JACK IN THE BOX
di Giuseppe Agnoletti

Perchè sono tornato qui?
Lo so è un luogo comune, si dice che l'assassino ritorni sempre sul luogo del delitto, ma per quale motivo? Forse per assicurarsi che, nonostante l'accaduto, tutto appaia sotto la tranquillizzante luce della normalità o per un inconscio desiderio di farsi scoprire? Magari per provare il brivido di potere passeggiare sulla superficie che nasconde, poco più sotto, il cadavere di chi si è ucciso.
Non lo saprei dire.
Comunque sia mi trovo ancora in questa vecchia casa diroccata, avvolta nella penombra quasi da chiesa che la pervade; il posto dove l'ho ucciso, e dove l'ho nascosto.
Ci conoscevamo da sempre, si può dire e parlo di una di quelle amicizie che avevano resistito a tutto, ma proprio a tutto. Credo che in fondo sia stato giusto così, se qualcuno doveva porre fine alla sua esistenza, la persona più adatta a farlo ero proprio io. Solo io e nessun altro.
Per quale motivo? Chiedete.
Detto così può sembrare banale. Sì avete indovinato, a causa di una donna, ma non una uguale a tante altre, altrimenti ce la saremmo divisa come abbiamo sempre fatto. Marina si chiama. Un nome semplice che a pronunciarlo riporta alla mente le basse dune di questo litorale sabbioso, il nome di una donna come, ne sono certo, mai ne avete conosciute di eguali. Bella certo, anzi splendida, ma con un qualche cosa in più dentro di sè che la rendeva una creatura quasi da sogno. Inconcepibile spartirla e non c'era altra possibilità visto che anche lui la desiderava.
È accaduto in questa casa abbandonata, nei pressi del fiume, vicino al luogo dove sfocia nel mare. L'inconfondibile dimora coi muri rossi intrisi di salsedine, capaci ancora di incendiarsi di un rosso cupo e violento quando il sole al tramonto filtra fra i salici che la circondano. Un tempo, quando eravamo bambini, era il nostro luogo di giochi preferito. Qui andavamo a caccia di fantasmi vagando, dolcemente terrorizzati, nella penombra delle stanze fredde e vuote. Fermi sulla soglia della scala in pietra grigia osservavamo i gradini gonfi d'umidità precipitare e scomparire in quella sorta di pozza oscura che era l'accesso al seminterrato. Trattenevamo il fiato, poi, prendendoci per mano, iniziavamo la lenta discesa. Loro erano laggiù e ci aspettavano. Sapevamo, nelle nostre fantasie infantili, che gli spiriti amavano rintanarsi in quel luogo sotterraneo e che di sicuro, nell'angolo più buio, dove giaceva accatastata una pila di vecchie tegole ricoperte di muschio viscido e verdastro, ci avrebbero teso un agguato.
Quanto tempo è passato da quei giorni.
Tutto sembra uguale a come era allora in questa casa, la cui rovina procede lenta, ma inesorabile, e un anno o dieci che siano trascorsi non cambiano che in maniera impercettibile la sua gotica atmosfera.
Avanzo di qualche passo in direzione del camino. È qui che l'ho ucciso, proprio qui davanti, si vede ancora la macchia scura del suo sangue rappreso e assorbito dal pavimento. È stato sufficiente un solo colpo della trentotto che avevo nascosto in tasca, a così breve distanza non potevo sbagliare. Non ha fatto una faccia sorpresa, quasi come si aspettasse una fine simile e, per un istante, mi ha sfiorato il sospetto che fosse venuto all'appuntamento animato dalla mia medesima follia omicida. Non gli ho frugato nelle tasche e quindi non so se avesse avuto con sè un'arma da fuoco. Ho rispetto per i morti. Gli ho solo chiuso gli occhi così come si deve e, mentre trascinavo il suo corpo verso l'ultimo giaciglio, ho mormorato una preghiera per lui.
Poi ho pensato allo scantinato. Ho pensato che quella coltre di tegole potesse essere un nascondiglio perfetto, ma adesso l'ingresso da cui si accede alla scala che porta lì sotto è come sempre avvolto nella penombra e io non ho il coraggio di scendere a controllare che tutto sia come l'ho lasciato…

Improvviso, quasi lacerante in quel silenzio irreale, il motore di un'automobile. Un suono ben noto e inconfondibile, che sembra proprio essere quello della sua macchina, ma è impossibile naturalmente.
Mi avvicino ad una finestra e da una fessura fra le imposte sconnesse scorgo il BMW nero traspirare le ultime gocce di gasolio combusto e arrestarsi davanti alla casa. Leggendo la targa provo l'assurda sensazione che il cuore perda un colpo e poi si fermi. È lui che scende. Sorride dicendo qualche cosa a Marina seduta sul sedile accanto a quello di guida ed è, il suo, un sorriso pieno di vita.
Barcollo e mi appoggio al muro. Lui è morto e Marina, lo ricordo bene, a casa ad aspettarmi…
Sento nella mente una vertigine infinita, un pensiero che cerca di venire alla luce da un abisso di tenebra nel quale giace immemore.
Poi la porta si spalanca. Lui entra.
"E adesso?" mi chiedo.
Si guarda attorno con espressione circospetta. È teso, quasi spaventato. Fa finta di non vedermi, come se non esistessi neppure.
"A quale gioco sta giocando?"
Lo chiamo, ma non reagisce, nemmeno un sussulto. Ha sempre posseduto, e io glie lo invidiavo, un sangue freddo eccezionale. Mi muovo verso di lui e cerco di afferrarlo, ma le mie braccia stringono il vuoto. Avanzo ancora e il mio corpo attraversa il suo fluttuando fra un groviglio di organi interni senza incontrare alcuna resistenza. Mi colpisce la repellente nudità di quegli apparati altrimenti occultati sotto la pelle, il loro pulsare sincrono con i battiti del cuore mi appare rivoltante, disgustoso. È solo un attimo, poi sono dall'altra parte, stordito e sconvolto da quello che sta accadendo.
Mi giro di scatto e urlo il suo nome.
Ma lui non mi sente, anzi non sembra accorgersi minimamente della mia presenza. Grido ancora, più forte e le pareti sembrano rimbombare di infinite eco che rifrangono quel nome che, in un'epoca remota, era appartenuto ad un arcangelo; ma adesso il suo volto è così contratto e duro da ricordare, invece, quello di un angelo sterminatore.
Questa volta alza il viso, come se avesse udito un suono a malapena intelligibile provenire da chissà quanto lontano, poi scuote il capo e prosegue convinto che tutto sia frutto della sua immaginazione.
Ora è davanti al camino e osserva la macchia di sangue sul pavimento. Con raccapriccio mi accorgo che si dirige verso le scale che conducono allo scantinato. Esita un istante come per prendere coraggio e rivedo ancora me e lui, due bambini ritti sulla soglia che conduce all'orrore.
Ma è da solo adesso.
Il mio corpo è scosso da tremiti convulsi e non sono neanche più in grado di parlare. Rimango più indietro e lo seguo a distanza nella discesa. Una volta giunto al livello del sottosuolo si dirige senza indecisioni nella stanza dove l'avevo sepolto (dove credevo di averlo fatto.).
Il tumulo è sempre lì, apparentemente intatto, e io sono sconvolto al pensiero di quello che potrebbe esserci sotto.
Toglie le tegole ad una ad una, con gesti misurati, delicatamente fino a scoprire il mio corpo che si rivela, fra i coppi ricoperti di muschio, come un cadavere incrostato di alghe e appena affiorato da un abisso marino. Il volto appare sereno. Gli occhi chiusi, le mani ben composte e incrociate sul petto.
Gli sono grato di queste attenzioni, ma non vedo alcun foro di proiettile, almeno sul davanti…
"Mi hai colpito alla schiena, vigliacco!" mi viene spontaneo esclamare senza che lui, comunque, senta alcunchè.
"Non c'era altra scelta, lo sai anche tu."
Dice mentre una lacrima gli riga una guancia.
"Avevi pensato la stessa identica cosa, ti ho trovato una pistola nelle tasche e so che l'avresti usata se non ti avessi preceduto, si trattava di me o di te!"
Comincia a ricoprire il mio corpo con le tegole e quando ha finito esclama in un soffio: "Riposa in pace, qui non ti disturberà nessuno, io non posso fare altro. Ora mi aspettano e devo andare."
"Addio!" dice volgendosi un'ultima volta.
Si gira e risale la scala avviandosi verso l'uscita dove Marina, ignara di tutto, lo aspetta in macchina.
Non cerco più di fermarlo, non riuscirei a nulla, e poi, ormai. Lo seguo come un'ombra, ma in fondo non è quello che in realtà ora sono?
Lo vedo aprire lo sportello dell'auto e Marina protendersi verso di lui e baciarlo sorridente. E allora un impeto di rabbia mi lacera dal profondo. Cerco di uscire, ma la casa è come una prigione insormontabile le cui pareti respingono ogni tentativo di varcarne i confini.
Il motore viene acceso e l'automobile si avvia con un leggero rombo.
Partono, vanno via per sempre, mentre io rimango qui fra le decrepite mura di questa casa morta e abbandonata. Cadavere fra cadaveri di muri fatiscenti, fantasma tra i fantasmi delle presenze che una volta l'abitavano.
Talvolta può accadere.
Avevo sentito raccontarlo, o forse lo avevo letto. La morte violenta e rapida, troppo rapida, ha reso in qualche modo la mia anima prigioniera di questa casa per una eternità di solitudine e di tenebra.
Sono come un "Jack in the box" chiuso nella sua scatola di cartone fino a quando un incauto visitatore ne solleverà il coperchio. Un pupazzo a molla pronto a scattare e a ghignare isterico. Voi che passerete di qui state alla larga da questa dimora, perchè di notte io gemerò di rabbia e di dolore, tenetevi lontano da questo spirito reso pazzo dalla morte, perchè io vi farò paura!

Qualcosa si muove.
Qualcosa o qualcuno che viene su dalle scale mentre io aspetto indifferente a tutto.
Appaiono uno ad uno, lentamente, con la calma di chi abbia secoli davanti a se. I loro corpi traslucidi fanno capolino dalla soglia del seminterrato.
Spettri, gli spettri che infestano questa casa, quelli che non ero mai riuscito a vedere, quelli che per noi erano solo una fantasia di bambini. Mi osservano curiosi, quasi stupiti mentre sembrano esclamare:
"Guardate!…Il nostro vecchio compagno di giochi!"





N.d.A.
Jack in the box:
Nei paesi anglosassoni viene così chiamato quel pupazzo costituito da una testa fissata ad una molla e contenuto in una scatola a forma di cubo.
Aprendo il coperchio, il pupazzo schizza fuori e ondeggia mostrando il sorriso disegnato sul volto, sorriso che a volte sembra davvero un ghigno isterico e feroce.


GIUSEPPE AGNOLETTI (Galeata, 1957) Qualche notizia sull'untore, pardòn. sull'autore. Agnoletti Giuseppe nasce la bellezza di quarantacinque primavere fa, anzi qualcuno dice che sia nato già vecchio, ma ancora dobbiamo riferire di lui come di un perfetto sconosciuto: un U.F.O., un oggetto misterioso che nessuno conosce o ha mai sentito nominare.
Cosa abbia fatto in quel lasso di tempo, di cui sopra si fa menzione, nulla ci è dato sapere; a chi lo interroga al riguardo riferisce, semplicemente, di avere letto. Quello che è certo è che verso i quaranta è stato assalito da una strana e violentissima febbre che gli ha lasciato i postumi di una sindrome scrittoria dagli effetti piuttosto perniciosi. E da allora è pervaso dalla malsana abitudine di appestare tutti coloro con i quali ha la ventura di venire in contatto, tramite (secondo una sua opinabile definizione) racconti e romanzi.
Il vostro sito, purtroppo, è entrato a fare parte di tale sfortunata categoria di vittime. Ma siete ancora in tempo! Non pubblicatelo, anzi, non leggetelo neppure, e forse vi salverete.
Per completezza d'informazione occorre riportare la notizia della prossima pubblicazione di un suo romanzo ("Sulphur Company", ma probabilmente il titolo effettivo sarà un altro) presso un editore locale. La fonte risulta poco attendibile ed è lecito immaginare il tutto come una mera vanteria del soprannominato untore, e ridai. autore.
E-MAIL: Giuseppe.Agnoletti@siae.it

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