pistola che non giungeva mai. Ma, per quanto si sforzasse, lo scatto al momento era stato rimandato.
Fece qualche passo indietro e finalmente riconobbe la vitale e unica sensazione che, sin dai primi vagiti faceva camminare l'umanità verso il big bang dell'olocausto finale: la paura lo attanagliò all'altezza dello sterno con un rigurgito acido e un conato disgustoso gli invase la bocca.
- Non si esce, amico - disse il barista con un'espressione di totale rassegnazione, che lo rese d'un tratto saggio ed equilibrato - A Roccanera non escono la notte. Ma da qui non si esce MAI da quando è caduto l'angelo sterminatore.
- E quello? - urlò il grasso, sbattendo le palpebre e appoggiando la faccia esangue contro il vetro - E quello cos'è? E' anche lui della squadra? Che diavolo sta succedendo qui? E perché, da quando sono entrato nel tuo bar, non è più passata una macchina?
Un vento gelido, l'intollerabile vento della Palude in Penombra che spirava da ottobre a gennaio, afferrò alcune cartacce disseminate dinanzi alle pompe e le scagliò tra i piedi violacei dell'essere che stava avanzando. La luce aliena ora aveva invaso tutto il cielo: le nuvole grigiastre di novembre, già oscurate da una notte impaziente, avevano ceduto la scena ad un mostruoso cielo d'alabastro violaceo che incombeva sopra un'immensa piattaforma da cui spiravano qua e là geyser nebbiosi dall'inedito andamento serpentiforme.
- La pianura è una selva oscura - rispose il barista con una voce che neppure più sembrava appartenergli - E io ho sonno...e paura. Guardatelo....GUARDATELO!
E i tre uomini non furono più in grado di staccare i loro occhi da quella cosa, là di fuori, che pareva un essere umano e che non lo era. Quelli del barista e del grasso si fecero più grandi sino a mostrare la sclera. Invece Faccia da Killer sembrava non esibire paure sul suo viso: le labbra non tremavano, il sudore non imperlava copiosamente la fronte, le narici non si dilatavano per suggere la poca aria artificiale dell'autogrill. Faccia da Killer sentiva però che gli sfinteri stavano cedendo. Nulla al mondo, forse, poteva scuoterlo. Nulla, tranne la constatazione che quella stazione di servizio ora non si trovava più sull'autostrada A 26, vicino ad un paese fantasma che la gente chiamava Roccanera. Quella stazione di servizio era stata prelevata dalla gigantesca e graziosa mano del Grande Demiurgo (o di uno dei Grandi Colpevoli, ma a quel punto che importava il loro numero e il fatto che in ogni caso fosse sempre colpa loro?) e depositata su un altro pianeta dallo squadrato paesaggio geometrico e dal cielo color drappo funerario. Un mondo, sul quale aveva trovato ospitalità anche la sua vettura, con le altre trasferita con tutta l'area di parcheggio, e del quale normali abitatori si dimostravano essere possenti uomini nudi scaturiti da un asteroide piovuto dal cielo, falsi poliziotti a corto di benzina e vecchie donne a bordo di un'Isotta Fraschini sempre a caccia di carburante.
BENZINA, PREGO! Così funzionava sul pianeta di Mazinga, notevole località di villeggiatura sulla quale, se spingevi una gamba in avanti con l'intento di raggiungere il nord, questa ti tornava indietro perentoriamente diretta a sud. BENZINA, PREGO! E forse l'Apollo di colore, che ormai aveva raggiunto l'area di manovra davanti alle colonnine, avrebbe chiesto pure lui del carburante, magari infilandosi subito dopo la pompa sotto l'ascella laddove si trovava il tappo del serbatoio. Insomma, dov'era la stranezza?! Forse, perché era scuro, avrebbe dovuto usare benzina verde?....MA NO, AVREBBE CHIESTO BENZINA QUALUNQUE E...
- Guardatelo...GUARDATELO! - aveva urlato il barista, perdendosi dalla bocca gli ultimi cinque chilogrammi che gli erano indispensabili per restare in vita.
Dall'altra parte del vetro uno squarcio di una decina di centimetri si era aperto sul braccio destro dell'uomo nudo. Lui lo guardò stupito, senza dare l'impressione di provare dolore. Poi, quasi per apparente istinto, si portò una mano sulla ferita come se volesse tamponare il repentino zampillo del sangue. Lo stupore sul suo volto durò pochi istanti. Quattro slabbrature gli si allargarono contemporaneamente sulla pelle della fronte, di una coscia e sul torace, mulinando liquido rosso scuro in tutte le direzioni. Gli occhi del meticcio, sgranati in un'espressione d'incredulità, trasformarono quel volto maschio e alieno in una grottesca maschera di carnevale. Era come se qualcuno, invisibile ai tre malcapitati asserragliati nella stazione, stesse straziando con un'arma affilatissima le carni dell'uomo venuto dal cielo.
Niente più a quel punto pareva aver senso. Il naso, colpito in modo orripilante, si spiaccicò, deformando la mandibola e seminando sul selciato, reso già viscido dal sangue fuoriuscente, brandelli di cartilagine e denti frantumati. Il negro cadde sulle ginocchia, mentre una tempesta di tagli e di lacerazioni si abbatteva in ogni zona del suo corpo.
Nonostante la presenza del doppio vetro antiproiettile della finestra panoramica, il sinistro rumore dell'invisibile arma (Rasoio? Collo di bottiglia? Lametta? Le tre immagini della possibile arma bianca offuscarono ulteriormente la mente di Faccia da Killer) che lacerava le carni della creatura attraversò lo spazio interno del bar e costrinse il grasso a comprimersi freneticamente le orecchie: il suono pareva identico a quello di un foglio di carta oleata tagliato a metà da un coltello seghettato. E l'uomo che poco prima aveva esposto la sua teoria sull'effetto serra si allontanò dalle vetrate e si tuffò sotto il bancone ai piedi dell'impietrito barista.
Il martirio continuò nel silenzio irreale del mondo esterno, ormai divenuto sconosciuto e ostile. La bocca del meticcio ogni tanto si apriva, ma non un suono usciva da quella cavità martoriata. Tentò di alzarsi, mentre brandelli di carne volteggiavano nel vento come lacere bandiere. E quando il negro cadde disteso a terra in una vischiosa pozza di plasma, l'invisibile massacratore proseguì imperterrito la sua opera di distruzione tra spruzzi di fibrille rossastre e volanti schegge di carne viva. Durò un incalcolabile numero di minuti. Quando la carneficina terminò, ciò che restava sullo spiazzo dinanzi al bar era semplicemente indescrivibile. E già sulla massa informe si precipitavano nugoli di mosche aliene.
Il giovane si voltò a cercare conforto nello spiritato volto del barista. Del grasso romagnolo apparivano solo i piedi tremanti che spuntavano dal lato sinistro del bar. Avrebbe voluto formulare la domanda più logica (Amico, proviamo ad uscire dal retro? Vuoi? Magari da quella parte ce la facciamo!, oppure C'è uno sgabuzzino nel quale nascondersi?), ma la sua bocca, senza che lui potesse opporsi, prese a cantilenare:
- Perché la pianura fa così tanta paura? Perché proprio qui?
Le risposte furono le lacrime del barista. Poi mancò la corrente. E infine qualcuno, là fuori, spense anche la luce violacea di una pianura mai vista da occhio umano. E nel buio ondeggiante e vorticoso, sul vetro panoramico si dipinse il temuto volto dell'Angelo Sterminatore, colui che a volte era una vecchia, a volte un poliziotto oppure un giovane dal sogghigno cinico e un buffo cilindro alla Mandrake. E nelle sue mani, pelosi artigli di belva preistorica ingobbita e urlante, brillarono le sacre spade di una nuova, sanguinaria, occulta guerra: gigantesche e affilatissime lamette da barba, che nessun rasoio conosciuto al mondo avrebbe mai potuto contenere.
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Immaginate di aver lasciato alle vostre spalle Bassavilla la Grigia, la città del Ponte del Diavolo e dei due fiumi (di cui uno, uno soltanto, particolarmente inquieto) e di aver preso l'autostrada verso la Palude in Penombra, in direzione della Milano da bere, la Tangentopoli di sangue assediata ogni giorno di più dalla gente del Caribe e dell'Africa, quelle carnagioni scure e scorticate che la polizia sospetta di praticare il Palo Mayombe. Immaginate, se ne avete voglia, di essere un giovane vestito soltanto di pelle nera, dallo sguardo talmente cinico che qualcuno non avrebbe difficoltà ad appiopparvi il soprannome "Faccia da Killer". Di essere alla guida di una buona macchina e di amare gli autogrill oscuri, dove fermarsi per sgranchire le gambe e bere un buon caffè
Bene, se la vostra immaginazione corre lungo i binari della logica, una volta superata la Moira, vi sarete accorti che le stranezze nella pianura sono di casa: l'umidità non fa che aumentare ed un violento e gelido vento si alterna paradossalmente a muraglie biancastre di nebbia e qualcos'altro d'indecifrabile.
Sembra di entrare e di uscire di continuo attraverso porte invisibili che vi collegano con mondi simili al nostro. Una similitudine solo apparente. Perché i particolari, che sono quelli che contano, la dicono lunga: i paesaggi, per fare un solo esempio, vi sembrano fuoriusciti dall'incubo di un pittore pazzo. E sono troppi i fantasmi della strada che vi chiedono un passaggio. A quel punto anche la Milano da bere vi apparirà troppo lontana per pensare di arrivarci senza una sosta per mangiare, per riposare e fare quattro chiacchiere con gente, si spera, simpatica. Ed eccola, la stazione di servizio del magro, con insegne che scintillano come luci del luna park. Solo che si spengono subito, appena vi fermate sotto le frasche del parcheggio.
Sì, la sosta (con tutto quel repertorio di assurdi imprevisti: il bovino romagnolo, i racconti da film dell'orrore del barista, la cosa piovuta dal cielo e tutto il resto, che magari avete già preferito dimenticare) non è proprio andata secondo i piani. Fino a un certo punto ce l'avete fatta a mantenere la calma. Poi, quando sono apparse quelle gigantesche lamette, l'impresa si è rivelata impossibile. Perché, per quanta immaginazione possediate, alla spiegazione non ci arriverete mai.
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Di notte soprattutto tossici in crisi di astinenza o in overdose, feriti in risse di prostitute, pazzi e malati veri in preda a dolori insopportabili. Di giorno incidenti, colpi apoplettici, vittime di sanguinose rapine oppure coniugi che decidono di risolvere i loro vecchi problemi con l'aiuto di coltelli, mannaie o qualsiasi altro corpo contundente. Roberta Blanchard conosce bene la routine del Pronto Soccorso. Non si dimostra più tesa ed agitata come le prime volte. I suoi gesti e le sue parole hanno ormai acquistato la meccanicità che impone quella particolare sorta di abitudine al dolore. Una maschera che spesso si presenta al prossimo come un indizio di tetra rassegnazione. In certi, rari casi la maschera sembra esprimere fastidio. Anche perché Roberta, trent'anni appena compiuti, è bella quanto può esserlo a volte la sofferenza. Struccata, il volto pallido, con una leggera ombra violacea sotto gli occhi, i capelli corvini sciolti sul camicie bianco, la femminilità prorompe da quella superficie apparentemente dimessa e intenzionalmente non valorizzata dalle risorse di mille (inutili secondo lei) prodotti di bellezza.
Mentre si dirige verso l'ufficio dell'accettazione, Roberta avverte un piccolo rumore sulla destra, proprio dove il corridoio si confonde in un'aliena penombra, e alza di scatto la testa. E' la signorina Trifoglio, capoinfermiera della Prima Medicina. La collega appare stanca e depressa, ma chi non lo è in quei gironi infernali? Inoltre, a cinquant'anni ormai prossimi, la signorina Trifoglio non ha mai incoraggiato - almeno così sostengono le malelingue del reparto - nessun esponente del sesso avversario a farsi largo nella mischia della vita per giungere sino a lei. E la malinconia ormai la circonda come un'aureola di beatitudine.
- Il signor Vangoni si è mosso - prende a riferire la Trifoglio - Non è ancora sveglio perché il dottor Casini gli ha somministrato un sedativo due ore fa. La signora Meniconi ha più di 37 linee di febbre. E poi c'è l'ingegner Di Lenardo che accusa dolori al plesso solare. Venti minuti fa l'ha cercata la dottoressa De Chirico.
- Grazie, signorina Trifoglio. Vado a prendere una tazza di caffè. Facciamo un giro alle sette.
Mentre la capoinfermiera si dilegua, la porta dell'ascensore si apre cigolando davanti a Roberta. Due giovani infermieri ne escono sghignazzando. Lei entra e, dopo alcuni secondi, scende al secondo piano. Il lungo corridoio che le si para davanti, dove alcuni degenti strisciano le ciabatte sul pavimento con il passo di chi sembra da poco guarito da una paralisi, le ricorda l'ambiente di uno stupido film visto alcune sere prima in televisione. Un pazzo che tutti, medici compresi, avevano dato per morto si era risvegliato nella sala mortuaria di un inverosimile ospedale americano e aveva preso a sgozzare chiunque. Un'insopportabile cretinata. Sta per entrare in ufficio per telefonare alla dottoressa De Chirico, quando dalla finestra che si apre sul cortile esterno al Pronto Soccorso arriva l'ululato dell'ambulanza accompagnato dalla tipica, baluginante luce. Sente una morsa al petto e un profondo senso di frustrazione: questa sera accetterebbe anche un'insopportabile cretinata in un cinema del centro, pur di non stare ancora con la morte al lavoro dinanzi agli occhi
Apre la porta e si siede alla scrivania. Compone il numero diretto della De Chirico, ma nessuno risponde agli squilli che si susseguono implacabili per una dozzina di volte. Come abbassa il ricevitore, il telefono suona, quasi facendola sobbalzare perché inatteso. E' Casini, suo collega di turno per quel pomeriggio al Pronto Soccorso.
- Roberta? Hai voglia di venire giù? Sono al Pronto Soccorso, ala sud.
- Che succede?
- C'è qualcosa che devi vedere. Non perdere tempo, corri.
Roberta appoggia la cornetta con un inatteso senso di sgomento. Come può esistere al mondo (nel suo mondo di disperati che lottano ogni secondo contro la morte incombente) qualcosa che non ha ancora visto?
Quando, dopo pochi minuti, lo vede, sente in bocca il rigurgito acido della nausea. In ospedale, dopo un po' di tempo, si fa il callo a tutto. Ad ogni forma di degenerazione, di disperazione e di dolore. Ad ogni travestimento che la morte sceglie per stupire sempre di più il genere umano.
Quello che Roberta guarda disteso sulla barella è per lei inedito, sconvolgente, diabolicamente ipnotizzante. Un corpo scorticato e sfigurato da centinaia di tagli. Una povera creatura massacrata in un modo abietto e disumano. L'arma usata dev'essere qualcosa di molto simile ad una grossa lametta e colui che ha infierito su quel disgraziato non ha risparmiato il più piccolo centimetro quadrato della pelle: mani, faccia, testa, occhi, piedi, tutto appare tagliuzzato e scarnificato, così che la misera tuta indossata dall'uomo disteso sul lettino a pochi metri da Roberta si presenta quasi come una seconda pelle intrisa di sangue raggrumato e lacerata in un numero incalcolabile di punti. Il pavimento sotto il lettino di metallo su cui giace il corpo ospita una pozzanghera rosacea che si allarga a vista d'occhio. Ciò che rimane del volto sembra appartenere ad un meticcio, forse uno dei molti extracomunitari che arrancano ai margini della metropoli. Il naso, colpito da un taglio forse più violento degli altri, si è spiaccicato al punto da apparire come un'informe protuberanza fungosa. Le zone dermatiche non offese dalla furia dai carnefici si sono gonfiate come vesciche al punto estremo di tensione e scollamento. E un penosissimo gorgoglio semiliquido, proveniente dalla laringe del disgraziato, denuncia che in quel corpo violentato oltre ogni pensabile misura la vita, pur ridotta ad un fuoco fatuo, tenta ancora di vincere. La vita è presente, e con lei un dolore fisico neppure immaginabile.
Il mondo si offusca per alcuni, terribili istanti. Roberta si appoggia alla parete alle sue spalle, alla ricerca di qualcosa che le impedisca di cadere. In nessun catalogo fotografico di patologia criminale, tra quelli che ha sfogliato numerose volte durante gli anni dell'università, ha mai visto tanta ferocia.
Casini le si avvicina e le cinge le spalle. Entrano altri due medici, un anestesista e un patologo.
- Non so come.... E' ancora vivo, ma c'è una setticemia in corso. E forse dell'altro...gli strumenti con cui gli hanno fatto questo sono stati intinti in qualche veleno. Stiamo aspettando le analisi. Vieni, usciamo. Facciamo lavorare i ragazzi.
Vanno nel suo ufficio. Gianmaria Casini, medico traumatologo, ha soltanto tre anni più di lei, ma pare già sulla quarantina. E' uno di quei tipi nati vecchi, con pettinatura fuori moda e tempie precocemente ingrigite. Non ha mai fatto parte del flusso del tempo che ha trasportato più d'una generazione alla grande foce delle scelte storiche. Nulla lo ha mai riguardato, né la musica, né le lotte politiche ai tempi dell'università, né l'impegno sociale. Neppure sesso e cocaina.
Quando entrano, lui accende le lampade fluorescenti sul soffitto. L'ufficio di Casini lo rispecchia in pieno, talmente asettico è al pubblico: soltanto un lungo tavolo e poche sedie. Niente alle pareti. Tutto ciò che veramente importava si trova nei due computer a fianco della scrivania.
- Chi è quel poveraccio? - chiese Roberta con aria stanca.
- Non lo so, ma proviene dai Caraibi - rispose Casini, sedendosi allo schermo e iniziando a battere sui tasti - Almeno così dicono i documenti in quella tuta. Da un posto che si chiama Guana. In ogni modo sta arrivando la polizia. Lo hanno trovato in una baracca vicino all'autostrada per Genova. Ha perso troppo sangue, credo. La pressione è ai minimi termini e le vene sono quasi collassate. E' un caso del tutto fuori norma. Ti fa venire in mente qualcosa?
- No, per niente - risponde Roberta, accasciandosi sulla sedia solitamente riservata ai pazienti - Anzi, qualche film dell'orrore. Hai parlato di veleno?
- Forse lamette intinte nel curaro. Lo scopriremo sugli esiti. Ma quello che c'è di veramente sconcertante sono le testimonianze di alcuni testimoni. Il tipo era da solo dentro la baracca. Tre suoi amici, o presunti tali, si trovavano all'esterno. Hanno udito urlare. Si precipitano dentro e lo vedono saltellare come un'anguilla sul pavimento, con il sangue che schizza da tutte le parti. Secondo loro, non c'era nessuno.
- Se fossi un poliziotto, li metterei in galera.
- Anch'io. Alla polizia hanno affermato che è un rituale, un attacco psichico, come lo chiamavano questi cultori del voodoo. Secondo loro, qualcuno ha infierito con una lametta su qualche figurina di cera.
- Sono balle.
- Ne sono convinto.
Roberta si alza. Casini non lo regge per più di cinquanta secondi.
- Ti mando la cartella, appena è pronta - le dice lui, mentre lei oltrepassa l'uscio dello studio per rituffarsi nei corridoi della sofferenza. E così, mentre il medico torna a tasteggiare, con il suo volto che riprende la normale, sterile espressione di sempre, Roberta attraversa l'ala vecchia dell'ospedale, la meno deprimente, quella con meno odori disgustosi e dove riesce ad imporsi un minimo di training autogeno con il solo attraversamento dei corridoi. E' distratta soltanto per pochi secondi da un lettino con i lati cromati, spinto da un giallognolo barelliere, sul quale un lenzuolo gualcito suggerisce l'idea che qualcosa di totalmente "fuori norma" (per dirla con Casini) giaccia lì sotto. Poi una donna molto anziana, avvolta in una vestaglia sfilacciata, le sorride prima di cominciare a protestare contro il nulla a causa di un ascensore fermo per manutenzione. Roberta se ne ricorda vagamente: la donna ha 82 anni ed è classificata come terminale per una grave forma di tumore addominale. Neppure l'ultimo centimetro del suo Sunset Boulevard privato si dimostra esente dalla più atroce delle sofferenze. Dio, non esisti!, ha la tentazione di urlare sotto quelle volte scrostate. Ma, dopo pochi metri dall'ascensore bloccato, Roberta si ritrova di nuovo all'interno dei suoi meravigliosi e fondamentali processi autodistensivi. Solo dentro di lei quelli riescono a diventare i "corridoi della felicità ". Ma dura poco. Quando Roberta torna al secondo piano, trova la cartella clinica del paziente sfigurato: da questa apprende che l'uomo ha 35 anni, si chiama Paco Ignacio e qualcos'altro di non memorizzabile, ed è stato seviziato con oltre 660 tagli di lametta all'apparenza immersa nel curaro.
Solleva la testa e sbuffa irritata: un'emicrania coi fiocchi sta guadagnando terreno a grandi passi.
Più di seicentosessanta tagli! Quanto tempo è durato quello stillicidio di morte? Un'eternità. E che senso ha? Cristo, degradata, sporca e di plastica, quella è pur sempre Milano. A Milano nel 2001 non si può morire in quel modo.
Morire? Il poveretto non è ancora morto. Perché lo ritiene già scontato? Il medico...la missione del medico, quel labirinto circolare di cui spesso si perde la strada dell'uscita. Il medico non deve mai dare per sicura la perdita di un paziente, nemmeno quando ogni più piccola cellula o la più inutile delle terminazioni nervose sono devastate dall'inarrestabilità del cancro.
Il cancro…Mio Dio,devo uscire da qui!
Riprende a leggere: due minuti dopo che lei e Casini sono usciti da quell'anticamera dell'incubo a cielo aperto, qualcuno ha aperto un nuovo buco nel corpo dell'infelice, per la precisione nella trachea, cercando d'inserirsi tra il trecentonovantottesimo e il trecentonovantanovesimo squarcio. Un altro "qualcuno" vi ha infilato una cannula e l'anestesista ha aperto una valvola, spingendo il gas in quei polmoni forse ostruiti da altro sangue. Routine. Routine. L'orrore è la routine.
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In una spoglia stanza del Pronto Soccorso dell'ala sud il dottor Casini, asettico e guantato, si accostò al tavolo dov'era adagiato il martoriato corpo dell'uomo che veniva dai Caraibi. Tre medici stavano tentando, da oltre un'ora, di suturare e disinfettare i tagli che avevano scorticato ogni millimetro quadrato del disgraziato. Ma le lacerazioni erano troppe e un misterioso veleno, forse curaro, circolava nell'organismo dell'uomo che si chiamava Paco Ignacio e aveva un cognome poco memorizzabile. La lametta era penetrata nelle carni per 666 volte: una fredda, lucida follia di cui mai si sarebbe trovato un adeguato precedente in alcun testo di criminologia.
Mentre Casini si dispose nell'attesa di un paio di strumenti che dovevano uscire da un sibilante sterilizzatore, il dottor Alberti, l'anestesista, gli si avvicinò e mormorò:
- Costui se ne andrà, Gianmaria. Ma finirà certamente sui libri. Questo è l'omicidio rituale più orripilante che si sia mai visto. E nel tuo ufficio ci sono tre poliziotti che vogliono la fotocopia della cartella.
Per Casini era come se intorno a lui nessuno stesse profferendo parola. Era assorto in un'estatica contemplazione dell'orrore di carne che giaceva sotto di lui. Sulla sua destra gli strumenti di monitoraggio facevano sentire i loro deboli, ma costanti segnali.
- Abbiamo trasfuso sangue di tipo O - continuò Alberti nella convinzione che ogni suo verbo giungesse regolarmente a destinazione - ma ora dobbiamo metterlo sotto EEG, per vedere se è effettivamente vivo. Da quel poco che si riesce a capire, il cervello non dovrebbe avere lesioni. Chi ha fatto questo, ha impugnato una lametta apparentemente più grossa del normale e l'ha adoprata come un rasoio. Tagli profondi, ma...
- Ma inferti con una forza sovrumana - lo interruppe Casini, quasi svegliandosi da un leggero stato di trance - Una lametta non riduce un setto nasale in quelle condizioni. Incide la cartilagine, ma qui abbiamo l'osso sbriciolato. In ogni caso diamoci da fare con l'EEG.
Alberti si diresse verso il monitor dell'elettroencefalogramma. E in quel momento Casini ebbe una strana sensazione, come se qualcuno, invisibile ma solido, gli succhiasse dalle labbra il suo stesso respiro. Poi, in rapida sequenza, la luce elettrica vacillò, la forma umana sotto il lenzuolo insanguinato ebbe un sobbalzo e il tracciato del battito cardiaco divenne una linea continua, diffondendo nell'aria un acuto segnale di morte.
- Gesù santissimo! - urlò Alberti - Che è successo alla corrente?
- Non è la corrente - rispose Gianmaria Casini - Semplicemente ci siamo persi l'uomo dei Caraibi.
- E cosa c'entra la luce elettrica di Milano, Gianmaria? Hai visto là fuori, per caso? E' mancata la corrente per pochi secondi.
- Calmati, Alberti. Si tratta di una semplice coincidenza.
- Cristo Santo, ma siete sicuri che si trattasse di un extracomunitario? - chiese Della Valle, il patologo che si stava già togliendo il camice insanguinato in un piccolo vestibolo che fungeva contemporaneamente da spogliatoio e antibagno - Prima che giungeste voi, ha mormorato solo due parole…Ma l'italiano era perfetto.
- Quali parole?
- Benzina, prego…L'ha ripetuto più volte…Benzina, prego.
Casini alzò le spalle. Il caso, a suo parere, appariva chiarissimo. Alla polizia, in ogni caso, l'onere di procedere nei confronti di quei tre assassini che intendevano spacciarsi per semplici testimoni.
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Giunti a questo punto, quasi alla fine, non vi chiederò più se avete viaggiato da queste parti. Le cose sono cambiate e nulla è più come sembra nelle vicinanze di Roccanera. Prima le stranezze accadevano di tanto in tanto (Renato Pirri che attraversò la Palude nel 1986 e non giunse mai a destinazione; un autista senza nome che, due anni più tardi, investì un sacchetto di cocaina e si convinse, maledicendosi, di avere investito un bambino; il camionista colombiano e il poeta di Bassavilla, che videro pochi mesi fa qualcosa gravitare sull'orizzonte e per questo persero il lume degli occhi; il poeta che, prima di morire, scrisse che "in pianura alberga la sventura"....), oggi l'autostrada A 26 non ospita più automobilisti assetati di brivido o speranzosi d'incontrare l'erotico fantasma della strada.
Oggi, dopo quanto è successo poc'anzi (nell'Anno delle Piccole Lame, secondo il calendario dei Caboclos del Palo Mayombe), l'autostrada A 26 è chiusa al buon senso, alla razionalità e alla giustizia. Ed è invece aperta alla follia, alle allucinazioni e al Male. Il vento di pianura (che spesso soffia, e quando capita, tu riesci a vedere le cose che di solito sono nascoste dalla nebbia) porta la notizia da un capo all'altro della terra di coloro che viaggiano per professione o per diletto. Si sussurra, ad esempio, di tre uomini che sono scomparsi all'interno di un autogrill deserto. Loro scomparsi e le macchine regolarmente posteggiate all'esterno.
Scomparsi, ma dove? Sicuramente i Caboclos lo sanno, ma non ne parlano. Il fatto è che l'autogrill del magro e atterrito barista, colui che raccontava ai viandanti la favola dell'Angelo Sterminatore, si trova forse (sì, il forse è da sottolineare) sul confine tra due mondi paralleli. Il nostro, quello più o meno normale, e l'altro, il cosiddetto - in magia nera - "Medio Astrale", laddove è più o meno risaputo che, se vai a punzecchiare un corpo (appunto) astrale, te lo ritrovi punzecchiato anche da questa parte. E naturalmente sto parlando del corpo vero, quello con la peluria, gli odori e i vestiti. Punzecchiare? Sì, ho scritto una spiritosaggine.
I Caboclos, però, lo sanno e sogghignano. Dalla Milano da bere, dei tangentisti e della sfavillante vita notturna, un vento di follia proveniente dal Caribe si è mescolato con il vento di pianura, quello che spazza le nebbie dell'autostrada, provocando una sinergia di morte (una cosa occulta che in Brasile è chiamata la "linea dei cimiteri" e che fa uscire, dai cervelli che li ospitano, gli "Spiriti Ombra", spaventose forme larvali che si nutrono di morte e sterco, perché sterco è ciò che vogliono diventare), una sinfonia di lacerante terrore che ha imposto a tre casuali testimoni di assistere ad un vero omicidio rituale, eseguito sui "piani sottili".
E dove stanno ora quei tre? A Roccanera. E dove, se no? Peccato che un paese con questo nome non esista in alcuna carta geografica. Ma, al momento, non si sono ancora accorti dell'inghippo. Di sicuro sarà Faccia da Killer a scoprirlo per primo.
- Ehi, mucchio d'ossa! - sbraiterà verso il barista che nel frattempo sarà divenuto verde marcio per la paura - Hai idea di ciò che ci sta succedendo? E' come se non respirassi più, checcazzo! Siamo per caso in apnea in questo tuo fottutissimo bar? Mi sembra di non avere più i polmoni! Ehi, amico, dico a te! Ma…Il tuo fiato, cazzo, il tuo puzzolentissimo fiato! NON LO SENTO PIU'!


Danilo Arona (Alessandria 1950) giornalista pubblicista e direttore della rivista mensile "La guida della notte", vademecum piemontese dedicato agli usi e ai costumi del tempo libero notturno tra Alessandria a Milano.
Al suo attivo: un incalcolabile numero di articoli disseminati fra i giornali locali e non (Il Piccolo di Alessandria, Notes, La Stampa) e riviste varie (Robot, Aliens, Cinema & Cinema, Focus e Primo Piano); saggi sul cinema fantastico ("Guida al fantacinema" per Gammalibri, "Guida al cinema horror" per Ripostes, "Nuova guida al fantacinema" – "La maschera, la carne, il contagio" per Puntozero, "Vien di notte l’Uomo Nero – Il cinema di Stephen King" per Falsopiano) e saggi sul fantastico sociale ("Tutte storie" Costa & Nolan, "Satana ti vuole" Corbaccio, "Possessione mediatica" Marco Tropea Editore) e romanzi fanta-noir a rigida ambientazione italiana ("La penombra del gufo" e "Un brivido sulla schiena del Drago" per Amnesia e "La pianura fa paura" per l’Editoriale AGP). Ha curato le versioni italiane di "Rock Babilonia" di Gary Herman (Interno Giallo) e di "Secondo natura" di James e Phyllis Balch (Longanesi). Ha partecipato per tre anni consecutivi sotto pseudonimo al Premio Letterario per racconti fantastici "Città di Montepulciano", classificandosi sempre tra il 1° e il 2° posto, dimostrando così che le metà oscure sono i migliori compagni di viaggio per gli scrittori che vogliono avventurarsi per le oscure vie della paura e dell’inconscio.
Il suo romanzo "Rock" è disponibile presso il sito www.horror.it e recentemente ha pubblicato "Il Vento urla Mary" per PuntoZero.

"ROCK"
di Danilo Arona
(e-book in www.horror.it)
"VIEN DI NOTTE L'UOMO NERO
il cinema di Stephen King"
di Danilo Arona
(Edizioni Falsopiano)


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